Congresso Fiom
DA LIVORNO UN FORTE NO ALLA CONCERTAZIONE
Il
congresso della FIOM, conclusosi a Livorno lo scorso 5 giugno, merita
un’approfondita riflessione da parte di chi partecipa alle vicende del
movimento operaio italiano.
Di là dal
folklore sui “duri della FIOM”, sparso a piene mani dagli organi di stampa,
resta il fatto che il maggior sindacato industriale italiano ha conosciuto in
questi anni un processo di decisa radicalizzazione.
Il
documento proposto dal segretario generale, Gianni Rinaldini (“Valore e dignità
al lavoro”), che è stato maggioritario, con oltre l’80% dei consensi, pur
partendo da un’analisi della fase d’impianto riformista e condividendo, con
buona parte della sinistra, illusioni come quella della “Tobin tax”, ha
segnato la rottura con la cosiddetta “politica dei redditi”, figlia degli
sciagurati “accordi di luglio” dei primi anni ’90.
Non a caso
il baricentro del documento di minoranza, proposto dal segretario nazionale
Riccardo Nencini (“Le ragioni del sindacato”) è stato proprio la
rivendicazione di questa politica, ovviamente con l’aggiunta
dell’immancabile aggettivo “nuova”, in ostentato accordo con i deliberati
del direttivo nazionale della CGIL.
Certo, tra
le ragioni che hanno portato il gruppo dirigente verso il congresso, non sono
state estranee le contraddizioni interne all’apparato burocratico. Tramite il
ricorso al pronunciamento della base la maggioranza della Segreteria Nazionale
ha tentato d’imporsi ad una parte del quadro intermedio, formatosi nei decenni
della concertazione e refrattario a qualsiasi, sia pur moderata, attività
rivendicativa. Come spesso accade all’interno della burocrazia non si è
trattato di un’opposizione politica aperta, bensì di una sorta di “muro di
gomma” che ha, in parte, respinto le iniziative, come ad esempio i
precontratti e le casse di resistenza, messe in atto dal gruppo dirigente
nazionale per uscire dall’impasse. Da questo punto di vista il risultato del
congresso è stato deludente: molti “oppositori passivi” sono saltati sul
carro del vincitore, limitandosi al massimo ad una guerriglia preventiva
d’emendamenti, durante la fase d’elaborazione dei documenti, come nel caso
degli emiliani intorno a Landini e Naldi. Lo spazio politico di Nencini si è
così ulteriormente ridotto, a scapito però della chiarezza politica.
Ma le
radici più profonde di questa discussione affondano nelle recenti vicende della
storia politica e sindacale e nei mutamenti che la classe operaia ha conosciuto
in questi anni.
La
vittoria elettorale di Berlusconi, giunta dopo un ventennio d’arretramenti e
sconfitte sul fronte dello scontro di classe ha segnato un salto di qualità
nell’attacco ai lavoratori. L’asse Berlusconi-D’Amato ha abolito il tavolo
triangolare Governo-Confindustria-Sindacati, puntando da un lato alla sconfitta
sul campo della CGIL (attacco all’articolo 18), perché individuava nella sua
base e nel suo apparato gli obiettivi politici da distruggere, dall’altro
trasformando direttamente in legge, senza nessun passaggio concertativo, i più
arditi desideri confindustriali, tanto che il premier ha affrontato la campagna
elettorale per il parlamento europeo vantandosi di aver reso il lavoro italiano
il più flessibile d’Europa. Ciò ha rappresentato un drastico mutamento
rispetto alla Costituzione materiale della prima Repubblica: i proclami
minacciosi e persino gli scioperi generali dimostrativi (le solite quattro o, al
massimo, otto ore, con manifestazione e comizio finale) indetti dalla CGIL, con
o senza CISL e UIL, sono rimasti lettera morta di fronte ad un governo che li ha
lasciati cadere nel vuoto e che si è bloccato soltanto di fronte ad un
movimento di massa come quello che, all’inizio del 2003 si era formato in
difesa dell’articolo 18, e che partito da un obiettivo prettamente sindacale,
si stava rapidamente spostando verso l’obiettivo della cacciata del governo.
In questa
situazione, l’Ulivo e annesso sottobosco si propongono semplicemente di
sostituire Berlusconi con Prodi nel matrimonio con la Confindustria.
L’alleanza ulivista, infatti, può vantare decenni d’esperienza nella
politica concertativa, cioè nel controllare e piegare il movimento dei
lavoratori alle esigenze del capitale. Da ciò hanno origine le sperticate lodi
che neo presidente confindustriale, Luca Cordero di Montezemolo, ha raccolto dai
ranghi dell’Ulivo e dei gruppi dirigenti sindacali confederali. Così come da
ciò nasce l’impegno che gli attuali dirigenti del “triciclo” misero, nel
2003, per far sgonfiare il movimento sull’articolo 18.
L’era
Berlusconi, unita all’erosione dei margini di manovra del riformismo dovuta
alla mutata situazione internazionale (fine delle periodiche svalutazioni della
lira, aumento della concorrenza dell’Est europeo e dell’Asia, ecc.) ha posto
il sindacato di fronte ad un bivio: o accettare d’integrarsi ancora più
profondamente nel blocco statal-padronale, diventando un apparato di gestione
d’alcuni suoi servizi, o candidarsi a rappresentare i crescenti bisogni dei
lavoratori sia in termini rivendicativi sia politici.
CISL e UIL
hanno scelto la prima opzione, firmando il “patto per l’Italia”,
sostenendo l’ulteriore disgregazione del lavoro dipendente introdotta dalla
“legge 30” e mantenendo uno spazio d’azione sindacale soltanto
all’interno delle “compatibilità” delle aziende. La CGIL, spaventata dal
suo stesso successo sull’articolo 18 il 23 marzo 2003 e dalle illusioni
alimentate dalla meteora Cofferati, … non ha scelto la seconda, rifugiandosi
nella pilatesca gestione Epifani.
Ma c’è
un altro importante elemento, invisibile ai media e alla politica, che va
valutato per comprendere l’evoluzione della FIOM: in questi anni le fabbriche
non solo non sono scomparse, ma si sono anche profondamente rinnovate. Sono
state adottate nuove tecnologie, ma soprattutto sono entrati decine di migliaia
di giovani che hanno dato il cambio ad una classe operaia, spesso molto
sindacalizzata, che in gioventù partecipò alle lotte dei primi anni ’70, ma
che, con decenni d’attacchi e di sconfitte sulle spalle, era ripiegata
completamente sulla difensiva. Questi giovani, che per entrare in fabbrica hanno
dovuto subire i ricatti di due anni di “contratto di formazione, che vivono
sulla loro pelle la flessibilità, che nella giungla degli appalti e sub-appalti
sono messi in concorrenza tra loro, che spesso sostituiscono un lavoratore di 5°
livello andato in pensione, ma sono inquadrati al 2° o 3° livello, che hanno
meno diritti di coloro che li hanno preceduti e rischiano di perdere anche
quelli, che vivono in una società che promette molto ma cha a loro da un
salario di 800 euro, che magari sono costretti a sfogare la rabbia per la loro
condizione solo la domenica allo stadio; sono disposti ad iscriversi al
sindacato e sono ancora più disposti a scioperare, ma non certo per una nuova
concertazione o per fare da tappetino sindacale al Prodi o D’Alema di turno.
Chiedono salario, diritti, ritmi meno gravosi e vedono nella FIOM e, in misura
minore, anche nei sindacati di base, una rappresentanza anche politica che non
trovano in una sinistra che sgomita per dividersi i futuri ministeri. Accanto a
loro lavorano decine di migliaia di migranti, che non hanno diritti, che non
votano, che la legge “Bossi-Fini” ha messo alla completa mercé del padrone,
che trovano nei lavoratori italiani sindacalizzati gli unici soggetti dai quali
ricevere solidarietà e sostegno.
Per
colmare questo vuoto politico a sinistra è indicativo il fatto che, negli
ultimi anni, il gruppo dirigente FIOM si sia dato un’identità sempre più
marcata anche su temi extra sindacali, differenziandosi spesso dalle scelte
delle CGIL: dall’adesione al movimento contro il G8, alla partecipazione al
movimento contro la guerre, alla raccolta di firme per il referendum
sull’articolo 18.
Tutti
questi elementi, validi per molte categorie, hanno influito soprattutto sulla
FIOM, sia perché i metalmeccanici sono una grande categoria scossa da decenni
da attacchi e ristrutturazioni, sia per le vicende della recente storia
sindacale.
Il rinnovo
del biennio salariale 2000-2002 del contratto nazionale, partito con una
piattaforma unitaria FIM-FIOM-UILM, si era concluso con un accordo separato,
firmato da FIM e UILM. Di là della pur importante differenza salariale rispetto
all’inflazione, tale conclusione sanciva un’importantissima vittoria dei
padroni: in barba a qualsiasi principio democratico, si poteva firmare un
contratto tagliando fuori il sindacato più rappresentativo e a nulla valsero le
oltre 300.000 firme raccolte dalla FIOM per invalidare l’accordo.
Con queste
premesse il rinnovo del quadriennio normativo ha visto la presentazione di due
piattaforme separate. Mentre la FIOM elaborava, sottoponendolo al voto dei
lavoratori, un testo che segnava alcuni punti di svolta rispetto al passato
(aumenti salariali uguali per tutti, recupero della produttività di sistema,
lotta alla precarietà, ecc) e metteva in atto un piano di lotte; FIM e UILM,
senza un’ora di sciopero, firmavano un accordo con Federmeccanica che, oltre a
prevedere un aumento salariale ridicolo, in cambio di una compartecipazione
sindacale ad enti bilaterali (per gestire, insieme ai padroni la formazione
professionale), lasciava in bianco i capitoli del contratto riguardanti i
rapporti di lavoro poiché sarebbero stati riempiti successivamente dalla legge
30. In pratica, invece di contrattare, si demandava la stesura di parte
dell’accordo ad una personalità imparziale: … Silvio Berlusconi!
Questa
operazione politica non si esauriva però solo nei suoi infami contenuti:
l’obiettivo strategico evidente era quello di mettere in un angolo il più
grande sindacato industriale del paese a futuro monito delle altre federazioni
di categoria della CGIL. L’unità sindacale si sarebbe potuta fare anche in
futuro, ma sul terreno scelto da CISL, UIL e Confindustria. Del resto anche
all’interno della CGIL la “quinta colonna” migliorista si stava dando da
fare per raggiungere lo stesso obiettivo, mentre, sul piano politico,
l’isolamento della FIOM era quasi completo (sole eccezioni il PRC, il PdCI e
il “correntone” DS).
L’accordo
fu dichiarato valido da Confindustria anche in assenza della FIOM che dovette
subire da FIM e UILM, da sempre contrarie alla consultazione dei lavoratori
sulle ipotesi d’accordo, anche un referendum-farsa.
Di fronte
a tutto ciò la FIOM attraversò una fase di forte disorientamento: tentativi di
invalidare il contratto per vie legali, appelli – ovviamente inascoltati –
al Presidente Ciampi, scioperi generali riusciti ma caduti nel vuoto, ecc. Dopo
un’aspra discussione nel Comitato Centrale la via d’uscita possibile fu
individuata nei cosiddetti pre-contratti. Si trattava di presentare, azienda per
azienda, piattaforme aventi come richieste qualificanti: la rinuncia alla legge
30, la riduzione della precarietà e aumenti salariali tali da coprire la
differenza tra quanto ottenuto da FIM e UILM e quanto richiesto dalla FIOM.
Questa scelta aveva al suo interno elementi contradditori: da un lato permetteva
di mobilitare i lavoratori, dalle situazioni in cui era più radicata, su
obiettivi raggiungibili e spezzare così il fronte avversario; dall’altro non
avvicinava in ogni caso la conquista del contratto nazionale, rischiando di
lasciare irrimediabilmente indietro le situazioni più deboli. Di fatto, sono
state avviate circa 2.000 vertenze e concluse 623 intese di cui 429 nelle sole
Lombardia ed Emilia-Romagna mentre otto soltanto nel Sud e nelle isole.
Risultati non certo trionfali, disomogenei e che si sono arrestati di fronte al
muro delle grandi aziende ma che hanno inaugurato una nuova fase di lotte, nella
quale è più importante resistere un minuto di più del padrone che fare un bel
corteo. Inoltre, l’intersecarsi delle vertenze precontrattuali con quelle per
il rinnovo degli integrativi aziendali, in alcuni casi (ad esempio in
Fincantieri), ha permesso di raggiungere ottimi risultati.
Ma il
risultato più importante, anche se non previsto, dei pre-contratti è stato
quello della lotta dei lavoratori della FIAT-SATA di Melfi. Fabbrica simbolo
della vittoria della FIAT sui lavoratori negli anni ’80, costruita nel vuoto
politico e sindacale, lontana da ogni aggregazione storica operaia, con una
classe operaia, giovane, ricattabile, poco sindacalizzata, con una FIOM
minoritaria rispetto agli altri sindacati, con condizioni salariali inferiori a
quelle degli altri stabilimenti FIAT e condizioni di lavoro più disumane, con
una gestione terroristica della vita interna. Il tentativo della direzione di
utilizzare i lavoratori della SATA contro quelli di due ditte dell’indotto
impegnati nella lotta per il pre-contratto, mettendoli in libertà per mancanza
di pezzi, ha avuto l’effetto contrario. Ventuno giorni di sciopero prolungato
(Si, proprio quello caro a Progetto Comunista ed inviso ai suoi molti critici),
al quale ha partecipato la maggioranza dei lavoratori presidiando i cancelli
notte e giorno per chiedere la fine delle discriminazioni salariali e normative
rispetto agli altri lavoratori del gruppo e del terrorismo interno. A nulla sono
valsi i maldestri tentativi di FIM e UILM di sabotare la lotta. La FIOM e i
COBAS si sono schierati decisamente con i lavoratori in lotta e l’ipotesi di
accordo con la FIAT – una chiara vittoria dei lavoratori – è stata
sottoposta al loro voto vincolante, ed approvata.
Il XXIII
Congresso nazionale della FIOM si è aperto in questo contesto. Nella sua
relazione introduttiva, il segretario generale Gianni Rinaldini ha adottato uno
schema d’analisi molto diffuso nella sinistra italiana. L’attuale attacco ai
lavoratori e al welfare state è spiegato con lo scontro tra un modello sociale
europeo, fondato sui diritti e sugli ammortizzatori sociali, e uno statunitense,
basato sul liberismo selvaggio. Questo è certamente il modo in cui oggi questo
fenomeno si presenta, ma così si eludono i motivi profondi della crisi del
welfare, cioè il fatto che il capitale tende a ricostruire i suoi margini di
profitto, erosi dalla concorrenza e dalla sovrapproduzione di merci, comprimendo
i salari e riducendo la quota destinata ai servizi sociali.
L’impostazione
riformista si evidenzia anche su un altro tema, anche questo caro a molta
sinistra e alla CGIL, come dimostrano le numerose citazioni del libro di Luciano
Gallino (La scomparsa dell'Italia industriale. Einaudi, Torino
2003). Ben inteso, il testo di
Gallino è estremamente interessante come storia dell’industria italiana negli
ultimi decenni, ma non risponde a una domanda che i suoi lettori, alla fine, si
pongono: come mai il capitalismo italiano è così pervicace nel gettare al
vento i suoi prodotti più innovativi e nell’affossare le sue industrie? I
riformisti invariabilmente concludono che il primo compito dei lavoratori è di
insegnare ai padroni a far bene il loro mestiere. Ma, noi marxisti, dobbiamo far
notare che l’obiettivo del capitale non è quello di produrre merci, bensì,
attraverso la produzione di merci, ricavare profitti. E quindi poniamo ai nostri
interlocutori un’altra domanda: in questi anni di declino industriale, i
profitti sono aumentati o diminuiti? Dalla risposta si ricava che i padroni
possono anche sbagliare, ma il capitale ha un istinto infallibile.
Ma nella
sua relazione Rinaldini ha fatto alcune affermazioni e proposte interessanti.
Sulla questione della democrazia, proponendo a FIM e UILM una discussione sulle
regole da adottare, ha proposto l’elezione su base proporzionale di tutti i
delegati delle RSU, superando così la norma che riservava alle organizzazioni
confederali la possibilità di nominare 1/3 dei delegati. Sullo stesso argomento
ha proposto l’elezione su base proporzionale di un’Assemblea nazionale dei
delegati da svolgersi contemporaneamente al referendum sulla piattaforma
contrattuale nazionale, che segua e decida sui passaggi della trattativa, mentre
l’ipotesi d’accordo dovrà essere sottoposta al voto dei lavoratori. Il
Segretario ha proposto anche che le deleghe sindacali siano rinnovate ogni tre
anni, e che le casse di resistenza siano finanziate anche con una quota della
delega stessa.
Sul piano
politico la relazione introduttiva ha rifiutato nettamente il “Patto tra i
produttori” ed ha ribadito il significato di sindacato indipendente:
“Sindacato
indipendente perché i nostri obiettivi, le nostre scelte di fondo sono gli
stessi con qualsiasi Governo e allora diciamo chiaramente che non pensi qualcuno
che in uno scenario politico diverso si possa dire: si è chiusa una fase, la
situazione del paese è drammatica, i conti dello Stato sono in realtà peggiori
di quelli che conosciamo, facciamo una riedizione del 23 luglio.”
Dal XIII
Congresso la FIOM è uscita senza componenti programmatiche. I sostenitori de
“Le ragioni del sindacato” hanno esplicitamente dichiarato la volontà di
non costituirsi in area organizzata, mentre “Lavoro e società – Cambiare
rotta” avendo aderito al documento “Valore e dignità al lavoro” non
esiste più nella FIOM. Ovviamente i compagni metalmeccanici continueranno la
battaglia in CGIL organizzati in “Lavoro e società”.
Lo
scioglimento della componente non significa la fine della battaglia nella FIOM,
anzi, è la continuazione della battaglia stessa da una posizione più avanzata,
per far sì che i buoni propositi espressi al Congresso diventino una realtà e
che Melfi sia solo un inizio.
Genova,
14/06/2004