Marxismo rivoluzionario n. 1 – documento / mozione di progetto comunista (presentata nella direzione nazionale del prc del 28 aprile 2003)
Per
l’imperialismo in Iraq un successo incompleto e precario
di Marco Ferrando, Franco Grisolia, Matteo Malerba
La sconfitta dell’Irak nella guerra appena conclusa ha
rappresentato indubitabilmente un successo per l’imperialismo Usa e i suoi
alleati. Tuttavia tale successo rimane incompleto e la vittoria imperialista
– come evidenziato dagli avvenimenti in questi giorni – è lungi
dall’essersi stabilizzata.
La DN afferma la sua piena solidarietà con la lotta del popolo
irakeno per il ritiro immediato di tute le truppe imperialiste dalla regione.
Così come ritiene che nella guerra trascorsa fosse dovere delle forze del
movimento operaio porsi sul terreno della difesa dell’Irak. Ciò da un punto
di vista di classe e antimperialista autonomo, senza alcun sostegno politico
al regime di Saddam Hussein, di cui anzi andava appoggiata la prospettiva di
rovesciamento, ma da parte delle masse operaie e contadine irakene in piena
indipendenza dall’imperialismo.
La scelta del passaggio dalla guerra indiretta (le sanzioni Onu con
centinaia di migliaia di morti) alla guerra sul campo da parte
dell’amministrazione Bush, è stata determinata da vari fattori.
Centrale tra questi certamente la questione del “petrolio”, o
per meglio dire del confronto delle fonti energetiche al fine di determinarne
il più possibile strettamente il costo di produzione e di vendita nel mondo.
Ma accanto ad essa – necessariamente presa a punto di riferimento nel
movimento antibellico – vi sono altre motivazioni di fondo.
Vi è la volontà di ristabilizzare compiutamente il controllo del
Medio Oriente. Ciò sia in relazione agli altri riottosi regimi della regione
(Iran e Siria) sia rispetto alla fondamentale questione palestinese. Su tale
terreno infatti l’imperialismo Usa, utilizzando la vittoria militare, sta
cercando, dopo il fallimento anche a caUsa dell’intifada degli ingannevoli
“accordi di Oslo”, di trovare un nuovo e più lineare strumento per
rendere definitiva una soluzione neo-coloniale contro il popolo palestinese.
Altro elemento non secondario della guerra è stato anche di fronte
alla situazione economica degli Usa (e della Gran Bretagna) l’allettante
prospettiva della ricostruzione dell’Irak con i conseguenti profitti. Tale
questione è stata ed è apertamente elemento di dibattito interno alle varie
potenze imperialiste e non è un caso che si preparino a fare la parte del
leone, nella suddivisione degli appalti, le aziende che hanno sostenuto la
campagna elettorale di Bush e che sono direttamente legate all’attuale
gruppo dirigente dell’amministrazione di Washington.
Più in generale sul terreno economico questa guerra imperialista
(come quelle che la hanno preceduta) è stata finalizzata anche al necessario
sfogo per l’economia di guerra permanente che costituisce uno degli elementi
centrali del capitalismo imperialistico moderno. Infatti, senza lo sviluppo
senza precedenti delle spese militari (e le conseguenti successive ricadute
sul terreno “civile”) non sarebbe stato possibile lo sviluppo dell’epoca
del boom e, soprattutto, oggi le conseguenze dell’attuale crisi
economico-sociale capitalistica sarebbero più gravi. In questo senso “il
capitalismo porta in sé la guerra come le nubi il temporale” (per usare una
frase di Lenin) non solo come espressione delle sue contraddizioni
strutturali, ma anche come necessità economica più immediata, per creare le
opportunità di un nuovo sviluppo di queste forze di distruzione di massa.
Infine l’ideologia propria dell’amministrazione Bush, benché
elemento subordinato, deve essere considerato come uno degli aspetti che
determinano le sue linee decisionali. Nelle sue due componenti, quella
religiosa-integralista (con il suo “Dio lo vuole”) e quella laico-sionista
(con il suo “la Storia lo vuole”) l’amministrazione Bush esprime un
approccio fondamentalista imperialista che rappresenta un salto di qualità
rispetto al passato. Salto di qualità che sarebbe fuorviante inserire nello
schema del “fascismo”. Si tratta invece di individuare l’utilizzo da
parte di queste forze dell’immenso potenziale tecnologico-militare e anche
ideologico (qui con più difficoltà) centrato intorno ai tentativi di
imposizione globale delle forme più ristrette e controllate della pseudo
“democrazia” borghese sotto controllo dell’imperialismo dominante Usa e
in funzione delle sue concezioni dell’economia, dei rapporti sociali,
politici e civili. Quel “capitalismo compassionevole” basato sul liberismo
(accompagnato da un qualche keynesismo militare e di sostegno alle lobby
economiche amiche), in cui di “compassionevole” vi è solo l’utilizzo più
aperto della violenza statuale militare, degli assassinii di massa o
individuali, della tortura, delle privazioni dei diritti, della violazione
delle norme, in nome della difesa di una pretesa “civiltà” imperialista
in stile statunitense.
Tutte queste ragioni, maggiori o minori, della guerra devono essere
inquadrate nell’ambito di una più generale ragione di fondo, che sta alla
base del conflitto. Esso è lo stato contraddittorio di crisi del capitalismo
derivante dalla sua incapacità di ristabilizzare un “nuovo ordine
mondiale” dopo il venir meno nell’ultima fase del secolo scorso degli
essenziali equilibri su cui si era basato il lungo periodo post-bellico
(quello del “boom economico”, del “keynesismo” con lo sviluppo del
cosiddetto Welfare State, della decolonizzazione col il neocolonialismo, della
“guerra fredda” con l’Urss). In particolare accanto alla fine della fase
lunga dell’espansione post-bellica centrale è stato l’epocale fenomeno
del crollo dell’Urss e degli Stati ad esso legati, con il conseguente
caotico processo di reintroduzione del capitalismo. Il crollo dell’Urss ha
indubbiamente rappresentato una grave sconfitta per il proletariato mondiale,
perché al di là dei regimi totalitari burocratici che vi dominavano, paesi
che erano fuoriusciti dal capitalismo sono stati reinseriti in esso e le
conquiste sociali della rivoluzione sono state annullate. Tuttavia
contrariamente alle aspettative e alle illusioni dei capitalisti e dei loro
rappresentanti ideologici, tutto ciò non è servito a stabilizzare il quadro
economico-sociale internazionale, la cui instabilità si è anzi da allora
aggravata nonostante le indubbie sconfitte subite su vari terreni e su scala
globale dal proletariato, in particolare negli anni Ottanta e nella prima metà
degli anni Novanta. Da questo punto di vista le guerre degli ultimi dodici
anni, a cominciare dalla prima guerra del Golfo del ’91 (vera “guerra
costituente” dell’attuale fase storica) sono state espressione del
tentativo da parte dell’imperialismo, in primo luogo Usa, di stabilizzare la
realtà globale sotto il proprio dominio (appunto il “nuovo ordine
mondiale”). A tutt’oggi questo nuovo equilibrio non si è realizzato perché
in realtà è la natura propria delle contraddizioni strutturali del sistema
capitalistico e del suo modo di produzione che lo rendono impossibile; pur in
un alternarsi di momenti di rottura e di riequilibrio che vanno colti.
E’ in questo quadro che si approfondiscono anche le
contraddizioni interimperialistiche. La contrapposizione di Francia, Germania
e Russia alle scelte dell’amministrazione Bush esprime questa realtà di
contrasti materiali e strategici tra “briganti imperialisti” (con la
Russia che cerca faticosamente di trovare la via per uscire dal caos della
fase di reintroduzione del capitalismo verso uno sviluppo in tal senso). Nulla
quindi a che vedere con scelte “progressiste” o di “civiltà”.
In questo senso è chiaro che i comunisti rigettano ogni ipotesi di
“sostegno critico” alla nascente prospettiva di un imperialismo europeo
(propria di Chirac, Prodi, Schroder), capace domani di contrapporsi per i
propri interessi al dominante imperialismo Usa. Così come rifiutano di vedere
come punto di riferimento l’Onu, anche “riformata”. Le stesse
contraddizioni di questa struttura nei confronti della guerra contro l’Irak
non sono state che espressioni delle su ricordate contraddizioni
interimperialistiche. Mentre in tutto il passato decennio, come nelle sua
precedente storia, l’Onu si è rivelato uno strumento della peggiore
politica imperialista in particolare decretando e organizzando le sanzioni
economiche contro l’Irak che hanno provocato la morte per fame e malattie di
un milione e mezzo di persone.
La DN ritiene fondamentale che il movimento proletario, in Italia e
nel mondo, mantenga la sua più completa autonomia di proposta e di progetto
politico.
La lotta contro l’imperialismo e il suo “disordine mondiale”
impone la ricostruzione di una forza organizzata dell’avanguardia proletaria
ugualmente mondiale; una Internazionale marxista rivoluzionaria conseguente.
La DN del Prc si impegna in questa prospettiva perché tale
Internazionale è strumento essenziale per sviluppare l’unica alternativa
possibile alla realtà del capitalismo e alla sua crisi. Di fronte alla
“guerra infinita” è tanto più necessario indicare la prospettiva al
contempo difficile e necessaria della rivoluzione proletaria internazionale e
dello sviluppo di una società socialista su scala mondiale, che sola potrà
liberare l’umanità dalle guerre, dallo sfruttamento, dalla miseria e dalle
infinite altre oppressioni dell’inaccettabile sistema sociale capitalista.
Importante è stato il pronunciamento netto del nostro partito
contro la guerra così come l’impegno generoso di tanti compagni nel
movimento.
Ma la politica di blocco col centrosinistra sul terreno
dell’opposizione alla guerra, nella logica della sua “contaminazione” ha
fallito.
Ha fallito nei risultati annunciati a fronte della convergenza
conclusiva del centro liberale con Berlusconi a sostegno della spedizione
militare, in piena corrispondenza con la natura borghese del centro e la sua
politica estera imperialista.
Ma ha accompagnato anche la rinuncia, durante la guerra, ad una
battaglia politica nel movimento: sul terreno delle sue forme di
organizzazione, delle sue forme di lotta, della sua maturazione
anticapitalistica e antimperialistica.
Più che mai oggi il rilancio necessario del movimento implica una
battaglia aperta di indirizzo. E’ necessario innanzitutto sviluppare nel
movimento una battaglia politica aperta per liberarlo da ogni illusione sulla
diplomazia borghese internazionale, affermarvi un indirizzo
anti-capitalistico, legarlo alla classe operaia e all’egemonia delle sue
ragioni sociali e di classe.
Ma è necessario anche avanzare una precisa proposta di piattaforma
d’azione per la continuità del movimento sul terreno dell’opposizione al
colonialismo: a partire dal terreno dell’opposizione attiva al governo
Berlusconi e all’imperialismo italiano.
In questo senso si pongono alcune immediate necessità di proposta:
1) promuovere e organizzare sulle basi di massa più larghe il
boicottaggio attivo antimilitarista della spedizione italiana in Irak;
2) denunciare gli interessi italiani nel grande businness della
ricostruzione, nella spartizione petrolifera (Eni), nella produzione bellica,
avanzando su questo terreno la rivendicazione della nazionalizzazione senza
indennizzo di tutti gli interessi speculativi e guerrafondai;
3) contrastare nel modo più netto la prospettiva
dell’esercito europeo e del militarismo europeo entro una più generale
opposizione allo sviluppo dell’imperialismo europeo.
Questa linea di indirizzo e di proposta implica una lotta aperta
nel movimento per la sua piena autonomia dal centro liberale.
E questo a sua volta implica necessariamente una svolta politica di
linea del Prc circa i propri rapporti col centro liberale dell’Ulivo quali
si sono concretizzati con le commissioni paritetiche recentemente varate tra
Prc e centrosinistra. Commissioni che vanno immediatamente revocate e
azzerate.