Marxismo rivoluzionario n. 1 – lavoro-capitale / referendum per l'estensione dell'articolo 18

 

UN Sì PER I DIRITTI E PER TORNARE A VINCERE

Il referendum è l’occasione per riaprire una battaglia generale

 

 

La strategia che punta a smantellare le garanzie del lavoro viene da lontano e ha un respiro europeo. Le responsabilità del centrosinistra nell’aprire la strada a Berlusconi. I limiti della risposta della Cgil e il “tradimento” di Cofferati. La vittoria del referendum può oggi riaprire la strada alla controffensiva e alla cacciata del governo

 

 

di Luca Scacchi

 

Il 15 giugno si vota: lo scontro sull’articolo 18 in corso da quasi un decennio è ad un momento cruciale. Se vince il SI, la tutela contro i licenziamenti senza giusta causa sarà allargata anche alle imprese con meno di quindici dipendenti, segnando un risultato oggettivo e soggettivo nella lotta per spezzare l’attacco padronale; se vince il No il padronato ed il centrodestra avranno il colpo in canna per poter travolgere le resistenze operaie; se non si raggiungerà il quorum l’ipotesi di modifiche legislative contrattate con una parte delle forze sindacali troveranno forza e fiato, chiudendo al ribasso questa pluriennale partita tra classe e capitale.

Questa battaglia cruciale si colloca in un momento particolare dei rapporti fra classe e capitale nel continente europeo.

 

Licenziamenti, pensioni, distruzione dei contratti: un’offensiva europea

La nascita dell’euro sta spingendo l’integrazione continentale. In una fase di crisi congiunturale e di lungo periodo si amplificano le contraddizioni intercapitaliste, si rende necessaria la veloce realizzazione di un mercato protetto, in cui possano consolidarsi dei grandi “campioni” continentali. In questi anni in Europa qualcosa ha iniziato a muoversi nelle telecomunicazioni, nell’acciaio, nell’aerospaziale (Vodafone, Eads, ecc.), ma le crisi delle borse, parallelamente alle divisioni politiche nel processo di istituzionalizzazione ed allargamento, stanno determinando notevoli rallentamenti. Se la moneta unica spinge verso la formazione di un capitale europeo, mobilita anche interessi e resistenze nazionali. In questa fase contraddittoria si sta sviluppando un’offensiva nei confronti della classe operaia europea, con l’obiettivo di unificare le diverse frazioni della borghesia e favorire la crescita di un capitale continentale.

In un periodo in cui il polmone della finanza concede fiato al circuito del plusvalore solo distruggendo da un giorno all’altro quote crescenti di capitale, l’abbondanza di capitali rende necessario un aumento dello sfruttamento, in un orgia distruttiva di profitti e impoverimenti. L’obiettivo di contrarre il salario diretto, come quello sociale e differito, raccoglie il consenso delle imprese grandi come di quelle piccole, ricomponendo contro la classe i diversi interessi dei padroni.

Questa offensiva sta assumendo nelle principali metropoli del continente (Italia, Francia, Spagna e Germania) la forma di uno scontro su tre elementi delle relazioni capitale-lavoro: il salario differito (creazione fondi pensioni e assicurazioni sanitarie), l’evaporazione dei contratti nazionali, la precarizzazione del rapporto di lavoro con una più ampia libertà di licenziamento. La strategia messa a punto a Lisbona nel Consiglio europeo del marzo 2000 ha posto chiaramente i termini della questione: fare della UE l’economia più avanzata entro il 2010, a qualsiasi costo.

 

In Italia, un’offensiva per ricomporre il capitale e spaccare la classe  

E’ negli ultimi anni di governo del centrosinistra che matura nel capitale italiano la spinta a rompere la concertazione. La nuova direzione di Confindustia rende evidente un diverso assetto del capitale italiano, in cui acquistano più voce le esigenze del piccolo e medio capitale di difendersi dai costi dell’integrazione e dalla forza dell’euro. Le richieste delle fabbriche del nord est, che già nel 1998 avevano posto al centro la riforma dei contratti e dell’articolo 18, trovano un nuovo ascolto. Le divisioni sui tempi dell’adesione all’euro e sul diverso utilizzo delle decrescenti risorse statali trovano un elemento di riequilibrio in una nuova offensiva padronale. Già allora l’ala liberale del centrosinistra, da D’Alema a Nicola Rossi, prova ad interloquire con questa domanda confindustriale, ma la debolezza parlamentare di quella maggioranza e la vicinanza della scadenza elettorale rendono quel tentativo poco credibile. La battaglia è allora condotta dagli “ascari” radicali, che lanciano il proprio referendum abrogativo, in un pacchetto di mischia con l’uninominale e la privatizzazione della sanità. Ma il colpo è sparato a salve, e per di più esplode in faccia ai cecchini: non solo il quorum non è raggiunto, ma tra gli scarsi votanti prevalgono quelli contrari all’abolizione delle garanzie contro il licenziamento nelle grandi imprese.

 

Il presidente-operaio ed il 23 marzo: una strategia neocorporativa e una risposta di massa

Sospinto dalla strategia di Tremonti (costruzione di un blocco sociale centrato sugli interessi della borghesia nazionale), Berlusconi inserisce le richieste padronali nel suo composito schieramento. Al congresso confindustriale di Parma si rende portatore di un programma di rottura di quella pace sociale garantita dall’Ulivo nei cinque anni del suo travagliato governo. Un programma che assume forza e credibilità a partire da una diversa tattica rispetto alla precedente esperienza del ’94: un approccio in salsa spagnola che coinvolge il sindacato nella gestione delle controriforme, condito dalla rottura dell’unità sindacale che si va sperimentando tra i metalmeccanici come in quel di Milano.

Ma nonostante la vittoria elettorale del 2001 e l’ampia maggioranza parlamentare, il governo di centrodestra trova sulla sua strada una risposta di massa anche più ampia del ‘94. L’abolizione dell’articolo 18, primo passo di un attacco complessivo portato con la legge delega sulle pensioni e la precarizzazione del lavoro (L.848), risveglia una fortissima disponibilità dei lavoratori alla lotta, nonostante il suo carattere ridotto e parziale (solo per i nuovi assunti, per una fase sperimentale di tre anni). Le piazze si riempiono, un movimento di lavoratori di enormi dimensioni ingloba e supera le mobilitazioni noglobal e quelle girotondine, a dispetto di ogni ideologia sulla marginalità del lavoro salariato. Una classe si raccoglie intorno alla battaglia dei sindacati di base e della Cgil, ancorando quest’organizzazione ad un rifiuto delle sirene neocorporative che pure attraversano larga parte del centrosinistra.

Nonostante le firme di Cisl e Uil al Patto per l’Italia, il governo rallenta il percorso di riforma davanti alle piazze romane del 23 marzo. L’offensiva sull’articolo 18 si ferma, disperdendo il disegno di legge tra i meandri del Parlamento. L’attacco cambia direzione, logorando ai fianchi le lotte con l’emergere della crisi nei grandi gruppi industriali (vedi Fiat) come nei distretti industriali (vedi Benetton) e portando l’affondo nel contratto nazionale dei metalmeccanici, puntualmente arrivato con l’accordo separato di questi giorni.

 

Centrosinistra liberale ed cofferatismo: l’Ulivo alla prova delle lotte

In questo scontro la natura di classe dell’Ulivo si rileva a livello di massa. Nello sfaldamento successivo alla sconfitta e nella competizione per la leadership fra le sue diverse componenti, i suoi principali dirigenti enfatizzano il proprio profilo liberale, ponendosi come obiettivo prioritario la ricostruzione di un solido rapporto con il padronato italiano. La critica al centrodestra viene avanzata sottolineando le contraddizioni del suo blocco elettorale (con la presenza di forze populiste ed antieuropeiste), la minor efficacia dello scontro rispetto al metodo concertativo nella gestione delle lotte sociali, il conflitto di interessi di Berlusconi (che crea fastidio ai padroni non per il controllo dei media, come è stato evidente nelle vicende Fiat e Generali, quanto per il doppio ruolo di grande capitalista italiano e di capo del governo). Questo asse politico obbliga l’Ulivo a distanziarsi dalle lotte, nonostante il loro carattere di massa, arrivando ad isolare la stessa Cgil che non firma il Patto per l’Italia. A Genova nel 2001 come a Roma nel 2002, i DS e la Margherita sono state schiacciate dalla contemporanea esigenza di non poter rompere con un movimento antigovernativo, ma di non poter farsi carico del suo programma di lotta.

Una contraddizione che, in forma diversa, investe pienamente anche il maggior protagonista di questa stagione. Chiamata in causa dalla profondità dell’attacco che la pone al centro del mirino, la Cgil non può che rispondere e attivare, come nel ‘94, una risposta di massa. Nello stesso tempo però non intende rompere con la concertazione, che al contrario rivendica, ma lavora per poterne ricreare le condizioni. La burocrazia sindacale stringe quindi il controllo sul proprio apparato, riducendo gli spazi di dissenso e di articolazione politica interna (ultimo congresso nazionale con il voto plebiscitario al documento finale, l’emarginazione dagli organismi dirigenti sia delle ali liberali che di quelle più di sinistra all’interno di Cambiare rotta, ecc). Nel contempo non generalizza l’esperienza della Fiom, anzi sigla unitariamente contratti in altre categorie pienamente nei parametri del 23 luglio (chimici, commercio, alimentari, ecc), non costruisce una piattaforma di lotta complessiva, non si pone l’obiettivo della caduta del governo né nelle parole d’ordine né nelle forme di lotta, non stringe lo scontro ma anzi lo diluisce in scioperi e manifestazioni fra loro lontane e scollegate. La lotta rimane sospesa, non vede momenti di sbocco né sul piano politico, né su quello sindacale.

 

Il referendum: classe, sinistra e Prc a confronto. Quale strategia per le lotte?

Il referendum, proposto dal Prc e raccolto da diversi soggetti (Fiom, Verdi, Cambiare rotta e sindacati di base, ecc), si inserisce in questo quadro. Il quesito riprende le lotte degli ultimi anni, provando ad estendere le tutele al licenziamento ad un settore consistente della classe a cui oggi sono precluse. Colpisce quella frazione del capitale che oggi è più scoperta, che ha più premuto per sviluppare l’attacco padronale e che è sottoposta più pesantemente ai costi dell’integrazione. Porta le contraddizioni nel fronte avverso, avviando processi di ricompattamento della classe a partire dai suoi settori più forti e sindacalizzati, la classe operaia di fabbrica.

Nel contempo, come un rasoio di Occam, il quesito taglia in due la sinistra politica, creando un fossato tra le forze che cercano un radicamento nella classe e le forze di matrice liberale. Chi prova a sganciarsi da questo schieramento, chi intende piegare il proprio radicamento nella classe alle esigenze dei padroni proprio al culmine della battaglia, come nel luglio '92 rimane nudo davanti alla piazza. Cofferati, candidandosi a dirigere un nuovo Ulivo semplicemente con un diverso dosaggio di riformismo, viene oggi spiazzato da questo scontro. Non è il referendum ad essere rivolto contro di lui, sono le sue ambizioni e la sua ambiguità a costringerlo a tornare tortuosamente fra le braccia (non proprio aperte) dei dirigenti dell’Ulivo e della Confindustria.

Ma se questo rasoio divide la sinistra secondo il proprio rapporto con la classe, nulla dice dei programmi che avanzano i soggetti del fronte del sì. Il gruppo dirigente del Prc ha caricato quest’arma con un colpo singolo, diretto al cuore della strategia cofferatiana. Questo colpo lo intende sparare per aprire il campo ad una nuova ricomposizione fra le forze della sinistra alternativa (compattate dalla partecipazione a Genova, dall’opposizione alla guerra e dal sì al referendum, indipendentemente dal risultato reale del referendum) e la sinistra liberale, in un auspicato diverso dosaggio dei rapporti di forza che dovrebbe permettere un maggior peso ad un programma keynesiano di sostegno alla domanda interna e di promozione dell’occupazione.

La Cgil ha proposto una via di riforma legislativa, che coerentemente con il proprio asse tiene aperta sia una battaglia nel merito, sia la possibilità di ritrovare un accordo concertativo con il governo. Il sostegno al sì è stato un passaggio importante e significativo, sia per il peso che potrà avere in campagna elettorale sia per la sua collocazione tra le forze che mantengono un rapporto con gli interessi della classe, ma questa organizzazione è arrivata alla fine di un lungo percorso a sostenere il sì come unico passaggio possibile per tenere aperta la propria strategia di riconquista di nuove condizioni per la concertazione. La sua strategia non l’ha minimamente messa in discussione.

 

Oltre il 15 giugno, costruire una piattaforma generale per la cacciata di Berlusconi, per un governo dei lavoratori

Il referendum è una battaglia importante, una vittoria del sì è in grado di mobilitare energie e speranze, di offrire un sostegno alla difficile situazione dei metalmeccanici, di dare un segnale al proletariato tedesco ed europeo che si sta affrontando lo stesso scontro.

Ma contro un attacco di queste dimensioni e di quest’estensione, la risposta della classe deve porsi sullo stesso piano. I comitati che stanno animando la campagna per il sì non devono limitarsi alla battaglia elettorale, ma hanno un’occasione per collegarsi alle lotte in corso e sviluppare una piattaforma generale di lotta. In una fase che rischia di veder prevalere la stanchezza e la disillusione per il risultato della vertenza metalmeccanica come per alcune importanti vicende aziendali, è importante raccogliere le diverse parole d’ordine, riportare le diverse energie allo scontro generale fra capitale e lavoro. La battaglia referendaria è un’occasione per collegare i comitati nei posti di lavoro alla lotta dei metalmeccanici, attivare la costruzione di piattaforme non concertative e costruire, a partire dai posti di lavoro, una piattaforma generale da contrapporre all’offensiva padronale. La battaglia per il sì è soprattutto un’occasione importante per porre nel movimento l’obiettivo di cacciare il governo Berlusconi, passaggio fondamentale per la sconfitta dell’offensiva in corso, senza aprire la strada alle forze liberali del centrosinistra, ma avviando la costruzione di un autonomo polo di classe per un governo dei lavoratori.