Fausto Bertinotti lascia verso mezzogiorno la redazione di Europa con
un ultimo commento. E almeno questo lo sbaglia di sicuro, ma è lo
sbaglio che commettevano tutti fino a ieri mattina: «Sull’immigrazione,
secondo me, alla camera non succederà nulla di serio. La Lega userà
come al solito parole diverse in parlamento e nelle valli…».
Toccherà proprio lui, nel dibattito di Montecitorio, intervenire per
primo dopo il leghista Cè, e prounciare per primo la parola magica: «Se
ci fosse deontologia parlamentare, da oggi sarebbe formalmente aperta la
crisi di governo».
Il lungo forum della direzione di Europa col segretario di Rifondazione
comunista regge alla prova della più stringente attualità politica.
Proprio perché la proposta che Bertinotti avanza al centrosinistra –
esito della piccola svolta accolta ampiamente anche dagli organismi
dirigenti di Rifondazione – parte dalla crisi politica del
centrodestra, e chiede di “costruire” rapidamente un’offerta
alternativa all’Italia: «Seguendo il percorso che proponiamo – dice
a un certo punto – non solo è possibile pensare alla caduta della
coalizione berlusconiana. Ma, senza dirlo e senza proporcelo, si
potrebbe anche pensare a una sua crisi prima della scadenza fisiologica
della legislatura».
Che lezione avete tratto dall’accoppiata elezioni
amministrative-referendum sull’articolo 18?
Abbiamo imparato che il nostro problema non è più nostro, ma
di tutti. Vedete, Rifondazione è abituata a vivere ogni elezione come
una prova di sopravvivenza. Succede, quando cercano di liquidarti
politicamente tante volte com’è successo a noi: prima c’ha provato
il centro del centrosinistra dopo la nostra rottura con Prodi, poi
c’hanno provato cercando di rimodellare il rapporto tra Ulivo e
movimenti emarginandoci (pensa a Cofferati, ndr). Alla fine nonostante
tutto siamo in piedi, e in piedi siamo usciti da questa ultima infinita
campagna elettorale. Ma abbiamo imparato che raggiungere dei risultati
è improbo, anche quando il paese è percorso da importanti movimenti
sociali e civili: hai grandi maggioranze contro la guerra e la guerra la
fanno lo stesso, senza pagare dazio; hai in piedi un grande movimento
sui temi del lavoro e il governo fa leggi pericolosissime come il
decreto Maroni; fai battaglie sui diritti, come quella sull’articolo
18 nelle piccole imprese e perdi, anche se vedi l’insediamento storico
del Pci ritrovarsi nella geografia di quel Sì. Insomma, abbiamo di
fronte un problema che noi prima leggevamo come un problema di
Rifondazione, e invece evidentemente lo è per tutto il campo
progressista e dei movimenti.
Cioè?
Detto in sintesi, come si fa a passare da una fase di affermazione della
propria esistenza a una fase di riattivazione di un processo di
cambiamento.
In altre parole, a vincere le elezioni…
Anche le elezioni, ma non solo. Il movimento operaio italiano, quello
dei consigli, fece grandi conquiste negli anni in cui il Pci era
schiacciato all’opposizione. Questo era possibile, mentre io penso che
sia difficile l’opposto, cioè vincere le elezioni quando non si
conquista spazio nella società.
Può succedere, ma allora è più una conseguenza del dissenso verso chi
governa che una scelta positiva. E infatti secondo me questo sta
succedendo in Italia, dove fino ad adesso vedo più che altro una forte
crisi di consenso verso l’estremismo della maggioranza berlusconiana.
C’è una forte domanda di girare pagina alla quale noi ancora non
diamo risposte. Credo che si possa cominciare indivduando alcuni
possibili obiettivi riformatori che nella società si possono
concretamente raggiungere, anche senza che questo coinvolga
immediatamente, adesso, le scelte di governo generali.
Vincere nella società non è più facile che vincere le
elezioni, anzi…
Infatti. Proprio questo è il nostro rovello maggiore, il motivo per noi
cui ci siamo imposti di ragionare sulla sconfitta referendaria
chiamandola col suo nome: sconfitta.
Una delle prima spiegazioni che ci siamo dati per questo esito è che i
movimenti nella società ci sono e appaiono durevoli, ma non si
connettono tra loro facendo massa critica vincente. Guardate i no global,
per esempio, che hanno “accompagnato” le lotte sociali sul lavoro ma
le hanno effettivamente incontrate solo a Termini Imerese, cioè in una
situazione peculiare e drammatica. E che sulla questione della Fiat
sembrano invece non avere nulla da dire…
Per riprendere il tema degli obiettivi concreti da conseguire
insieme, può fare un esempio?
Per me, la questione centrale: il lavoro. Attenzione perché sta
succedendo qualcosa di enorme. Fino a oggi la precarizzazione del lavoro
era un fenomeno grave ma parziale.
Una inaccettabile eccezione alla regola. Ora non è più così, siamo al
rovesciamento totale dello Statuto dei lavoratori. Quello che fu la
parcellizzazione del lavoro per il sistema tayloristico – cioè il suo
tratto qualificante – lo sta diventando il precariato per il sistema
postfordista. Il precario diventa la regola, il modello, non
l’eccezione. Non deve un’opposizione avere l’ambizione di
affrontare questo gigantesco problema, mentre il governo porta in
parlamento il decreto legge sul mercato del lavoro? E visto che in
parlamento non possiamo vincere, e che io non propongo di agitare le
piazze, non vogliamo porci alcuni obiettivi parziali ma importanti per
invertire rotta? Guardate che sta già accadendo, per esempio la Regione
Campania ha fatto partire una sperimentazione del salario sociale per 25
mila, 30 mila persone… si possono tentare insieme altre strade come
questa, nelle singole realtà territoriali o di categoria, introducendo
correttivi, riforme anche parziali… Dico questo perché in mente ho un
modello di processo politico vincente di questo tipo.
Quale?
Quello di Lula in Brasile. Gli ci sono volute tre sconfitte elettorali,
ma alla fine c’è riuscito.
E ha vinto perché negli anni c’è stata una crescita civile e sociale fortissima, fatta di esperienze locali,
che è arrivata a mettere insieme forze che prima letteralmente si
sparavano addosso.
Scusi Bertinotti, ma per arrivare a ipotizzare questo percorso
vuol dire che qualcosa è cambiato. Nella vostra analisi, fino a ieri,
il centrosinistra riformista era più o meno la variabile civile del
neoliberismo della destra.
E’ vero. Era questo, e si dava come compito di temperare il
governo della guerra dell’Impero e di stemperare – come sono
riusciti a fare – qualsiasi conflitto sociale. E’ stato così dai
Balcani all’Afghanistan. Guardando agli anni trascorsi mi pare
difficile contestare questa nostra analisi. Ma innanzi tutto adesso ci
stanno ripensando loro.
Stanno ripensando a una fase per loro vincente, nella quale però
scommettevano sulla propria capacità di dare alla globalizzazione un
segno progressista. Massimo D’Alema è colui che più di ogni altro in
Italia ha impersonificato questa linea, non solo con la guerra ma anche
aprendo con la Cgil lo scontro sulla flessibilità. Ora leggo quello che
scrive e dice: ci sta ripensando. E come lui ci stanno ripensando
Zapatero in Spagna e i socialisti francesi, mentre non ci ripensa –
figurarsi – la leadership laburista inglese.
Le cose cambiano, io ne prendo atto.
E so anche perché cambiano. Non soltanto perché la globalizzazione sta
in realtà uccidendo la sovranità popolare e il tessuto solidaristico,
e ha un così forte segno di guerra, ma anche perché nel suo momento di
partenza prometteva e regalava all’Occidente e soprattutto agli Stati
Uniti il più alto periodo di crescita economica della storia recente.
E invece adesso sta infliggendo a Usa, Europa e Giappone la crisi più
lunga che si ricordi.
La globalizzazione delude e l’Ulivo ne esce migliorato?
Io vedo che i movimenti hanno cambiato la costituzione
materiale del centrosinistra italiano, pur senza cambiarne la geografia
formale, e questo è avvenuto in varie fasi. A Genova nel 2001 c’era
una sostanziale estraneità, con dentro solo noi e pochi altri. Poi è
venuta fuori un’altra ipotesi, non all’interno del movimento ma
fuori di esso: ricostruiamo il centrosinistra in un rapporto attivo coi
movimenti (nel frattempo erano usciti fuori anche i girotondi)
accettando però sia il maggioritario dell’alternanza che
l’inamovibilità dell’Ulivo. Quanto a Rifondazione… beh, in questa
ipotesi si pensava di portarne una parte con sé lasciandone fuori un
residuo col quale contrattare… Ma è un disegno che è
fallito, è caduto quando non ha saputo dire con nettezza sì o no alla
guerra e quando ha rotto il fronte sull’articolo 18.
Diamo un nome a questa ipotesi: Cofferati. E cerchiamo di capire
una cosa: lui non intendeva intaccare l’unità dell’Ulivo. Adesso però
neanche Bertinotti si pone più lo storico obiettivo di far collassare
l’Ulivo, anzi apre col cenrosinistra un dialogo aperto. Dov’è la
differenza?
E’ enorme. Intanto perché non propongo una discussione a due
tra l’Ulivo e Rifondazione, ma tra molti. So che sarà difficile, che
dovremo trovare sedi e regole, ma penso a un confronto nel quale abbiano
parte attiva – nella loro autonomia di ruolo – le associazioni, i
sindacati, i movimenti di base.
E poi io non assumo l’Ulivo così com’è…
Che vuol dire?
Che tutto questo può accadere proprio perché il
centrosinistra si è modificato. C’è una discontinuità evidente ai
miei occhi rispetto a quando l’Ulivo era, per me, alcuni signori coi
quali io trattavo o rompevo. Oggi questo sarebbe impossibile perché il
centrosinistra su tutte le questioni o si esprime in maniera plurale
oppure non si esprime proprio. La geografia è cambiata e la linea di
confine sui temi che ci stanno a cuore non è più tra noi e il
centrosinistra, ma all’interno del centrosinistra, e in maniera molto
irregolare.
La sinistra ds su molte cose è più vicina a noi che alla leadership
del suo partito, i Verdi sono stabilmente collocati in una posizione più
contigua alla nostra. E anche la Margherita a me pare una formazione
politica stellare...
Prego?
Ma sì, l’ho visto in queste elezioni amministrative.
Io fino ad adesso, va bene, parlavo con Rutelli e tutto finiva lì.
Adesso - e questo certo non nuoce alla leadership del partito - ho
conosciuto candidati della coalizione centrosinistra-Rifondazione sui
cui discorsi a proposito del governo locale non avevo nulla da eccepire.
Nel passato ascoltavo, magari anche da alleato che stava lì perché
bisognava battere la destra, discorsi di stampo manageriale o
aziendalista sul governo delle città. Ora sento dire, soprattutto da
persone provenienti dall’interno del mondo cattolico, cose sulla pace
o sulla valorizzazione del territorio dalle quali non potrei discostarmi
neanche se volessi. Questo fa la differenza per me.
Questo dovrebbe cambiare anche Rifondazione comunista, si
immagina...
Ma certo che ci cambia. Anzi, io mi proporrei di cambiare così
tanto la sinistra alternativa...
... ah, un nome già più interessante di Rifondazione
comunista...
Guardate, per darvi un dispiacere, che il nome è anche più tosto:
Partito della Rifondazione comunista... A parte questo, la sinistra
alternativa secondo me nasce proprio in questo processo di
fluidificazione. Fino a ieri lo pensavamo, io per primo, come un
processo che avvenisse tutto al di qua della della linea di
discrimine data tra centrosinistra e noi. Adesso, dopo l’accoppiata
amministrative- referendum, questi confini non li vedo più statici. E
la costruzione della sinistra alternativa non è più un a priori del
processo di confronto programmatico “tra molti”, ma ne è l’esito.
Arrivo a dire che la novità per noi è questa: che rinunciamo ad avere
chiara la meta in termini di schieramenti organizzativi.
Lo schema delle due sinistre, che era anche il mio, non funziona più.
Continuo a pensare che ci sia bisogno, in Europa, di una sinistra
anticapitalista radicale, ma le forme della sua organizzazione e anche
del suo rapporto con il centrosinistra non sono precostituite.
Questo coinvolge anche il nome del partito?
Attenzione. Per la sinistra alternativa io penso a una struttura plurale
nella quale ognuno porta la sua fisionomia. Non credo a un
dissolvimento, e credo che l’essere comunisti sia tuttora un elemento
costitutivo per molti di noi che facciamo politica. Perciò credo che
Rifondazione debba stare dentro una struttura più ampia ma che non si
possa rinunciare all’ambizione di pensarsi comunisti.
Ritorniamo su questa discussione da aprire con l’Ulivo. Quali
dovrebbero essere i suoi tempi e i suoi punti qualificanti?
Io credo che debba partire ora, che non ci sia da aspettare alcun
semestre europeo. Questo è uno dei punti di debolezza da superare: io
capisco che un governo cerchi di imporre al paese le proprie priorità,
ma perché un’opposizione deve per forza accettare l’agenda politica
della maggioranza? Definiamo intanto i punti qualificanti di una vera e
propria “opposizione di paese”, e torno a riferirmi soprattutto alle
questioni del lavoro e all’urgenza di contrastare il decreto sul
mercato del lavoro.
Dovrebbe essere facile l’intesa su temi “difensivi” come
la giustizia o il sistema dell’informazione.
Sulla giustizia sì, appunto in chiave difensiva.
Già sull’informazione non lo so. Francamente, il sistema pubblico
radiotelevisivo così com’è proprio non è difendibile...
E’ scottante la questione della riforma del sistema
elettorale. Berlusconi, si sa, punta al ritorno alla proporzionale,
vostra antica battaglia...
Infatti, alzerei tutte le bandiere. Il sistema elettorale proporzionale
dà al quadro politico una permeabilità ai mutamenti della società che
il maggioritario nega alla radice.
Però bisogna guardare al contesto nel quale si inseriscono le cose. E
noi sappiamo che il contesto del proporzionale di Berlusconi è il
presidenzialismo: questo per noi è un tabu insuperabile.
Su altri temi, poi, si aprono subito notevoli differenze di
contenuto col centrosinistra.
Lo so bene. E infatti vedo molto difficile qualsiasi accordo.
Ma ragioniamo insieme sul perché fino a oggi non s’è fatta
un’opposizione politica forte alle politiche economiche di Berlusconi.
Perché il centrosinistra - mi dispiace ma preferisco dirlo con le
parole più nette - non è in grado di avere un’idea diversa da quella
del centrodestra sulle questioni economiche. Denunciano giustamente
l’avventurismo e il pericolo di Berlusconi rispetto alla tenuta dello
stato di diritto, ma non vedono la connessione tra questo e le sue
politiche sociali ed economiche.
Ritorniamo ai punti più tradizionali di controversia. Per
esempio, l’intervento pubblico in economia...
Appunto. Io mi sono disperato quando, puntualmente, la
leadership ulivista per prima cosa ha escluso qualsiasi intervento
pubblico nella crisi della Fiat. Vorrò vedere che cosa diranno fra sei
mesi, quando fallirà...
Ma io lo so perché reagiscono sempre così su questo tema. Perché gli
ex democristiani pensano di doversi far perdonare gli anni dei boiardi
di stato, e i post comunisti gli anni dell’Urss. Possibile che non
vedano che ci sono possibilità diverse? Che non c’è solo l’Iri
degli anni Settanta come f o r m u l a possibile? Insomma, una volta si
ragionava di più e si cercavano innovazioni. Adesso niente.
C’è anche un problema serio di interlocuzione nel mondo
imprenditoriale.
Lo vedo bene, sono d’accordo. Che cosa è successo nel ‘96
con Prodi? Che il centrosinistra ha stretto un patto con un mondo
imprenditoriale “per bene” in vista di un processo di integrazione
europea e di integrazione dell’economia italiana in Europa.
Si sapeva che dovevamo passare attraverso una fase di risanamento dei
conti e si sperava di avere una sorta di “redditività differita”.
Non ha funzionato, non c’è redditività.
E non ci sono più gli imprenditori di quel tipo disposti a investire in
un patto di questo genere. Un patto di quel genere sarebbe impensabile.
Però non è impensabile, anzi secondo me è possibile, una convergenza
in progress con una fetta di imprenditoria italiana - ci sono, li
conosco sia nella sfera finanziaria che in quella produttiva - che
rigetta il modello adesso prevalente, ovvero alta flessibilità del
lavoro, bassi diritti e bassa qualità. Hanno bisogno di una politica
che offra sponda e risorse per un modello che compete sull’alta
capacità di innovazione di processo e di prodotto.
Ma ecco, appunto, ci vuole un intervento pubblico. Come dicevo.
Non sarà facile trovare un terreno di intesa con i riformisti
del centrosinistra.
No, lo so bene. Ma io dico: se dobbiamo costruire una
controffensiva democratica, muoviamoci sia nel cielo del tema del
conflitto d’interessi di Berlusconi che sulla terra del diritto dei
lavoratori ad avere un contratto.
Riconosciamo reciprocamente le nostre radicalità: c’è chi ce l’ha
più accentuata sullo stato di diritto e chi ce l’ha più accentuata
sul lavoro. Lo so che deve esserci un compromesso - non dico fra di noi,
parlo di quello necessario per governare - perché agiscono vincoli
esterni come la competività, la necessità della crescita economica.
Ma i vincoli interni, quelli li stabilisce la politica. Li stabiliamo
noi. Qui può nascere un compromesso dinamico Esiste o no un problema di
rilanciare la domanda interna? Un problema di potere d’acquisto dei
salari? Tra salari, profitti e rendite l’equilibrio va spostato a
favore dei primi? Io penso di sì. Altri possono pensarla diversamente.
Ma per favore, discutiamo di questo.