Marxismo rivoluzionario n. 1 – filo rosso / cinquantesimo anniversario della morte di stalin

 

L'ALTERNATIVA RIMOSSA

Un'occasione sprecata. Note su una rievocazione

 

 

Tutte le rievocazioni nel cinquantesimo anniversario della morte di Stalin hanno avuto un elemento in comune: la rimozione della critica – e dell'alternativa – comunista allo stalinismo, l'alternativa bolscevica. Lo speciale di "Liberazione" ripropone il leitmotiv del discorso di Livormo e delle Tesi del V congresso del partito: alla radica dello stalinismo sta il progetto della conquista del potere…

 

 

di Francesco Ricci

 

 

Un'occasione sprecata. Nel cinquantesimo anniversario della morte di Stalin molti giornali, borghesi e di sinistra, hanno dedicato "speciali" o pagine culturali alla rievocazione della figura di Stalin e allo stalinismo. Ma in mezzo a tanta carta non è comparso nulla di interessante o di nuovo: con qualche inevitabile aggiornamento si è riprodotta la consueta gamma di giudizi che girano da decenni: da quelli liberali a quelli socialdemocratici (per tacere degli impagabili stalinosauri del Pmli). Un elemento accomuna le pagine del "Corriere" o della "Stampa", lo speciale di "Repubblica", l'articolo della Rossanda sulla "Rivista del manifesto" (un articolo meno astruso del solito, forse perché recensiva l'ultimo libro di Moshe Lewin) per arrivare a "Liberazione": pur nella molteplicità degli approcci è esclusa in partenza la critica – e l'alternativa – bolscevica allo stalinismo.

 

Tutti stalinisti?

Ignorando le rievocazioni nostalgiche degli ultimi stalinisti confessi esistenti (ma se volete divertirvi un po' date un'occhiata ai siti web del Pmli e affini e godetevi le celebrazioni della "luminosa guida", infarcite di anatemi contro tutti i "trotskisti" del mondo, tra i quali spunta improvvidamente persino l'ignara condirettrice di "Liberazione", Rina Gagliardi), si trovano le rievocazioni di stampo liberale, in genere affidate a ex comunisti. La meno rozza è sicuramente quella vergata dalla penna di Miriam Mafai per "Repubblica" (nelle pagine culturali del 5 marzo). La Mafai esordisce con un: "Diciamo la verità: fummo tutti stalinisti". Ciò era, a suo dire, inevitabile. Il contesto internazionale, la minaccia nazista ma anche la "scarsità di informazioni" su quanto realmente accadeva nel "paradiso del socialismo" imponevano una scelta di campo. Il problema principale, scrive la Mafai ripetendo un leitmotiv inaugurato novant'anni fa dai menscevichi, fu la liquidazione della "democrazia" (borghese, è sottinteso) per cui quella che Lenin aveva preconizzato come "dittatura del proletariato" finì col diventare "la dittatura del partito bolscevico". Il fatto che il primo ostacolo sulla via dello stalinismo fu in realtà proprio il partito bolscevico, i suoi quadri giovani (inizialmente in maggioranza schierati con l'Opposizione), non è un problema della Mafai che è interessata più che altro a sottrarre da ogni colpa i "comunisti italiani" (cioè per lei la burocrazia dirigente del Pci). I "comunisti italiani", continua la Mafai, pur cullando il mito di Mosca seppero non riprodurlo in Occidente; anzi, essi si affrancarono da quello che sarebbe il nocciolo dello stalinismo ("il disegno della presa del potere con la violenza e della sua gestione autoritaria") per imboccare la "via italiana al socialismo", nella democrazia. Via che da Togliatti ha portato a Occhetto, D'Alema e Fassino – con grande soddisfazione della Mafai e del quotidiano per cui lavora.

Le altre riflessioni di stampo liberale si affacciano sullo stesso viale percorso dalla Mafai, quello che conduce inevitabilmente alla discarica in cui si butta il comunismo in quanto filosofia che, una volta uscita dalle teste di pur meritevoli "filosofi" (Marx), non può che edificare gulag. Insomma: meglio tenersi la democrazia liberale e il capitalismo, anche se non sono proprio il migliore dei mondi possibili. Come dicono i francesi: on connait la chanson.

 

Lo speciale di "Liberazione"

Più interessante è invece soffermarsi sull'opuscolo di "Liberazione", Stalin mai più. L'assortimento degli articoli è decisamente arlecchinesco: da Luciano Canfora a Antonio Moscato.

A differenza di precedenti approfondimenti storici di questo giornale (in realtà piuttosto superficiali) si dà conto, finalmente, e non in mezza riga, del fatto che è esistita un'opposizione di sinistra allo stalinismo. L'articolo di Massimo Lega ("La distruzione delle opposizioni") è appunto dedicato a questo. Lega ricorda che l'intero gruppo dirigente di Lenin fu liquidato e fa riferimento a uno "strato burocratico". Purtroppo non va oltre questa mera elencazione di fatti (peraltro talvolta poco conosciuti anche tra i mlitanti del partito). Nell'articolo la battaglia dell'Opposizione di sinistra è data per sconfitta in partenza. Perché? Non è chiaro, ma pare che Trotsky e l'Opposizione avrebbero ingenuamente "sottovalutato" la pericolosità di Stalin.

Antonio Moscato – probabilmente l'unico fra gli articolisti che avrebbe potuto approfondire la questione in termini marxisti – si dedica alla pur importante vicenda dello scontro tra Lenin e Stalin sulle nazionalità (che impegnò il dirigente rivoluzionario in quella che Moshe Lewin ha definito "l'ultima battaglia di Lenin") e fa riferimento al "testamento" con cui Lenin ruppe con Stalin proponendo la sua rimozione politica dai più alti incarichi. Ma il proseguimento di quella battaglia leniniana non rientra nell'ambito dell'articolo di Moscato e – purtroppo – di ogni altro articolo dello speciale.

Chi ha preparato questo Stalin mai più ha preferito sprecare una pagina intera pubblicando un'intervista allo storico Luciano Canfora. Canfora riproduce l'intero arsenale del giustificazionismo semi-stalinista (cioè stalinista nella sostanza ma senza il coraggio di una esplicitazione). E quindi fa presente, come si conviene in questi casi, che c'è "un contesto"; e quando gli si chiede di spiegare i massacri (di comunisti) compiuti da Stalin ha il coraggio di citare Trotsky che rifiutava di sottoporre le norme della guerra civile (contro i bianchi) alle norme astratte della morale borghese. In questo quadro analitico (si fa per dire) non è difficile per Canfora inserire una prima conclusione: "nel comunismo staliniano c'è una idea durissima del conflitto di classe" che non prevede "nessuna garanzia per il nemico di classe". Come a dire: non fate le signorine: si trattava di una faccenda rude per uomini rudi... Senza dimenticare poi che Stalin "eliminò la barbarie con mezzi barbarici". Purtroppo nessuno gli deve aver fatto leggere l'articolo di Massimo Lega in cui si constata che Stalin sterminò in primo luogo i bolscevichi... altro che "nemico di classe"! Ma la vera perla di Canfora è la conclusione tombale, con questa citazione di Nenni che il nostro storico dell'antichità, indebitamente prestato alla storia del movimento operaio, condivide: "Il succo dell'esperienza staliniana è stato di tentare di impedire che la rivoluzione russa facesse la stessa fine di quella francese." Si tratta di un autentico capovolgimento dell'analisi trotskiana (probabilmente involontario, in fondo Canfora si è sempre occupato di Pericle e non si può pretendere che conosca le opere di Trotsky): Stalin trasformato da agente del Termidoro russo in una specie di Robespierre (o forse di un più rude Saint-Just). In definitiva, questo è Canfora: una fervida fantasia che riesce sempre a stupire; come fece con l'editoriale di un vecchio inserto di "Liberazione" (su Marx) in cui senza esitazioni attribuì a Marx "un ripensamento" dopo la Comune e l'abbandono del concetto della rottura rivoluzionaria.

Ma è meglio lasciare Canfora (sperando che lui lasci perdere la storia) e dare uno sguardo ai due articoli che, in mezzo alle opposte letture di contorno di Moscato e di Canfora, "danno la linea". Si tratta dell'articolo di Rina Gagliardi (articolo che andrebbe immediatamente spedito al Pmli come prova a discarico nel processo contro la giornalista di "Liberazione" ingiustamente accusata di "trotskismo") e della riedizione dell'intervento di Fausto Bertinotti al convegno di Livorno per l'ottantesimo anniversario della nascita del Pcd'I (discorso considerato nel partito come un fondamentale atto di ripulitura della rifondazione da ogni scoria stalinista).

 

La "missione impossibile" di Stalin secondo Rina Gagliardi…

Per la Gagliardi (Fuori dallo stalinismo. Per il comunismo) Stalin "ereditò, alla morte di Lenin, una sorta di "missione impossibile"" e (per questo?) cercò di uscirne impegnandosi in "un altro esperimento impossibile, la costruzione del socialismo "in un solo Paese"."

La Gagliardi, a differenza di Canfora, ha avuto notizia – almeno di seconda mano – delle posizioni di Trotsky, ma non pare averle assimilate molto meglio. Il "socialismo in un solo Paese" era effettivamente cosa impossibile – che rompeva con l'abc del marxismo, ancor prima che col leninismo – ma Stalin non si "impegnò" in questa "missione impossibile" per tutelare in qualche modo "l'eredità" di Lenin (che peraltro lo aveva "diseredato", come ricorda Moscato due pagine dopo). All'opposto, Stalin ideò una "teoria" – di cui lui stesso fino a qualche mese prima avrebbe riso – perché gli occorreva una copertura alla crescita della burocrazia. La tutela della casta burocratica di cui si era fatto interprete, la preservazione dei suoi privilegi materiali – e non una "missione impossibile" determinata dall'isolamento in Europa della rivoluzione – furono all'origine della rottura staliniana con i fondamenti del bolscevismo (e quindi con l'intero suo gruppo dirigente e con migliaia di suoi quadri, in Russia come nel resto del mondo). In altre parole: l'isolamento della rivoluzione russa (provocato dal tradimento della socialdemocrazia in Italia nel "biennio rosso" e in Germania – dove furono strangolati i consigli operai per sostenere un governo "di sinistra plurale") contribuì alla crescita della burocrazia (nel '21 erano già due milioni i funzionari dell'apparato statale); e la burocrazia ebbe bisogno di preservare l'isolamento della rivoluzione russa per continuare a crescere. Di qui il tradimento sistematico, nei decenni successivi, di ogni processo rivoluzionario.

 

… e la funzione storica reale della burocrazia stalinista

La rivoluzione in Occidente non era una cosa impossibile: furono le direzioni riformiste negli anni Dieci e Venti, quelle staliniste negli anni Trenta e nei decenni successivi, e quelle staliniste in transizione verso la socialdemocrazia (il Pci degli anni Quaranta) a rendere intangibile il dominio capitalistico, portando alla disfatta le pur generose lotte rivoluzionarie e di massa. E si trattò di "tradimento": non di una qualche deviazione teorica o di una necessità ineludibile perché "non era possibile fare diversamente in quel quadro". Stalinisti e socialdemocrazia (sia quella originata dalla II Internazionale che quella originata dal Komintern stalinizzato) boicottarono in ogni modo i processi rivoluzionari e minarono alle fondamenta l'indipendenza di classe del progetto comunista per soddisfare gli interessi antioperai di caste burocratiche che trovavano il loro alimento nello Stato di transizione o in quello borghese.

E' per questo motivo che la burocrazia reintrodusse nel movimento operaio quelle vecchie teorizzazioni del revisionismo socialdemocratico contro le quali erano stati scritti gli atti di nascita dei partiti comunisti nel Novecento. Ciò è vero in particolare dalla seconda metà degli anni Trenta, quando il "centrismo" stalinista avvia il suo corso di destra. Il VII congresso dell'Internazionale comunista ormai stalinizzata apre la strada, con la relazione di Dimitrov, alla stagione dei "fronti popolari", cioè inaugura la nuova linea secondo la quale è praticabile il sostegno o la partecipazione dei comunisti a governi borghesi (presentati come governi "popolari" e "di sinistra").

Ed è ancora per questo motivo che l'Internazionale comunista, nata con Lenin e Trotsky come strumento della rivoluzione mondiale, fu da Stalin prima asservita agli interessi della burocrazia di Mosca contro quelli della rivoluzione mondiale per poi essere infine sciolta: per impedire che nuove rivoluzioni in Occidente, favorendo il risveglio della classe operaia russa, venissero a turbare il sonno del riflusso in cui prosperava la burocrazia. Le rivoluzioni in Occidente, quindi, andavano evitare perché avrebbero potuto condurre all'innesco di quella rivoluzione politica che sola – secondo l'Opposizione di sinistra – poteva restituire il potere ai soviet ripulendo lo Stato, il partito e l'Internazionale dalla burocrazia conservatrice. Una rivoluzione politica che poteva evitare la parabola discendente che avrebbe condotto (lo prevedeva Trotsky già nel '38) un'ala della burocrazia a farsi agente della restaurazione capitalistica.

Per realizzare questo processo contro la rivoluzione fu necessario ricorrere ad ogni mezzo: espulsioni, censure, falsificazioni, processi, esecuzioni. E, sia detto di passata, non c'entra qui nulla la problematica "dei fini e dei mezzi" o la "rinuncia alle tutele democratiche" (intendendo con queste le garanzie dello Stato di diritto liberale): il punto è che qui – a differenza che con il "terrore rosso" di Lenin e Trotsky – il fine era controrivoluzionario.

 

La questione del potere e la rifondazione comunista

Il nucleo del ragionamento della Gagliardi è comunque nella parte finale del suo articolo. Per la direttrice di "Liberazione" lo stalinismo, in ultima analisi, è quella concezione della politica "che attribuisce al potere, alla sua conquista e al suo mantenimento un ruolo così privilegiato, da considerare "minore", rispetto all'orizzonte del comunismo, la dimensione della trasformazione sociale, culturale, interpersonale." Certo, riconosce la Gagliardi, "non tutti i cultori del primato del potere politico, ovviamente, sono stalinisti". Bontà sua: anche perché viceversa avrebbe dovuto dare dello stalinista pure al povero Marx che amava ripetere che "il movimento politico della classe operaia ha come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa." "Tuttavia" (un tuttavia non poteva mancare) conclude la Gagliardi "è proprio qui che si annida quella degenerazione." Qui; cioè nell'obiettivo del potere. Ergo: il comunismo rifondato deve rinunciare alla conquista del potere. Voilà, il problema è risolto con un giro di frase. Ma a quel punto – eliminato il marxiano fine ultimo – cosa rimane? Forse un po' di sottopotere in un "governo riformatore" con il centrosinistra?

Il tema del potere – o della sua rimozione, se si preferisce – è al centro anche del noto intervento a Livorno di Bertinotti. E' un tema che sta alla base delle tesi di maggioranza per il V congresso del Prc e regge la stessa posizione di maggioranza sulle ultime vicende cubane (Bertinotti al Comitato politico nazionale di aprile 2003 ha sostenuto appunto che la rifondazione comunista deve liberarsi della "vecchia idea" per cui il fine dei comunisti è conquistare e difendere il potere con ogni mezzo).

Nelle Tesi, nel discorso di Livorno (ripubblicato nell'inserto su Stalin), così come in tutta la sua più recente produzione saggistica Bertinotti ripete sempre che la "rottura rivoluzionaria" fu una specificità determinata dalle circostanze particolari in cui si determinò la rivoluzione russa, non un tratto caratteristico del comunismo: o comunque non del comunismo che ci si propone di rifondare. "(...) quello che noi oggi proponiamo s'inquadra in un contesto obiettivamente diverso, in una società non disperata per la quale non è necessaria né possibile una rottura violenta, cioè uno strappo insurrezionale (…) non vogliamo tentare di raggiungere il 'cielo' in un solo colpo e con qualunque mezzo, così come avvenne nei Paesi del socialismo reale, ma puntiamo all'idea di una trasformazione complessiva da conseguire a tappe, cioè con obiettivi parziali in crescendo." (1) E nel discorso di Livorno: "Oggi [a differenza che nel '17, ndr] chi ha l'onere di pensare il progetto rivoluzionario sottopone l'ipotesi di conquista del potere statuale ad un vaglio critico dal quale essa risulta né plausibile né attuale. E' la stessa natura del nuovo capitalismo che ci fa giungere a questa conclusione. Il processo rivoluzionario va pertanto pensato nei tempi lunghi, in una radicale ma lunga trasformazione, sicuramente non nei termini di una precipitazione."

Si tratta di una rifondazione: ahimè però solo delle vecchie posizioni su cui si edificò la socialdemocrazia riformista. Bernstein parlava di "trapasso senza rotture violente del moderno ordine sociale ad un ordine superiore". Queste teorie, declinate in decine di modi diversi e più o meno originali nel secolo che ci sta alle spalle, invariabilmente hanno coinciso con l'abbandono dell'opposizione di classe, con la partecipazione alla gestione delle politiche borghesi, con un sostegno, più o meno diretto, ai governi della classe avversaria. Insomma: hanno finito sempre con lo scartare dalle vie possibili quella che possa portare a un'alternativa anticapitalistica.

Lo stalinismo fu anche e soprattutto questo e costituì difatti il cavallo di Troia con cui la collaborazione di classe – espulsa dai nuovi partiti comunisti formatisi dopo l'Ottobre – rientrava nel movimento operaio: con gli esiti disastrosi che tutti conosciamo.

Nella sua rottura con lo stalinismo la maggioranza bertinottiana del gruppo dirigente del Prc, pur ripudiando le forme esteriori di quella terribile epoca del movimento operaio, ne recupera in definitiva la sostanza politica: recupera cioè la rinuncia a un progetto basato sull'autonomia e l'opposizione strategica della classe operaia alla borghesia e ai suoi governi, precondizione indispensabile di un futuro sbocco -per via rivoluzionaria- al governo proletario.

Come si vede, fare i conti con lo stalinismo è questione troppa seria per essere relegata a un dibattito tra storici (veri o alla Canfora). Ma fare i conti con lo stalinismo senza riacquisire il patrimonio fondamentale dell'analisi e della pratica militante dell'antistalinismo bolscevico degli anni Venti e Trenta è un'impresa che non porta lontano e costringe viceversa a un continuo e inutile periplo della critica liberale.

Di ben altro ha bisogno la rifondazione. Come e perché si affermò la degenerazione stalinista? Chi vi si oppose e come? In cosa consiste l'attualità odierna del programma degli oppositori bolscevichi allo stalinismo? Il lettore dell'inserto di "Liberazione" non avrà trovato una sola risposta a queste domande. Risposte che sono invece sviluppate nei libri e negli articoli di Lev Trotsky, di cui presentiamo nelle pagine seguenti un testo tra i più efficaci.

 

 

Note

 

(1) Cfr F. Bertinotti, Il nostro nuovo comunismo (ripartendo da Marx).