Archiviazione del “caso Placanica”

 Movimento e critica dello Stato

 

di Federico Bacchiocchi

 

Di fronte all’archiviazione del “caso Placanica” occorre innanzitutto chiedersi: era un esito processuale scontato? o, quantomeno, era l’esito più probabile? Il modo in cui si affronta tale questione rivela e condiziona l’atteggiamento che si assume non solo nei confronti della magistratura e degli apparati repressivi dello Stato, ma anche rispetto allo Stato stesso e alla sua natura di classe. Dalla repressione violenta ed illegittima nei confronti di masse giovanili e di lavoratori che portano ad esso una critica almeno implicita, lo Stato si autoassolve, invocando per i propri servitori il principio dell’autodifesa.

I fatti sono presto detti: nel luglio 2000 a Genova, nel corso di duri scontri con la polizia in occasione della celebrazione del G8, i carabinieri, come tutti sanno, hanno ucciso un compagno, Carlo Giuliani. Di questo omicidio è stato accusato esclusivamente un giovane carabiniere di leva. Per lui i rappresentanti del governo in carica, il governo Berlusconi, a cominciare dall’allora Ministro degli Interni Scajola, hanno subito invocato la legittima difesa. Tre anni dopo, nonostante numerosi e gravi indizi contraddicano la versione ufficiale fornita dal carabiniere Placanica, è giunta puntuale l’assoluzione dell’imputato, in quanto avrebbe effettivamente agito per legittima difesa e comunque sparando in aria. Solo una tragica fatalità sarebbe all’origine della morte di Carlo, poiché un improbabile quanto provvidenziale (per la difesa di Placanica, s’intende) sasso volante avrebbe deviato il proiettile.

Nel clima teso alla criminalizzazione del movimento, mentre invece apparivano sempre più chiare le gravissime responsabilità delle forze dell’ordine per i selvaggi pestaggi alla scuola Diaz e per le torture subite dai fermati presso la caserma di Bolzaneto, la compiacente procura di Cosenza costruiva un assurdo teorema accusatorio nei confronti dei compagni della Rete per il Sud Ribelle, basato sulla contestazione di reati associativi di cospirazione politica e di associazione sovversiva, totalmente aderente alla relazione introduttiva del codice Rocco, ereditato dal codice penale fascista.

Ma le manovre giudiziare da Stato di polizia non si sono fermate qui. Lo dimostra l’inchiesta della procura di Taranto, che ha portato all’arresto di diversi esponenti dei Cobas con chiari intenti persecutori nei confronti di una delle organizzazioni sindacali maggiormente impegnate a portare nel movimento battaglie d’ispirazione classista e anticapitalista. A tale proposito, credo che si possano condividere le parole riportate dal documento dei Cobas di Taranto datato 10/05/03: “(...) abbiamo chiesto in questi mesi in ogni occasione un confronto con le soggettività più diverse, che non è mai arrivato (a parte, ovviamente, quelle politicamente a noi più vicine). Nessuna recriminazione, quindi: dalle rape non si può cavar sangue. Quello che però sta diventando insopportabile è lo sfacciato doppiopesismo di chi pur continuando a proclamarsi anticapitalista ed antisistema, pur continuando a parlare di "processo di fase" che "porterà ad un allargamento del conflitto", continua invece ad eludere le occasioni di confronto sui contenuti, in nome di improponibili "inciuci" - se ci passate il termine - col centrosinistra.”

A prescindere dai possibili “inciuci”, la mancanza di una seria critica dello Stato da parte di settori del movimento, si rivela proprio attraverso le reazioni alla richiesta di archiviazione del caso Placanica: per Casarini “ (...) si vuole insabbiare l'inchiesta sui fatti del G8 e l'uccisione di Giuliani per impedire che si apra uno spiraglio di luce su quello che è successo a Genova”; secondo Agnoletto “(..) la richiesta di archiviazione rappresenta un tentativo inaccettabile di autoassoluzione da parte dello Stato per evitare che in un pubblico processo emergano le responsabilità non solo del responsabile materiale della morte di Carlo Giuliani, ma dei vertici della polizia, dei carabinieri, del governo che allora gestì l'ordine pubblico” (IlNuovo, giornale telematico, 03/06/2003). Queste dichiarazioni sottendono l’illusoria invocazione di un processo giusto da parte di quelle istituzioni giudiziarie di cui non si contesta, quindi, il carattere borghese che le contraddistingue e le connota. In questo modo non si aiuta la ricerca della verità, ma si alimentano false illusioni con il rischio che, passati i primi momenti di indignazione, torni a consolidarsi nell’opinione pubblica la verità “ufficiale” e si vanifichi l’efficacia di una eventuale contro-inchiesta da parte del movimento.

Anche in occasione delle grandi mobilitazioni contro la guerra in Iraq, la critica dello Stato avrebbe potuto divenire momento centrale di discussione e approfondimento politico. Il fatto che si sia trattato di un’aggressione pianificata da Stati imperialisti non può che rafforzare questa affermazione. Ma, se da una parte il movimento contro la guerra ha promosso, accanto ad azioni di propaganda (la vendita delle bandiere delle pace da appendere alle finestre), anche azioni dirette ad opporsi concretamente alla macchina bellica, dall’altra i suoi vari gruppi dirigenti, da quelli più moderati a quelli apparentemente più radicali, non sono riusciti a contrastare efficacemente le accuse provenienti da quei settori del Centrosinistra più vicini e strumentalmente interessati al movimento: questi hanno stigmatizzato le pratiche di lotta quali le occupazioni dei binari, delle stazioni dei porti, ossia  le azioni dirette di cui sopra, come forme di lotta illegali e quindi controproducenti, quando non da reprimere.

Sotto la pressione di argomenti come quelli usati da D’Alema (“Penso che qualunque forma di lotta - ha spiegato l’ex premier - che restringa il consenso dei cittadini contro la guerra e che si metta al di fuori della legalità sia sbagliata. Vanno evitate tutte le forme di lotta che creino difficoltà agli utenti dei servizi. Non sono giuste” La Stampa 25/02/2003), la parte più moderata del movimento si è spesso tirata indietro. “Non abbiamo mai discusso e non condivido l'idea di fermare treni civili” ha dichiarato Agnoletto di fronte alla proposta di bloccare tutto il traffico ferroviario e non solo i treni “armati”; mentre la parte che aveva promosso l’occupazione dei binari (in primo luogo i Disobbedienti) ha ritenuto di attestarsi su una difesa di principio di tali forme di lotta, da circoscrivere nella campagna disobbediente “Stop the train” e da mettere in pratica con azioni di piccoli gruppi “a macchia di leopardo”. Si è dunque rinunciato a spingere affinché le forme concrete di contrasto della macchina bellica potessero essere generalizzate e divenire patrimonio di tutto il movimento contro la guerra.

D’altra parte la necessità di iscrivere le lotte nel quadro generale della legalità si evince anche dalle parole di don Albino Bizotto dei Beati Costruttori di Pace: “(...) sfido chiunque a dire che ho infranto la legalità. La nostra disobbedienza civile scatta quando c'è conflitto tra legalità formale e legalità reale” (Il Manifesto 27/02/2003); o, ancora, di Casarini, per cui la protesta è “contro le Ferrovie dello Stato e per mandare a casa questo governo che ha violato tutti gli articoli della Costituzione, specialmente l'11, e non ha mai discusso in Parlamento il permesso di transito” (Il Manifesto 26/02/2003).

Questo atteggiamento di richiamo ad una sorta di legalità violata è il frutto di un’irrisolta subalternità alla cultura, al ruolo e alla politica della sinistra moderata anche da parte dei settori del movimento apparentemente più radicali. A chi ha messo in evidenza questo fatto ed ha sottolineato la necessita della generalizzazione e radicalizzazione della protesta è stato invariabilmente risposto che tale pretesa avrebbe minato il consenso presso l’opinione pubblica conquistato dal movimento. In altre parole, per le dirigenze riformiste del movimento il rispetto di quella legalità che assolve Placanica (e con tutta probabilità non poteva essere altrimenti) e, con lui sempre e comunque le forze dell’ordine legittimate così alla repressione, che arma eserciti occupanti dei più sofisticati ordigni di sterminio, è condizione essenziale dell’allargamento del consenso. Le azioni dirette, arbitrariamente etichettate come “disobbedienti”, diventano così il contributo di alcuni gruppi specializzati. Costoro, conferendo a tali forme di lotta un significato più che altro simbolico, coltivano un immaginario radicale ma si guardano bene dall’approfondire il conflitto, in rottura aperta con la cultura e la politica della sinistra moderata.

La linea implicitamente o esplicitamente legalitaria di gran parte del movimento non è sicuramente la più efficace a far fronte alla messa in stato d’accusa dei settori più classisti e anticapitalisti, come emblematicamente dimostrato dall’operato della procura di Cosenza e di quella di Taranto. Se da una parte si cerca di difendere l’unità del movimento rivendicando la piena e legittima appartenenza a esso dei compagni indagati e arrestati, dall’altra, nel gridare allo scandalo di fronte alle imputazioni riguardanti reati d’opinione e di associazione (lo slogan adottato è stato “siamo tutti sovversivi”), si invocano di contro giusti e più legittimi atteggiamenti giudiziari (come se il codice Rocco non fosse tuttora in vigore) mentre nessun passo viene fatto nel portare a fondo la critica al carattere di classe dell’amministrazione della giustizia e degli apparati giudiziari.

In questo modo si privano le giovani generazioni, le principali protagoniste delle manifestazioni di piazza, degli strumenti critici adeguati per comprendere il ripetersi sistematico della repressione (a norma di legge e non in sua violazione) delle grandi mobilitazioni potenzialmente capaci di contestare la struttura economica e politica del regime capitalista. Così alla pura logica del consenso non si sacrifica solamente la radicalità, pur necessaria all’efficacia di tale contestazione, ma, soprattutto, la possibilità di sviluppo e maturazione del movimento, ossia il suo futuro.

La necessaria difesa dai teoremi giudiziari e dalla repressione di piazza richiama prepotentemente la questione dell’autodifesa. Tale questione non può essere messa ai margini del dibattito interno, non riguarda esclusivamente il modo di “stare in piazza”, ma attiene precisamente alla capacità di cambiare radicalmente la scena politica e di dare uno sbocco al movimento. A questo proposito, la polemica violenza-non violenza è assolutamente mistificatoria e fuorviante, in quanto non si tratta di assumere nelle mobilitazioni atteggiamenti aggressivi contro cose o persone (atteggiamento ad oggi impensabile visti i rapporti di forza) ma di difendersi congruamente e nella misura del necessario dalla violenza repressiva delle forze dell’ordine e dai teoremi accusatori dei “rappresentanti” della giustizia. In questi casi non giova la sprovvedutezza e certamente non serve a raccogliere più consensi nella società. E’ ovvio che tale concezione dell’autodifesa e la sua messa in pratica non possono che discendere dal disvelamento del carattere di classe dell’amministrazione della giustizia. Se infatti la difesa legale dei compagni arrestati è necessaria, i legali del movimento dovrebbero ricordare che la “giustizia è borghese” e come tale non va riconosciuta e legittimata, pena la distruzione di qualsiasi “autonomia” politico-culturale e la riduzione delle lotte a semplice espressione di una parte dell’opinione pubblica.

In definitiva, anche dal punto di vista che ho cercato di tenere nell’esposizione di questo articolo, non si può fare a meno di misurare la distanza tra le potenzialità anticapitalistiche delle masse giovanili partecipi alle lotte e la politica dei gruppi dirigenti del movimento. Questi, diversi per riferimenti ideali e pratiche di lotta, sono accomunati dalla critica al liberismo in quanto volontà politica perversa (e non necessità storica) del capitale. Di qui discende la proposta di una serie di riforme più o meno “radicali” volte a temperare le contraddizioni più esplosive del modo di produzione capitalistico. Ogni critica al capitalismo portata da questi riformisti “in buona fede” è finalizzata alla sua democratizzazione, alla sua umanizzazione, non certo al suo abbattimento per via rivoluzionaria. Per questo ai loro occhi è necessario disperdere le potenzialità anticapitalistiche e rendere il movimento infine compatibile con l’ordinamento sociale ed economico esistente.

Il fatto che per questa via non sia possibile la soluzione di nessuna delle contraddizioni che minacciano l’esistenza di milioni di lavoratori (la maggior parte dell’umanità) e della civiltà umana stessa rischia di avere come conseguenza, nell’immediato futuro, la delusione delle giovani generazioni nuove alle lotte e alla politica nonché il riflusso del movimento.