Sergio
Cofferati: ascesa e declino di un falso mito della sinistra
di Franco Grisolia
“Tutto ciò che nasce è degno di perire”. Questa
frase del grande filosofo dialettico tedesco Hegel, che nel movimento marxista
si amava un tempo citare, è profondamente giusta in generale. Credo sia tanto
più pregnante rispetto a quelle grandi illusione che l’umanità e, al suo
interno il proletariato e la sua stessa avanguardia, si dà, come illusoria
soluzione dei suoi problemi. Così è stato in grande per il mito dello
stalinismo, o, più in piccolo per quello del maoismo. Così è ancora in larga
misura per quel “cadavere insepolto”, come dicono i compagni del Partito
Obrero, che è il peronismo in Argentina. Nel nostro Paese, più in piccolo,
nell’ultima fase è nato e, fortunatamente, pare ormai irreversibilmente
defunto, il mito di Sergio Cofferati.
E’ purtroppo espressione dei
limiti di coscienza della classe operaia (quelli stessi che Lenin indicava così
lucidamente nel suo Che fare?) e della
sua stessa avanguardia cercare nel “leader carismatico” il punto di
riferimento, basandosi solo sulla sua immagine o sulla sua demagogia, invece di
osservare compiutamente programmi e comportamenti nel loro sviluppo temporale.
E’ proprio per questo che è necessario costruire una organizzazione marxista
rivoluzionaria che sia in grado di mostrare, anche controcorrente, “la verità
alle masse”, costruendone la coscienza di classe e rivoluzionaria e educandole
a saper distinguere i loro veri, legittimi rappresentanti, dai leader che
cercano di utilizzare la loro forza per obiettivi diversi dagli interessi
storici, così come immediati delle masse stesse.
Così è stato per Sergio
Cofferati. Da questo punto di vista la sua decisione di sostenere, insieme a
padronato, governo e forze politiche del centro liberale, il boicottaggio attivo
del referendum sull’art. 18 ha rappresentato in sé uno shock positivo. Il
tradimento è apparso ai più palese e, in questo caso, il livello di fiducia,
cresciuto rapidamente nel periodo precedente, si è tanto più trasformato nella
base di una rapidissima caduta.
Contrariamente ai più la
“svolta cofferatiana” non ci ha sorpreso. Questo non perché abbiamo doti di
divinazione, ma perché da marxisti ci basiamo sull’analisi dei fatti,
inquadrati nelle loro radici sociali e visti nel loro sviluppo. Ritenevamo
quindi probabile, se non certo, che Sergio Cofferati avrebbe cercato di
dimostrare alla borghesia nel suo complesso la propria affidabilità come leader
di un futuro governo capitalistico di centrosinistra. Perché ci era evidente
che questo era e rimane la posta in gioco per Sergio Cofferati. Non una
prospettiva, fosse pure moderata e “socialdemocratica”, per la sinistra; ma
una prospettiva liberale a partire da un ruolo socialdemocratico, per la
borghesia “antiberlusconiana” del nostro Paese.
E’ in definitiva questo lo
sviluppo logico di tutta la storia di burocrate sindacale sostenitore della
collaborazione di classe di Cofferati. Dopo la giovanile militanza maoista (nel
più moderato dei gruppi della “nuova sinistra”, lo stalinista Movimento
Studentesco di Capanna, Toscano, Cafiero e… Alfonso Gianni), Cofferati,
passato al Pci, ascese rapidamente, per le sue indubbie capacità, dalla
“sua” Pirelli a ruoli dirigenti nel quadro nazionale della Cgil. Qui fu
netto sostenitore delle forme più aperte di “concertazione”. In particolare
come segretario generale della FILCEA, il sindacato dei chimici, fu negli anni
ottanta antesignano di elementi particolarmente negativi di peggioramento
contrattuale, come la flessibilità degli orari in funzione delle esigenze
produttive. Nel successivo ruolo di segretario confederale appoggiò senza
distinguo le peggiori svendite e controriforme sindacali (dall’abolizione
definitiva della scala mobile all’accordo del 23 luglio ’93, che
istituzionalizzava la concertazione). In questo senso l’assunzione del ruolo
di segretario generale nel ’94 rappresentava una evidente continuità
ultramoderata col suo predecessore Bruno Trentin. Ed in effetti il primo grande
terreno su cui si trovò confrontato fu quello della riforma delle pensioni.
Qui, dopo una iniziale resistenza al governo Berlusconi, tradì la forza del
movimento di lotta che si era sviluppato realizzando una ”tregua“ col
governo che poneva le basi di una futura pesante controriforma. Che poi fu
quella che realizzò col successivo “governo di unità nazionale” di
Lamberto Dini (1995).
Vero è che all’inizio della
fase successiva, quella del governo Prodi, Cofferati fu tentato,
dall’assumere, in un quadro in cui probabilmente pensava potessero esserci più
spazi per una reale “autonomia” della Cgil dal Pds impegnato nel governo,
posizioni larvatamente critiche delle peggiori misure antioperaie e antipopolari
del nuovo governo. I tempi, però, non erano ancora maturi per un tale sviluppo,
e Cofferati fu costretto a battere rapidamente in ritirata.
Chi scrive fu testimone diretto
a questo proposito di un esemplificativo episodio. Nell’autunno del ’96 il
direttivo nazionale della Cgil si riunì per discutere la finanziaria per il
’97 predisposta dal governo. Si trattava della finanziaria che passò poi alla
storia col nome giornalistico di “finanziaria lacrime e sangue” e che allora
tutta la sinistra politica appoggiava (Liberazione
intitolava l’articolo esplicativo sulla questione del leader della
“sinistra” della maggioranza del partito, Paolo Ferrero, “Una finanziaria
popolare”). Il direttivo della Cgil iniziò con una relazione molto cautamente
critica almeno su alcune delle misure previste. Alcuni interventi di elementi
della maggioranza confederale furono più espliciti (l’attuale segretario
della Fiom Rinaldini affermò: “Non possiamo andare dai lavoratori a dire che
a pagare devono essere sempre e solo loro”). A un certo punto della riunione,
dopo un intervallo, si vide un tesissimo Sergio Cofferati lasciare
precipitosamente la sede della Cgil. La spiegazione (non annunciata
ufficialmente): una convocazione immediata da parte di Massimo D’Alema, allora
segretario del Pds. Dopo tre ore Cofferati rientrò, bianco in volto. Da
quell’istante ogni critica venne lasciata cadere e il direttivo, con il solo
dissenso dell’area di sinistra “Alternativa Sindacale”, votò un testo
acritico verso la politica del governo (con grande gioia dei rappresentanti
della cosiddetta “area programmatica dei comunisti”- Rocchi, Danini, etc.-
yes-man di Bertinotti, felici di votare insieme ai cofferatiani a sostegno della
politica antipopolare di Ulivo e Prc). Evidentemente, informato direttamente o
supponendo la possibilità di critiche, D’Alema aveva voluto ricordare a
Cofferati che il partito era ancora il padrone e che non poteva azzardarsi a
toccarne la linea e l’azione essenziale.
Crediamo che questo episodio e
in ogni modo un atteggiamento generale di questo tipo abbia contribuito allo
dichiarata ostilità, anche personale, di Cofferati nei confronti di D’Alema e
analogamente a quella nei confronti di Bertinotti. (molte volte in seguito
Cofferati si riferirà senza nominarlo apertamente a “quelli che ci
criticavano per non aver lottato contro le misure che loro votavano in
parlamento”, evidentemente, su questo terreno, con qualche plausibilità).
Bloccato nelle sue velleità di
utilizzare con un certo grado di autonomia la Cgil, Cofferati inizia allora a
sviluppare una battaglia politica di immagine di “sinistra” nel suo partito,
contrapponendosi a D’Alema sulla difesa della necessità di una forza
socialdemocratica legata al mondo del lavoro. Ma questo pseudo-sinistrismo
politico non ha per lui corrispondenti sul piano sociale. Anzi, è proprio alla
fine dell’esperienza di centrosinistra , e più precisamente all’epoca del
governo D’Alema, che Cofferati, contravvenendo anche a decisioni formali del
direttivo Cgil, propone in prima persona una ulteriore attacco al sistema
pensionistico, ipotizzando, di fronte alle generiche richieste governative, un
passaggio, per tutti i lavoratori, al calcolo della pensione sulla media dei
contributi di tutta la vita lavorativa, con un grave ulteriore danno. Che
Cofferati abbia fatto questa proposta nonostante la presenza alla testa del
governo del suo “nemico” D’Alema, la dice lunga sulla sua identificazione
con gli interessi sociali delle classi dominanti, e sul carattere “liberale”
della sua visione generale.
E’ stata la sconfitta del
centrosinistra alle elezioni del 2001 che ha creato le condizioni del salto di
qualità del cofferatismo. La confusione nei ranghi dell’Ulivo; il discredito
dei suoi dirigenti, ben espresso dal famoso intervento di Nanni Moretti; quello
particolare di Massimo D’Alema, individuato come l’uomo del tentato
compromesso con Berlusconi (bicamerale) e della caduta di Romano Prodi; lo
sviluppo del “correntone” nei Ds; tutto ciò ha reso per la prima volta la
Cgil capace di scelte realmente autonome. Cofferati se ne è quindi servito in
funzione del suo progetto politico.
Come sempre, ad un radicalismo
di immagine politica si è accompagnata una totale moderazione sul piano dei
contenuti e del metodo. Spinta dall’azione del governo Berlusconi alla
necessità di una reazione, la Cgil cofferatiana ha cercato di controllarla al
massimo: prima con il limitatissimo “sciopericchio”di fine 2001; poi con
scioperi semestrali, intervallati dalla manifestazione del 23 marzo, grandiosa
ma in definitiva d’immagine e sostitutiva di un percorso reale di lotta
prolungata. Quanto alle rivendicazioni la Cgil ha sempre rifiutato di elaborare
una piattaforma che potesse essere realmente il punto di riferimento della
mobilitazione di massa. Le lotte contrattuali sono rimaste isolate l’una
dall’altra e, a parte i meccanici, sempre su piattaforme negative. In realtà
la proposta vera di Cofferati , persino allo stesso governo di centrodestra, è
stata quella della ricostruzione di un terreno di concertazione, terreno chiuso
dal governo Berlusconi. In questo quadro si è innestato lo sviluppo
dell’ipotesi politica cofferatiana, che tante illusioni ha creato tra milioni
di lavoratori e cittadini di sinistra, incluso molti sostenitori dello stesso
Prc. La maggioranza di loro la ha vista come la proposizione di una ipotesi
“laburista”, centrata sul movimento operaio organizzato, con un
coinvolgimento intorno a questa centralità di altri movimenti, dai
“girotondi” ai no-global (dimenticando troppo facilmente l’assenza di
Cofferati e della Cgil in quanto tale a Genova e il sostegno dichiarato di
Cofferati, all’epoca, alla “globalizzazione” capitalistica
“governata”).
Questa speranza ha coinvolto
migliaia e migliaia di militanti: dei Ds, del Pdci, dei Verdi, dei
"movimenti" e di alcuni settori del Prc stesso (frase d'obbligo
"certo è un socialdemocratico, però.."), inclusi dirigenti di tali
formazioni. L'esempio più lampante, ormai ridicolmente al tramonto prima di
essere veramente sorto, è quello del movimento politico "Lavoro e Libertà"
(Patta, Salvi, Tortorella, Sabbatini, Rinaldini e Caron), che voleva
accompagnare il processo di formazione del nuovo "Partito del Lavoro"
prefigurandone una specie di sinistra (l'ultimo tragicomico episodio si è avuto
al recente comitato centrale della Fiom, dove Sabbatini, col sostegno di
Rinaldini, ha tentato, visto oramai l'indisponibilità di Cofferati, di proporsi
come suo sostituto e di lanciare a partire da lì l'ipotesi di un "partito
del Lavoro" inevitabilmente in sedicesimo. Naturalmente il tutto non poteva
concludersi che con un ridicolo fallimento).
Naturalmente lo spazio astratto
per un partito del Lavoro, diretto da Cofferati e basato sulla Cgil e sul "correntone"
della sinistra Ds esisteva. Ma chi l'ha ritenuta prospettiva probabile non aveva
fatto i conti con le reali posizioni politico-sociali e le ambizioni di
Cofferati. E' dalle interviste della scorsa estate che Cofferati aveva indicato,
certo un po' cripticamente come suo costume, che il suo obiettivo non era quello
di diventare il leader della sinistra dell'Ulivo, ma quello di usare la forza e
il sostegno dei movimenti, da quello operaio agli altri, per proporsi come
leader generale del nuovo Ulivo in quanto tale (ticket con Prodi o meno). Le
contorte manovre degli ultimi mesi, nei Ds e in generale, trovano spiegazione in
questo ambito.
La questione dell'articolo 18 è
stata la cartina di tornasole. Noi avevamo sottolineato l'importanza e positività
del referendum promosso dal Prc su questo terreno (ovviamente a condizione che
non fosse sostitutivo della battaglia sul terreno sociale) da un lato per la sua
valenza oggettiva; dall'altro perché poneva un discrimine rivelatore nei
confronti di tutte le forze organicamente filopadronali. Candidandosi a leader
borghese dell'insieme dell'Ulivo, Cofferati non poteva che segnalare, finalmente
in maniera aperta, la natura della sua proposta al capitale e al centro politico
"liberale", anche a costo di rompere con la maggioranza della Cgil,
del "correntone" DS e dei movimenti, cioè la base su cui si era
costruita la sua ascesa. Facendo così ha pero segato il ramo su cui poggiava e
ha determinato il proprio crollo. Quale che sia la sua provenienza la
definizione di "Mario Segni della sinistra" (qualcuno che sembrava cioè
avere un grande avvenire politico e che si è rovinato con le proprie mani)
sembra calzante. Naturalmente non tutto è concluso. Al di là dell'ambizione,
Cofferati è persona intelligente. Sarebbe sbagliato escludere in assoluto
possibili colpi di coda. Ma a oggi "il re è nudo" e l'ipotesi di
Bologna sembra essere più la fine della ritirata dopo una disfatta, che il
punto di partenza per nuovi successi. Il mito Cofferati è morto e come
rivoluzionari non possiamo che esserne, come abbiamo detto, felici.
Certo la nostra aperta
valutazione positiva (che sconta la negatività possibile sul voto referendario,
ancora da svolgersi mentre scriviamo, della scelta di Cofferati, in particolare
rispetto ai margini per il quorum, perché in generale riteniamo sposterà poco
tra le masse, che appunto condannano tale scelta) è totalmente differente dalla
nascosta soddisfazione di Bertinotti e D'Alema. Dai due lati di uno stesso
fronte questi due nemici storici di Cofferati sono soddisfatti
dell'emarginazione di qualcuno che poneva in causa i loro giochi ricompositivi.
Non perché anche Cofferati non avesse la volontà di costruire una alleanza tra
Ulivo e Rifondazione, ma perché il suo progetto rendeva minore il ruolo dei due
leader e di ciò che essi rappresentano politicamente. Per il Prc poi, la
costituzione di un ipotetico "Partito del Lavoro" poneva in questione
anche una parte della base elettorale (sviluppo ovviamente negativo anche dal
nostro punto di vista). Oggi il quadro è più linearmente libero per il ritorno
ad una alleanza di collaborazione di classe Ulivo-Prc, che non a caso ha
cominciato a disvelarsi chiaramente in questo momento. Per noi al contrario la
caduta del mito Cofferati è positiva perché libera settori ampi della classe e
della sua avanguardia da illusioni potenzialmente distruttive e può permettere
una battaglia, sempre difficile, ma un po' meno complessa, contro ogni forma di
collaborazione di classe. Per far comprendere che la soluzione per i lavoratori
e gli oppressi non è né un "partito del Lavoro" socialdemocratico né
un partito "movimentista" sedicente "antagonista", in realtà
di collaborazione di classe, ma quel partito operaio, comunista, marxista
rivoluzionario per cui lottiamo nel Prc.
(5 giugno 2003)