DAL QUOTIDIANO EUROPA del 26 giugno 2003
 
 
FORUM CON FAUSTO BERTINOTTI Noi, il centrosinistra, l’opposizione al governo. Parla il segretario di Rifondazione comunista
Dalle amministrative e dalla sconfitta nel referendum nasce la nuova riflessione di Rifondazione, ma sono stati i movimenti e la delusione della globalizzazione a cambiare le carte nel centrosinistra. Da D’Alema agli altri, tutti ripensano l’appoggio alle politiche neoliberiste. La sinistra ds e i Verdi, più vicini a noi che al resto dell’Ulivo. Nella Margherita ho scoperto, in campagna elettorale, candidati con i quali ero totalmente d’accordo su punti centrali. Partiamo da intese parziali sulle battaglie da condurre nella società: non solo noi, ma anche i movimenti e le associazioni. Rifondazione uscirà cambiata da questo processo e l’esito non è predefinito. Tra gli imprenditori ci sono forze che chiedono un intervento pubblico di qualità.
(a cura di Stefano Menichini)

Fausto Bertinotti lascia verso mezzogiorno la redazione di Europa con un ultimo commento. E almeno questo lo sbaglia di sicuro, ma è lo sbaglio che commettevano tutti fino a ieri mattina: «Sull’immigrazione, secondo me, alla camera non succederà nulla di serio. La Lega userà come al solito parole diverse in parlamento e nelle valli…».
Toccherà proprio lui, nel dibattito di Montecitorio, intervenire per primo dopo il leghista Cè, e prounciare per primo la parola magica: «Se ci fosse deontologia parlamentare, da oggi sarebbe formalmente aperta la crisi di governo».
Il lungo forum della direzione di Europa col segretario di Rifondazione comunista regge alla prova della più stringente attualità politica. Proprio perché la proposta che Bertinotti avanza al centrosinistra – esito della piccola svolta accolta ampiamente anche dagli organismi dirigenti di Rifondazione – parte dalla crisi politica del centrodestra, e chiede di “costruire” rapidamente un’offerta alternativa all’Italia: «Seguendo il percorso che proponiamo – dice a un certo punto – non solo è possibile pensare alla caduta della coalizione berlusconiana. Ma, senza dirlo e senza proporcelo, si potrebbe anche pensare a una sua crisi prima della scadenza fisiologica della legislatura».


Che lezione avete tratto dall’accoppiata elezioni amministrative-referendum sull’articolo 18?
Abbiamo imparato che il nostro problema non è più nostro, ma di tutti. Vedete, Rifondazione è abituata a vivere ogni elezione come una prova di sopravvivenza. Succede, quando cercano di liquidarti politicamente tante volte com’è successo a noi: prima c’ha provato il centro del centrosinistra dopo la nostra rottura con Prodi, poi c’hanno provato cercando di rimodellare il rapporto tra Ulivo e movimenti emarginandoci (pensa a Cofferati, ndr). Alla fine nonostante tutto siamo in piedi, e in piedi siamo usciti da questa ultima infinita campagna elettorale. Ma abbiamo imparato che raggiungere dei risultati è improbo, anche quando il paese è percorso da importanti movimenti sociali e civili: hai grandi maggioranze contro la guerra e la guerra la fanno lo stesso, senza pagare dazio; hai in piedi un grande movimento sui temi del lavoro e il governo fa leggi pericolosissime come il decreto Maroni; fai battaglie sui diritti, come quella sull’articolo 18 nelle piccole imprese e perdi, anche se vedi l’insediamento storico del Pci ritrovarsi nella geografia di quel Sì. Insomma, abbiamo di fronte un problema che noi prima leggevamo come un problema di Rifondazione, e invece evidentemente lo è per tutto il campo progressista e dei movimenti.


Cioè?
Detto in sintesi, come si fa a passare da una fase di affermazione della propria esistenza a una fase di riattivazione di un processo di cambiamento.

In altre parole, a vincere le elezioni…
Anche le elezioni, ma non solo. Il movimento operaio italiano, quello dei consigli, fece grandi conquiste negli anni in cui il Pci era schiacciato all’opposizione. Questo era possibile, mentre io penso che sia difficile l’opposto, cioè vincere le elezioni quando non si conquista spazio nella società.
Può succedere, ma allora è più una conseguenza del dissenso verso chi governa che una scelta positiva. E infatti secondo me questo sta succedendo in Italia, dove fino ad adesso vedo più che altro una forte crisi di consenso verso l’estremismo della maggioranza berlusconiana. C’è una forte domanda di girare pagina alla quale noi ancora non diamo risposte. Credo che si possa cominciare indivduando alcuni possibili obiettivi riformatori che nella società si possono concretamente raggiungere, anche senza che questo coinvolga immediatamente, adesso, le scelte di governo generali.


Vincere nella società non è più facile che vincere le elezioni, anzi…
Infatti. Proprio questo è il nostro rovello maggiore, il motivo per noi cui ci siamo imposti di ragionare sulla sconfitta referendaria chiamandola col suo nome: sconfitta.
Una delle prima spiegazioni che ci siamo dati per questo esito è che i movimenti nella società ci sono e appaiono durevoli, ma non si connettono tra loro facendo massa critica vincente. Guardate i no global, per esempio, che hanno “accompagnato” le lotte sociali sul lavoro ma le hanno effettivamente incontrate solo a Termini Imerese, cioè in una situazione peculiare e drammatica. E che sulla questione della Fiat sembrano invece non avere nulla da dire…

 

Per riprendere il tema degli obiettivi concreti da conseguire insieme, può fare un esempio?
Per me, la questione centrale: il lavoro. Attenzione perché sta succedendo qualcosa di enorme. Fino a oggi la precarizzazione del lavoro era un fenomeno grave ma parziale.
Una inaccettabile eccezione alla regola. Ora non è più così, siamo al rovesciamento totale dello Statuto dei lavoratori. Quello che fu la parcellizzazione del lavoro per il sistema tayloristico – cioè il suo tratto qualificante – lo sta diventando il precariato per il sistema postfordista. Il precario diventa la regola, il modello, non l’eccezione. Non deve un’opposizione avere l’ambizione di affrontare questo gigantesco problema, mentre il governo porta in parlamento il decreto legge sul mercato del lavoro? E visto che in parlamento non possiamo vincere, e che io non propongo di agitare le piazze, non vogliamo porci alcuni obiettivi parziali ma importanti per invertire rotta? Guardate che sta già accadendo, per esempio la Regione Campania ha fatto partire una sperimentazione del salario sociale per 25 mila, 30 mila persone… si possono tentare insieme altre strade come questa, nelle singole realtà territoriali o di categoria, introducendo correttivi, riforme anche parziali… Dico questo perché in mente ho un modello di processo politico vincente di questo tipo.


Quale?
Quello di Lula in Brasile. Gli ci sono volute tre sconfitte elettorali, ma alla fine c’è riuscito.
E ha vinto perché negli anni c’è stata una crescita civile e sociale fortissima, fatta di esperienze locali, che è arrivata a mettere insieme forze che prima letteralmente si sparavano addosso.


Scusi Bertinotti, ma per arrivare a ipotizzare questo percorso vuol dire che qualcosa è cambiato. Nella vostra analisi, fino a ieri, il centrosinistra riformista era più o meno la variabile civile del neoliberismo della destra.
E’ vero. Era questo, e si dava come compito di temperare il governo della guerra dell’Impero e di stemperare – come sono riusciti a fare – qualsiasi conflitto sociale. E’ stato così dai Balcani all’Afghanistan. Guardando agli anni trascorsi mi pare difficile contestare questa nostra analisi. Ma innanzi tutto adesso ci stanno ripensando loro.
Stanno ripensando a una fase per loro vincente, nella quale però scommettevano sulla propria capacità di dare alla globalizzazione un segno progressista. Massimo D’Alema è colui che più di ogni altro in Italia ha impersonificato questa linea, non solo con la guerra ma anche aprendo con la Cgil lo scontro sulla flessibilità. Ora leggo quello che scrive e dice: ci sta ripensando. E come lui ci stanno ripensando Zapatero in Spagna e i socialisti francesi, mentre non ci ripensa – figurarsi – la leadership laburista inglese.
Le cose cambiano, io ne prendo atto.
E so anche perché cambiano. Non soltanto perché la globalizzazione sta in realtà uccidendo la sovranità popolare e il tessuto solidaristico, e ha un così forte segno di guerra, ma anche perché nel suo momento di partenza prometteva e regalava all’Occidente e soprattutto agli Stati Uniti il più alto periodo di crescita economica della storia recente.
E invece adesso sta infliggendo a Usa, Europa e Giappone la crisi più lunga che si ricordi.


La globalizzazione delude e l’Ulivo ne esce migliorato?
Io vedo che i movimenti hanno cambiato la costituzione materiale del centrosinistra italiano, pur senza cambiarne la geografia formale, e questo è avvenuto in varie fasi. A Genova nel 2001 c’era una sostanziale estraneità, con dentro solo noi e pochi altri. Poi è venuta fuori un’altra ipotesi, non all’interno del movimento ma fuori di esso: ricostruiamo il centrosinistra in un rapporto attivo coi movimenti (nel frattempo erano usciti fuori anche i girotondi) accettando però sia il maggioritario dell’alternanza che l’inamovibilità dell’Ulivo. Quanto a Rifondazione… beh, in questa ipotesi si pensava di portarne una parte con sé lasciandone fuori un residuo col quale contrattare… Ma è un   disegno che è fallito, è caduto quando non ha saputo dire con nettezza sì o no alla guerra e quando ha rotto il fronte sull’articolo 18.


Diamo un nome a questa ipotesi: Cofferati. E cerchiamo di capire una cosa: lui non intendeva intaccare l’unità dell’Ulivo. Adesso però neanche Bertinotti si pone più lo storico obiettivo di far collassare l’Ulivo, anzi apre col cenrosinistra un dialogo aperto. Dov’è la differenza?
E’ enorme. Intanto perché non propongo una discussione a due tra l’Ulivo e Rifondazione, ma tra molti. So che sarà difficile, che dovremo trovare sedi e regole, ma penso a un confronto nel quale abbiano parte attiva – nella loro autonomia di ruolo – le associazioni, i sindacati, i movimenti di base.
E poi io non assumo l’Ulivo così com’è…

Che vuol dire?
Che tutto questo può accadere proprio perché il centrosinistra si è modificato. C’è una discontinuità evidente ai miei occhi rispetto a quando l’Ulivo era, per me, alcuni signori coi quali io trattavo o rompevo. Oggi questo sarebbe impossibile perché il centrosinistra su tutte le questioni o si esprime in maniera plurale oppure non si esprime proprio. La geografia è cambiata e la linea di confine sui temi che ci stanno a cuore non è più tra noi e il centrosinistra, ma all’interno del centrosinistra, e in maniera molto irregolare.
La sinistra ds su molte cose è più vicina a noi che alla leadership del suo partito, i Verdi sono stabilmente collocati in una posizione più contigua alla nostra. E anche la Margherita a me pare una formazione politica stellare...


Prego?
Ma sì, l’ho visto in queste elezioni amministrative.
Io fino ad adesso, va bene, parlavo con Rutelli e tutto finiva lì. Adesso - e questo certo non nuoce alla leadership del partito - ho conosciuto candidati della coalizione centrosinistra-Rifondazione sui cui discorsi a proposito del governo locale non avevo nulla da eccepire. Nel passato ascoltavo, magari anche da alleato che stava lì perché bisognava battere la destra, discorsi di stampo manageriale o aziendalista sul governo delle città. Ora sento dire, soprattutto da persone provenienti dall’interno del mondo cattolico, cose sulla pace o sulla valorizzazione del territorio dalle quali non potrei discostarmi neanche se volessi. Questo fa la differenza per me.


Questo dovrebbe cambiare anche Rifondazione comunista, si immagina...
Ma certo che ci cambia. Anzi, io mi proporrei di cambiare così tanto la sinistra alternativa...


... ah, un nome già più interessante di Rifondazione comunista...
Guardate, per darvi un dispiacere, che il nome è anche più tosto: Partito della Rifondazione comunista... A parte questo, la sinistra alternativa secondo me nasce proprio in questo processo di fluidificazione. Fino a ieri lo pensavamo, io per primo, come un processo che avvenisse tutto al di qua della   della linea di discrimine data tra centrosinistra e noi. Adesso, dopo l’accoppiata amministrative- referendum, questi confini non li vedo più statici. E la costruzione della sinistra alternativa non è più un a priori del processo di confronto programmatico “tra molti”, ma ne è l’esito. Arrivo a dire che la novità per noi è questa: che rinunciamo ad avere chiara la meta in termini di schieramenti organizzativi.
Lo schema delle due sinistre, che era anche il mio, non funziona più. Continuo a pensare che ci sia bisogno, in Europa, di una sinistra anticapitalista radicale, ma le forme della sua organizzazione e anche del suo rapporto con il centrosinistra non sono precostituite.


Questo coinvolge anche il nome del partito?
Attenzione. Per la sinistra alternativa io penso a una struttura plurale nella quale ognuno porta la sua fisionomia. Non credo a un dissolvimento, e credo che l’essere comunisti sia tuttora un elemento costitutivo per molti di noi che facciamo politica. Perciò credo che Rifondazione debba stare dentro una struttura più ampia ma che non si possa rinunciare all’ambizione di pensarsi comunisti.


Ritorniamo su questa discussione da aprire con l’Ulivo. Quali dovrebbero essere i suoi tempi e i suoi punti qualificanti?
Io credo che debba partire ora, che non ci sia da aspettare alcun semestre europeo. Questo è uno dei punti di debolezza da superare: io capisco che un governo cerchi di imporre al paese le proprie priorità, ma perché un’opposizione deve per forza accettare l’agenda politica della maggioranza? Definiamo intanto i punti qualificanti di una vera e propria “opposizione di paese”, e torno a riferirmi soprattutto alle questioni del lavoro e all’urgenza di contrastare il decreto sul mercato del lavoro.


Dovrebbe essere facile l’intesa su temi “difensivi” come la giustizia o il sistema dell’informazione.
Sulla giustizia sì, appunto in chiave difensiva.
Già sull’informazione non lo so. Francamente, il sistema pubblico radiotelevisivo così com’è proprio non è difendibile...


E’ scottante la questione della riforma del sistema elettorale. Berlusconi, si sa, punta al ritorno alla proporzionale, vostra antica battaglia...
Infatti, alzerei tutte le bandiere. Il sistema elettorale proporzionale dà al quadro politico una permeabilità ai mutamenti della società che il maggioritario nega alla radice.
Però bisogna guardare al contesto nel quale si inseriscono le cose. E noi sappiamo che il contesto del proporzionale di Berlusconi è il presidenzialismo: questo per noi è un tabu insuperabile.


Su altri temi, poi, si aprono subito notevoli differenze di contenuto col centrosinistra.
Lo so bene. E infatti vedo molto difficile qualsiasi accordo. Ma ragioniamo insieme sul perché fino a oggi non s’è fatta un’opposizione politica forte alle politiche economiche di Berlusconi. Perché il centrosinistra - mi dispiace ma preferisco dirlo con le parole più nette - non è in grado di avere un’idea diversa da quella del centrodestra sulle questioni economiche. Denunciano giustamente l’avventurismo e il pericolo di Berlusconi rispetto alla tenuta dello stato di diritto, ma non vedono la connessione tra questo e le sue politiche sociali ed economiche.


Ritorniamo ai punti più tradizionali di controversia. Per esempio, l’intervento pubblico in economia...
Appunto. Io mi sono disperato quando, puntualmente, la leadership ulivista per prima cosa ha escluso qualsiasi intervento pubblico nella crisi della Fiat. Vorrò vedere che cosa diranno fra sei mesi, quando fallirà...
Ma io lo so perché reagiscono sempre così su questo tema. Perché gli ex democristiani pensano di doversi far perdonare gli anni dei boiardi di stato, e i post comunisti gli anni dell’Urss. Possibile che non vedano che ci sono possibilità diverse? Che non c’è solo l’Iri degli anni Settanta come f o r m u l a possibile? Insomma, una volta si ragionava di più e si cercavano innovazioni. Adesso niente.


C’è anche un problema serio di interlocuzione nel mondo imprenditoriale.
Lo vedo bene, sono d’accordo. Che cosa è successo nel ‘96 con Prodi? Che il centrosinistra ha stretto un patto con un mondo imprenditoriale “per bene” in vista di un processo di integrazione europea e di integrazione dell’economia italiana in Europa.
Si sapeva che dovevamo passare attraverso una fase di risanamento dei conti e si sperava di avere una sorta di “redditività differita”. Non ha funzionato, non c’è redditività.
E non ci sono più gli imprenditori di quel tipo disposti a investire in un patto di questo genere. Un patto di quel genere sarebbe impensabile. Però non è impensabile, anzi secondo me è possibile, una convergenza in progress con una fetta di imprenditoria italiana - ci sono, li conosco sia nella sfera finanziaria che in quella produttiva - che rigetta il modello adesso prevalente, ovvero alta flessibilità del lavoro, bassi diritti e bassa qualità. Hanno bisogno di una politica che offra sponda e risorse per un modello che compete sull’alta capacità di innovazione di processo e di prodotto.
Ma ecco, appunto, ci vuole un intervento pubblico. Come dicevo.


Non sarà facile trovare un terreno di intesa con i riformisti del centrosinistra.
No, lo so bene. Ma io dico: se dobbiamo costruire una controffensiva democratica, muoviamoci sia nel cielo del tema del conflitto d’interessi di Berlusconi che sulla terra del diritto dei lavoratori ad avere un contratto.
Riconosciamo reciprocamente le nostre radicalità: c’è chi ce l’ha più accentuata sullo stato di diritto e chi ce l’ha più accentuata sul lavoro. Lo so che deve esserci un compromesso - non dico fra di noi, parlo di quello necessario per governare - perché agiscono vincoli esterni come la competività, la necessità della crescita economica.
Ma i vincoli interni, quelli li stabilisce la politica. Li stabiliamo noi. Qui può nascere un compromesso dinamico Esiste o no un problema di rilanciare la domanda interna? Un problema di potere d’acquisto dei salari? Tra salari, profitti e rendite l’equilibrio va spostato a favore dei primi? Io penso di sì. Altri possono pensarla diversamente.
Ma per favore, discutiamo di questo.