Marxismo rivoluzionario n. 3 - speciale / lenin ottant'anni dopo

 

LE ULTIME BATTAGLIE DI LENIN

La lotta per contrastare la burocrazia e l’ascesa di Stalin

 

 

di Piero Acquilino

 

 

Ad ottant’anni dalla morte, Lenin non si lascia facilmente costringere nei panni stretti del criticone, inconcludente e un po’ menagramo, con i quali la nostra sinistra “di lotta e di governo” ama rivestire i rivoluzionari defunti, quasi fossero stati tutti prefigurazioni di Pietro Ingrao. Per rimuovere il suo contributo teorico non si esita a seppellire l’intera storia del movimento operaio novecentesco, in nome del ritorno a nebulose quanto incerte origini. La ragione di tale rimozione sta nel fatto che a Lenin e ai bolscevichi toccò in sorte, a differenza di Marx, Engels, Luxemburg, ecc., di confrontarsi, non solo in teoria, ma anche nella pratica, con la questione del potere. La necessità e la volontà di rompere l’anello più debole della catena imperialista, iniziando così un processo di rivoluzione mondiale; i problemi strategici e tattici della conquista del potere e del suo mantenimento in una situazione complessa e in rapido mutamento, sono ancora oggi acquisizioni irrinunciabili per chi concepisce il comunismo come un obiettivo concreto e non come etichetta elettorale acchiappagonzi.

Il tratto comune degli articoli, apparsi copiosi sulla stampa in occasione dell’anniversario della morte, è la continuità tra Lenin e Stalin e la conseguente negazione della controrivoluzione staliniana. Per una delle tante ironie della storia, l’anticomunismo verniciato da antistalinismo è costretto, per attaccare Lenin, a far suo il principale risultato della scuola staliniana di falsificazioni, presentando lo Stalin delle deportazioni e dei “processi di Mosca” come l’erede legittimo ed il continuatore dell’opera iniziata da Lenin.

Al contrario, proprio la rottura tra leninismo e stalinismo, a partire dalle loro concrete basi di classe, rappresenta la chiave per comprendere la più grande tragedia vissuta dal movimento operaio nella sua storia.

 

La situazione internazionale ed il potere sovietico

La controrivoluzione burocratica in Urss è stata un processo relativamente veloce: dieci anni dopo la rivoluzione d’Ottobre il potere era saldamente nelle mani di Stalin, mentre Trocky era espulso dal Pcus. Ma la marcia della burocrazia staliniana verso il potere era iniziata già all’inizio degli anni venti, spinta da potenti forze sociali esterne ed interne al paese.

La presa del potere in Russia era, per i bolscevichi, il primo passo della rivoluzione internazionale e il mantenimento di tale potere era visto esclusivamente in questa prospettiva. Nessuno sognava di costruire il socialismo in “un paese solo”, soprattutto se questo aveva le caratteristiche di arretratezza dell’ex impero zarista. La discussione ai vertici del partito si sviluppa su due direttrici fondamentali: sul piano internazionale l’opera di costruzione a ritmo serrato della terza internazionale; su quello interno la sopravvivenza del paese, salvaguardando l’alleanza tra operai e contadini e gettando le basi di uno sviluppo industriale.

Ma, proprio nei primi anni venti, la rivoluzione internazionale comincia a subire importanti sconfitte: nel ’19 il potere dei consigli in Ungheria resiste appena quattro mesi, prima di essere schiacciato dal terrore, l’Armata rossa è bloccata alle porte di Varsavia nell’agosto 1920, al “biennio rosso” italiano segue la rapida ascesa dei fascisti di Mussolini. Ma la sconfitta più importante si consuma in Germania: la repressione dell’insurrezione spartachista da parte del governo socialdemocratico, nel gennaio 1919, era culminata con gli assassinî di Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Leo Jogiches. Da allora il comunismo tedesco, pur conquistando una base di massa, vedrà fallire tutti i suoi tentativi di conquistare il potere. Lenin stesso, alla vigilia della sua malattia, interverrà attivamente nelle vicende interne del partito tedesco per riparare le lacerazioni seguite alla disastrosa “azione di marzo” del 1921.

In questo quadro internazionale la situazione della Russia sovietica è critica. Nel novembre 1920 termina la guerra civile con la vittoria sui bianchi, ma il prezzo pagato è altissimo: l’agricoltura è distrutta e la mancanza di viveri affama città e campagne, le fabbriche sono strozzate dall’embargo, i quadri operai del partito decimati dalla guerra, i soviet ridotti ad un involucro semivuoto. Il paese è stanco di guerra e privazioni: la carestia devasta intere regioni e, nel marzo del ’21, Kronstadt insorge ed è repressa nel sangue. In questa situazione il decimo congresso del partito adotta la Nuova politica economica (Nep), destinata a favorire la ripresa delle campagne con concessioni all’iniziativa privata.

La Nep ha successo, i generi alimentari riprendono ad essere disponibili, ma i loro prezzi aumentano mentre i salari rimangono fermi. È un duro colpo per una classe operaia che ha fatto la rivoluzione, ma che rimane minoritaria nell’immenso oceano della campagna russa.

Tra i bolscevichi le ripercussioni di questa situazione sono pesanti: le discussioni sono tese e laceranti, tanto che il decimo congresso, per la prima volta nella storia del partito, proibisce, sia pure temporaneamente, le frazioni. Dirigenti di provata esperienza come Krenstinskij, Preobrazenskij, Serebrianikov lasciano il segretariato e il comitato centrale, sostituiti da figure come Kaganovic, Jarovslaskij, Molotov, future pedine del gioco di Stalin.

 

La malattia di Lenin

È in questa situazione che Lenin ingaggia le sue ultime battaglie politiche. Dalla fine del 1921 la sua salute va rapidamente peggiorando, con insonnia e crisi di vertigine, tanto che, in dicembre, è costretto ad interrompere il lavoro per un periodo di riposo a Gorkij. Nel marzo 1922 partecipa per l’ultima volta ad un congresso di partito (l’undicesimo) e, ai primi di maggio, un primo attacco lo lascia temporaneamente semi paralizzato e privo di parola.  Nel corso dell’estate la sua salute migliora, tanto da consentirgli di partecipare al quarto congresso dell’Internazionale, ma nella seconda metà di novembre subisce un nuovo attacco e nel marzo del ’23 un altro ancora, dal quale non si risolleva più fino alla morte, che sopraggiunge il 21 gennaio 1924 per emorragia cerebrale.

Nonostante queste drammatiche condizioni di salute, nelle quali ogni riga dettata gli costa enormi sforzi, Lenin analizza con estrema lucidità la situazione interna della Russia sovietica ed il quadro internazionale in cui essa si colloca.

Nei giorni precedenti la crisi definitiva del marzo ’23 egli scrive Meglio meno, ma meglio (1), che la "Pravda" pubblicherà il 4 marzo, nonostante il parere contrario di parte dell’ufficio politico, allarmato dalla durezza delle sue critiche. In questo articolo affronta le cause che ritardano la rivoluzione in occidente e la nuova prospettiva apertasi nel mondo coloniale e semi coloniale:

"Il sistema delle relazioni internazionali ha preso oggi una forma che uno degli Stati europei - la Germania - è asservito agli Stati vincitori. Inoltre, parecchi Stati, tra i più vecchi dell'Occidente, avendo vinto la guerra, hanno avuto la possibilità di sfruttare la vittoria per fare alle loro classi oppresse diverse concessioni che, pur essendo poco importanti, ritardano il movimento rivoluzionario e creano una sembianza di 'pace sociale'.

"Nello stesso tempo, una serie di paesi, Oriente, India, Cina, ecc., a causa appunto dell'ultima guerra imperialistica, sono stati definitivamente gettati fuori dai loro binari. Il loro sviluppo si è adeguato definitivamente allo sviluppo del capitalismo europeo. E' incominciato in essi un fermento simile a quello che si ha in Europa. E' ormai chiaro per il mondo intero che essi sono stati trascinati su una vita di sviluppo che non può non portare a una crisi del capitalismo mondiale nel suo insieme."

In questo contesto egli pone due domande:

Ci troviamo così, nel momento attuale, davanti alla domanda: saremo noi in grado di resistere con la nostra piccola e piccolissima produzione contadina, nelle nostre condizioni disastrose, fino a che i paesi capitalistici dell'Europa occidentale non avranno compiuto il loro sviluppo verso il socialismo?…Quale tattica prescrive dunque tale situazione per il nostro paese?

La risposta di Lenin è chiara:

"…dobbiamo essere estremamente cauti per poter conservare il nostro potere operaio, per poter mantenere sotto la sua autorità e sotto la sua guida i nostri piccoli e piccolissimi contadini.”

Mentre sul fronte esterno gli sforzi del partito vanno indirizzati verso la costruzione dell’internazionale, sia nei paesi imperialistici sia nelle colonie (significativo a questo riguardo il primo Congresso dei popoli d’oriente tenuto a Bakù nel 1920), sul fronte interno si pongono con urgenza tre ordini di problemi: il già citato difficile rapporto tra il settore pianificato dell’economia e quello privato; la crescita del livello culturale e politico del proletariato; la lotta, nel nuovo apparato statale, contro la vecchia burocrazia zarista e la nuova burocrazia sovietica.

 

La lotta contro la burocrazia

In Meglio meno, ma meglio, Lenin prende atto che l’Ispezione operaia e contadina (Rki) non ha funzionato: “ Diciamolo pure: il commissariato del popolo per l'ispezione operaia e contadina non gode ora di nessun prestigio. Tutti sanno che non esistono organismi peggio organizzati dell'Ispezione operaia e contadina e che, nelle condizioni attuali, è inutile pretendere qualcosa da questo commissariato del popolo.”

È un’affermazione pesante, se si considera che il commissario del popolo alla Rki, dal marzo 1919 al 25 aprile 1922, era stato il segretario generale del partito Josif Stalin.

Il difficilissimo periodo, attraversato dopo la rivoluzione, ha scosso la fiducia dei lavoratori e dei contadini nelle nuove istituzioni sovietiche.  Inoltre, se il numero degli iscritti al partito è cresciuto vertiginosamente dopo la conquista del potere, il loro livello politico e culturale è andato via via peggiorando. In un quadro d’isolamento internazionale di cui non è prevedibile la durata, uno stato inefficiente ed un partito impreparato non possono sopravvivere a lungo. Per questo Lenin centra il suo intervento pubblico sull’opera, lunga e paziente, d’educazione del proletariato e sulla necessaria rapida riforma degli organi del potere sovietico. Fusione di Rki e commissione centrale di controllo del partito; allargamento del comitato centrale; riunione plenaria congiunta bimestrale dei due organismi per elaborare le decisioni politiche: queste sono le misure immediate che Lenin individua come primo passo per riqualificare gli organi del potere sovietico.

 

La questione del commercio estero

La prima questione specifica sulla quale Lenin concentra le sue forze, oramai compromesse dalla malattia, è quella del monopolio statale sul commercio estero. Alla fine del 1921 una parte del gruppo dirigente bolscevico, compresi Stalin e Bucharin, espresse un orientamento favorevole all’abolizione o, almeno, all’attenuazione di questa misura.

Lenin aveva sostenuto con forza l’adozione della Nep. Ma, proprio per questo, è cosciente che una classe contadina, libera di imporre i propri prezzi sul mercato interno e di commerciare con l’estero avrebbe rappresentato un pericolo mortale per il potere sovietico. L’abolizione del monopolio avrebbe allargato, in modo insostenibile, quella forbice tra prezzi e salari che stava già rappresentando un serio problema nei rapporti tra operai e contadini.

Il 15 maggio 1922 Lenin scrive una lettera a Stalin, che il precedente congresso del partito aveva eletto segretario generale, esigendo il blocco di ogni revisione del monopolio sul commercio estero. Stalin si adegua, ma chiarisce il suo disaccordo (2) e le proposte di Lenin sono adottate dall’ufficio politico il 22 maggio. La pressione contro il monopolio è però molto forte e, il 6 ottobre, il comitato centrale, assente Lenin, approva le deroghe proposte da Sokolnikov.

Lenin, nonostante stia organizzando l’abbandono della vita pubblica a causa della sua malattia, decide di organizzare una battaglia politica per la revisione di questa decisione inviando una richiesta in tal senso al comitato centrale. Stalin accetta, pur rimarcando la sua opinione contraria, e il comitato centrale mette all’ordine del giorno la discussione. Nel frattempo Lenin organizza il sostegno alle sue posizioni. Il 12 dicembre incontra Trotsky, come lui sostenitore del monopolio, e gli propone di far causa comune. Il 18 dicembre il comitato centrale annulla la precedente delibera e Lenin scrive a Trotsky: “A quanto pare, compagno Trotsky, siamo riusciti a prendere la posizione senza colpo ferire, con una semplice manovra. Vi propongo di non fermarci e di continuare l’offensiva.” (3)

 

La questione georgiana

L’occasione per continuare l’offensiva non tarda a venire e concerne questa volta lo spinoso problema delle nazionalità.

L’impero zarista era noto come la “prigione dei popoli” per il numero di nazionalità che chiudeva nei suoi confini. Tra i popoli oppressi la lotta contro l’assolutismo dello zar s’intrecciava con quella contro l’oppressione nazionale esercitata dall’etnia russa, dominante nell’impero. La rivendicazione dell’autodeterminazione delle nazioni era stata quindi uno dei punti fondamentali del programma bolscevico che, all’indomani della rivoluzione, il consiglio dei commissari del popolo (Sovnarcom) cercò di applicare nella complessa situazione determinata dalla guerra civile.

All’indomani della vittoria sulla controrivoluzione, il potere dei soviet si articolava su cinque repubbliche nazionali (Ucraina, Bielorussia, Georgia, Armenia, Azerbaijan) e la Rsfsr (Repubblica socialista federativa sovietica russa). Se, formalmente, i rapporti tra la federazione russa e le repubbliche erano regolati da accordi bilaterali tra stati indipendenti, di fatto, partito comunista ed Armata rossa erano già forti elementi di centralizzazione sopranazionale.

Il Sovnarcom si poneva comunque la necessità di superare gli accordi bilaterali tramite un’integrazione politica ed economica e, nel 1921, Lenin propone la costituzione di una federazione transcaucasica comprendente Armenia, Georgia e Azerbaijan. E’ creata una direzione regionale del partito, affidata a Sergo Ordzonikidze, un bolscevico d’origine georgiana, che aveva avuto un ruolo importante durante la guerra civile nel Caucaso.

Tutti i partiti comunisti delle repubbliche condividono la necessità di maggior integrazione, ma il comitato centrale del partito georgiano è preoccupato dalle limitazioni alle prerogative d’indipendenza nazionale. L’oppressione zarista del passato e la recente autonomia sotto il governo menscevico sono   esperienze che pesano anche tra i dirigenti comunisti e lo scontro si radicalizza, soprattutto per i brutali metodi amministrativi di Ordzonikidze continuando per tutta la prima metà del ’22.

Nell’agosto 1922 l’ufficio politico del partito istituisce una commissione per elaborare un progetto di relazioni tra la Rsfsr e le altre repubbliche. Tale commissione, presieduta da Stalin, è composta in maggioranza da uomini a lui fedeli, elabora un testo che, a dispetto del suo titolo Tesi sull’autonomizzazione (4), prevede la pura e semplice annessione delle cinque entità statali alla Rsfsr come “repubbliche autonome”. Nonostante l’opinione contraria dei georgiani e degli ucraini, Ordzonikidze fa appello alla disciplina di partito e la commissione approva il progetto.

In settembre Lenin, che si trova in convalescenza, vuole approfondire la questione e organizza incontri con Stalin, Sokolnikov e con il dirigente dei georgiani Midvani. Dopo aver letto il dossier sulla questione, scrive a Kamenev, definendo l’atteggiamento di Stalin “un po’ troppo precipitoso” (5) e propone profonde modifiche al testo sull’autonomia, tese al riconoscimento della pari dignità a tutte le repubbliche.

Stalin, che alla carica di segretario del partito sommava quelle di commissario alle nazionalità e di commissario all’ispezione operaia e contadina, accusa Lenin di “liberalismo nazionale” e risponde a Kamenev scrivendo: “Penso che bisogna mostrare della fermezza contro Lenin” (6). Ma, rendendosi conto di non avere la maggioranza al comitato centrale, propone un testo nel quale le divergenze sono aggirate.

Il 6 ottobre, a comitato centrale riunito, Lenin scrive a Kamenev:

Compagno Kamenev! Dichiaro guerra (e non una guerriciola, ma una lotta per la vita e per la morte) allo sciovinismo grande russo. Non appena mi sarò liberato di questo maledetto dente, lo assalirò con tutti i miei denti sani.

Bisogna assolutamente che il Cec federale sia presieduto a turno da: un russo, un ucraino, un georgiano, ecc.

 

Assolutamente!” (7)

L’approvazione da parte del comitato centrale del nuovo progetto, non risolveva la questione georgiana perché le tre repubbliche caucasiche entravano a far parte della federazione non direttamente, ma attraverso la Federazione transcaucasica. Di fronte alle nuove proteste, Ordzonikidze inizia ad impiegare le maniere forti, trasferendo d’ufficio, i membri del comitato centrale georgiano dissidenti che si appellano inutilmente a Kamenev, Bucharin e allo stesso Lenin. Deluso, tutto il comitato centrale si dimette il 22 novembre, prontamente sostituito da un altro comitato centrale nominato da Ordzonikidze. Lo scontro degenera a tal punto che quest’ultimo, nel corso di una riunione, aggredisce fisicamente un dirigente del partito georgiano. Lenin, allarmato per la piega presa dai fatti e diffidente nei confronti della commissione d’inchiesta sul comportamento di Ordzonikidze presieduta da Dzerzinskij, invia in Georgia il suo assistente Rykov.

Rykov torna dalla sua missione il 9 dicembre e Dzerzinskij tre giorni più tardi. Dall’incontro con quest’ultimo Lenin esce profondamente abbattuto tanto che il giorno dopo subisce due attacchi della sua malattia che lo costringono nuovamente all’inattività. I medici gli proibiscono di ricevere visite ed i suoi contatti, ai quali è stato formalmente proibito di fornirgli informazioni politiche, si riducono alla moglie, alla sorella e alle sue segretarie. Stalin è incaricato di sorvegliare che il regime di segregazione del malato sia rispettato.

Nonostante ciò, il 22 dicembre Lenin detta alla moglie la già citata lettera di felicitazioni a Trotsky per la vittoria nella discussione sul commercio estero. La reazione di Stalin è talmente violenta che la Krupskaja è costretta ad appellarsi a Kamenev per difendersi dalle accuse del segretario generale. Tale reazione si spiega con l’inquietudine che causava in Stalin il delinearsi di un accordo tra Lenin e Trotsky, non solo su questioni specifiche, ma su temi generali come la tattica dell’Internazionale, la lotta alla burocrazia, la questione nazionale, ecc.

Con l’aggravarsi della malattia, Lenin arriva a minacciare di rifiutare le cure se non gli sarà concesso di dettare almeno tre quarti d’ora al giorno.  Tra il 23 dicembre e il 4 gennaio detta le note sul gruppo dirigente bolscevico conosciute con il titolo di Testamento e, appena la malattia glielo consente, elabora un vero e proprio piano di lavoro in vista del prossimo congresso del partito.

I temi che intende affrontare sono: la lotta contro la burocrazia, la riorganizzazione del partito e la fusione tra la Commissione centrale di controllo, l’ispezione operaia e contadina, la costituzione dell’Urss e, soprattutto, la questione georgiana.

Su quest’ultimo problema, il 24 gennaio, chiede insistentemente i dossier della commissione Dzerzinskij che gli saranno consegnati solo dopo la fortissima resistenza di Stalin, non senza essere stati epurati dai documenti più compromettenti.

Lenin costituisce segretamente un gruppo di lavoro, composto dai suoi collaboratori, per lo studio dei dossier. Man mano che approfondisce la questione egli si convince che in causa non ci sono solo gli inaccettabili metodi di Ordzonikidze, ma la diffusione del “nazionalismo grande russo”, ereditato dallo zarismo, nel gruppo dirigente del partito. In una nota dettata alla sua segretaria, chiede di far sapere ai georgiani che egli, contrariamente a quanto era avvenuto il novembre precedente, è ora dalla loro parte.

Il 3 marzo il gruppo di lavoro consegna un documento conclusivo che gli archivi del partito oramai egemonizzato da Stalin non renderanno mai pubblico. Tali conclusioni e il continuo aggravarsi della malattia, convincono Lenin ad attaccare frontalmente Stalin.

Il 5 marzo scrive segretamente a Trotsky:

Vi chiedo insistentemente di assumere la difesa della questione georgiana nel Comitato centrale del partito. Ora è fatta segno di una “persecuzione” da parte di Stalin e di Dzerzinskij, così che non posso fidarmi della loro imparzialità. Purtroppo è vero il contrario!

Se voi acconsentite di prenderne la difesa io mi sentirò assai sollevato. Se per qualche ragione voi non potete acconsentirvi, vi prego di restituirmi tutte le carte. Lo considererò come il segno del vostro rifiuto.” (8)

La lettera che invia a Stalin ha un tono ben diverso:

Rispettabilissimo compagno Stalin,vi siete permesso la volgarità di chiamare mia moglie a telefono e d’ingiuriarla. Essa si è dichiarata d’accordo per dimenticare ciò che è stato detto. Tuttavia essa ne informò Zinov’ev e Kamenev. Non ho l’intenzione di dimenticare ciò che è stato fatto contro di me, e va da se che ciò che è stato fatto a mia moglie lo considero diretto anche contro di me. È per questo che vi domando di decidere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a presentare le vostre scuse, oppure se preferite rompere le relazioni tra di noi.” (9)

A queste lettere segue una nota ai dirigenti georgiani in cui scrive “…sono con voi con tutto il mio cuore." La lotta aperta è dichiarata. Lenin chiede invano che nei confronti di Orzonikidze, Dzerzinskij e Stalin il partito prenda misure esemplari. D’altra parte, già il 4 gennaio, nell’ultima delle note sul gruppo dirigente destinate al congresso e note come il suo “testamento” egli aveva dettato:

Stalin è troppo grossolano, e questo difetto, del tutto tollerabile nell’ambiente e nei rapporti tra comunisti, diventa intollerabile nella funzione di segretario generale. Perciò propongo ai compagni di pensare alla maniera di togliere Stalin da questo incarico…” (10)

Ma oramai la malattia inarrestabile gli impedisce di continuare a lottare: il 10 marzo sopraggiunge la definitiva semiparalisi e la perdita della parola, di fatto, la morte politica di Lenin. Quella fisica giungerà quasi un anno dopo.

L’articolo Sulla questione delle nazionalità o della “autonomizzazione" (11) dettato tra il 27 e il 31 dicembre del 1922, ma pubblicato solo nel 1956, conclude la lunga elaborazione di Lenin sulla questione nazionale. La storia dell’Urss e della Russia del XX e XXI secolo s’incaricherà di confermare tragicamente la diagnosi che egli fece sui pericoli del nazionalismo grande russo di Stalin e dei suoi successori.

(15 febbraio 2004)

 

 

Note

 

[1] V. I. Lenin, Opere, vol. 33, pag 445. Editori riuniti, Roma (Ed anastatica con indici: Edizioni Lotta comunista, Milano 2002).  

2A questo punto, non mi oppongo all’interdizione formale di misure nel senso dell’attenuazione del monopolio del commercio estero. Credo tuttavia che l’attenuazione diverrà inevitabile.” In Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969, p. 49.

3 V. I. Lenin, Opere, vol. 45, p. 623. Editori riuniti, Roma. (Ed anastatica con indici Edizioni Lotta comunista, Milano 2002).

4 In Moshe Lewin, op cit. p. 161.

5 V. I. Lenin, Opere, vol. 42, p. 403.

6 In Moshe Lewin, op cit. p. 66

7 V. I. Lenin, Opere, vol. 33, p.339.

8 V. I. Lenin, Opere, vol. 45, p. 623.

9 V. I. Lenin, Opere, vol. 45, p. 623.

10 V.I. Lenin, Opere, vol. 36, p. 425.

11 V.I. Lenin, Opere, vol. 36, p. 439