Marxismo rivoluzionario n. 1 – primo piano / economia e guerra

I LIMITI DELLA SUPERPOTENZA AMERICANA

 

 

di Michele Nobile*

 

 

Per capire il fenomeno “guerra”

1. La guerra è un fenomeno sociale totale, multidimensionale, in cui “precipitano” tutti i campi della vita sociale. Lo è sempre e lo è specialmente la guerra moderna, almeno dal 1914: guerra totale perché basata sulla forza e la resistenza dell’apparato industriale, sull’industrializzazione della morte e dei suoi mezzi di produzione che sostituisce le abilità artigianali dell’armaiolo, del macellaio e del cacciatore. Guerra totale perché sempre la guerra moderna cancella la differenza tra i combattenti ed i civili inermi, tra la “carne da cannone” e chi i cannoni costruisce: e tanto più perfezionati sono la produzione di mezzi distruzione, e più sofisticato ed “intelligente” il loro impiego, tanto più quella distinzione cade. I bombardamenti a base di “bombe intelligenti” possono non uccidere le decine o centinaia di migliaia di esseri umani dei bombardamenti a tappeto della seconda guerra mondiale o della guerra del Vietnam. Ma possono comunque uccidere negando l’energia elettrica, l’acqua potabile, provocando direttamente ed indirettamente inquinamento, fame e pestilenza. La guerra moderna è totale perché non si fa solo con le bombe ma con il blocco economico: e così “solo” alcune centinaia o migliaia di civili iracheni si aggiungono ai trecentomila o cinquecentomila bambini morti prematuramente a causa di un embargo economico decennale. Fossero anche questi morti civili, bambini od adulti, la centesima parte di quella stima inferiore che nel 1998 ha indotto alle dimissioni Dennis Halliday, irlandese, UN Humanitarian Coordinator per l’Iraq e già Assistant Secretary General, e poi il suo successore Hans von Sponeck, è difficile sottrarsi all’idea che per la ragione ed il sentimento umano chi ha imposto l’embargo non sia colpevole di genocidio deliberato. Ci si aspetterebbe sanzioni e magari un “bombardamento umanitario” su Washington, Londra, forse Roma. Ci si aspetterebbe che i responsabili politici e militari vengano processati per crimini contro l’umanità. Ma tutto questo non ha senso, perché quelle “occidentali” sono per auto-definizione “democrazie” rispettose dei diritti dell’uomo e specialmente di quelli dei bambini. Ed i primi pensieri mattutini delle nostre ancor assonnate guide, che in inglese si traduce con leader, in tedesco con führer, e in latino con dux, sono la pace nel mondo e il lavoro per tutti in patria. Fino al caffé.

 

Guerra-economia: una relazione complessa

2. Ma quali sono le ragioni della guerra? C’è un rapporto tra guerra ed economia? Oggi si contrappongono due posizioni fondamentali. Le riassumo brevemente, in modo schematico.

La prima è quella dei paladini del neoliberismo. Questi si atteggiano ad eredi della tradizione illuminista. Per gli illuministi, e per Adam Smith, il “libero commercio” avrebbe portato alla riduzione dei privilegi parassitari, a tutto beneficio delle classi produttrici, agevolato la tolleranza e la comprensione degli uomini, aiutato l’umanità a liberarsi dalla superstizione e dal dispotismo ed a regolarsi in base alla ragione ed al sentimento naturale, ed infine instaurato la pace universale. Al suo tempo era una linea di pensiero critico dell’ordine esistente, che si nutriva delle promesse, ancora da verificare, della modernità capitalistica. Se ne misuri la distanza dalla tempra nei liberisti dei nostri giorni.

Si può anche dire che le relazioni contrattuali di mercato, con la loro fluidità, si oppongono al principio gerarchico in quanto si stabiliscono tra soggetti liberi ed eguali che egualmente beneficiano dei vantaggi della propria specializzazione e della divisione del lavoro, in questo caso internazionale. Al contrario, quando la statualità si spinge oltre i limiti posti dal mercato stesso o si libera dai vincoli economici, allora il principio gerarchico prevale. Così la burocrazia statale e i suoi favoriti possono arricchirsi a spese del popolo, e giungere a surrogare con la conquista militare l’incapacità economica. In questo caso si può arrivare a legittimare un intervento di polizia che punti a ristabilire l’ordine della libertà e i limiti della statualità. Pace, democrazia, “diritti umani” e libero mercato risultano infatti essere sinonimi. Guerra, oppressione, disumanità appartegono ad Altro: alle terre barbare dove i privilegiati del potere, arroccati nel totalitarismo statale e nel nazionalismo territoriale e potenzialmente etnocida, si arricchiscono con l’estorsione politica interna e possibilmente internazionale. Da questo punto di vista l’imperialismo non può essere che il retaggio di categorie sociali e di valori non-capitalistici e premoderni, o il prodotto di una ideologia totalitaria.

E’ per questo motivo che per decenni l’associazione di “imperialismo” e di “capitalismo” è stata una volgare bestemmia. Tanto più significativo è allora il fatto che negli anni Novanta si sia sviluppata una linea di pensiero, che proprio in questo momento sta celebrando una importante vittoria, che rivaluta esplicitamente il “fardello dell’uomo bianco”, ovvero l’imperialismo non economico come missione civilizzatrice, illuminato portatore di pace e libertà e, per questa via, del progresso sociale.

Per i nostri paladini sforzarsi di realizzare normativamente la globalizzazione dell’economia,   significa instaurare un ordine di pace e prosperità per tutti.

Per essere rigoroso il modello della globalizzazione presuppone come un dato di fatto o comunque come prospettiva normativa la concorrenza perfetta e la perfetta mobilità dei fattori di produzione, da cui consegue la progressiva convergenza delle diverse aree economiche, di cui beneficiano relativamente i più poveri: ed è per questo si obietta al movimento anti-liberista di essere in contraddizione con i propri nobili fini.

Il movimento contro il neoliberismo, con più sano realismo e buon senso, sostiene che la convergenza sia invece verso il basso e la generale “terzomondizzazione”, di cui soffrono maggiormente i più poveri. Esso denuncia l’aggravarsi della povertà assoluta, del crescente numero di esseri umani privati delle condizioni per soddisfare i bisogni più elementari, ed il crescere della povertà relativa, l’approfondirsi degli squilibri strutturali, i rischi di catastrofe insiti in un “modello di sviluppo” ecologicamente e socialmente insostenibile e di per sé generatore di conflitti distruttivi. E’ segno di sanità mentale opporre al falso universalismo ed all’ossimoro delle “guerre umanitarie”, degno del Grande Fratello orweliano, il carattere interessato, economico delle guerre, affermare che esse hanno come vero obiettivo non la libertà, la democrazia ed i “diritti umani”, sempre valutati con pesi diversi a seconda dei luoghi e delle circostanze, ma l’accaparramento delle risorse naturali e dei corridoi logistici, innanzitutto dei territori in cui giace o scorre l’“oro nero”, linfa vitale di un sistema sociale ambientalmente distruttivo e socialmente iniquo. Oppure che le guerre servono a dare una “lezione” a chi intenda conquistare una autentica libertà di scelta o ribellarsi allo sfruttamento; od ancora che, con le guerre e le spese militari si intenda sostenere il progetto di globalizzazione neoliberale in crisi. Infine, più sensato e realistico rispetto all’utopia neoliberale, è affermare che le recenti guerre, inclusa quella condotta contro l’Iraq, sia manifestazione dell’Impero globale, che si tratti di un Impero senza centro, o dell’Impero americano: cioè del dominio di una sorta di oligarchia transnazionale diffusa nella società globale o, al contrario, di una più ristretta cerchia di dominatori uniti sotto una specifica bandiera e serviti di volta in volta dai vassalli del momento.

 

Interpretazioni inadeguate

Questa schematica messa a confronto delle posizioni non ha solo lo scopo di rimarcare ciò per cui esse si oppongono. Chi scrive intende invece evidenziare due problemi politicamente strategici per il movimento di massa. Problemi inerenti alla “visione del mondo” che anima sui tempi più lunghi la pratica di lotta.

Il primo è che ampia parte del movimento condivide, pur rovesciandone il valore e l’interpretazione delle tendenze, il modello di base dell’avversario: che è appunto il più economicistico tra quelli possibili, l’applicazione planetaria, in realtà funzionale a legittimare ideologicamente ed a orientare politicamente più che a descrivere una realtà od a spiegarla scientificamente, del modello della concorrenza perfetta e della perfetta mobilità dei fattori di produzione.

Ciò implica però, anche per cause che qui non è il caso di approfondire, che si denuncino gli effetti del capitalismo più che il capitalismo stesso, una particolare politica più che il rapporto organico tra tale politica e la storia del sistema, che è storia di lotte di classe e di popoli contro l’imperialismo, che è cosa diversa dall’Impero. Se la lotta deve necessariamente passare attraverso gli effetti e la forma più specifica del sistema in un dato momento e spazio, esiste però anche il pericolo che l’esperienza concreta non venga approfondita, che l’elaborazione politica si blocchi, che si formi un divario tra le aspirazioni e le finalità ultime da una parte e gli obiettivi effettivamente perseguiti dall’altra. Che la “montagna” costituita da una grande movimento di massa partorisca, insomma, un “topolino” politico.

Inoltre la rivolta contro la rappresentazione economicistica del mondo fatta dal nemico ma in parte accettata si può rovesciare in una rappresentazione iper-politica dei rapporti sociali e dell’economia mondiale.

Ciò può avvenire, e questo è un secondo problema, assumendo che il compimento planetario di una forma quasi perfetta di capitalismo, appunto la globalizzazione, ne esaurisca nello stesso tempo la vitalità. Verranno quindi in primo piano gli aspetti finanziari, parassitari, predatori del sistema.

Il capitalismo è anche questo, ma non solo questo: non si comprenderebbe altrimenti come, per farla breve, dopo la più grande guerra conosciuta dall’umanità, nei paesi a capitalismo avanzato possa essersi verificata una golden age [età dell’oro, ndr], o come alcuni paesi periferici possano essere diventati esportatori di prodotti industriali. Ritengo sia estremamente pericoloso, ed anche che si perda la più forte delle armi ideali contro il capitalismo, sottovalutarne la capacità di riprodursi e di svilupparsi attraverso crisi distruttive. Che in definitiva possono essere, proprio nella forma della guerra nucleare o in quella più diluita della distruzione ambientale, cause endostoriche della fine reale, e non ideologica della storia umana: ma, appunto, questa possibilità deriva dalla sua suicida vitalità, non da un ciclo di tipo biologico o da una sorta di mutazione genetica.

Sono altrimenti facili, e percepibili, degli scivolamenti concettuali: dall’imperialismo alla globalizzazione, dal capitalismo al neoliberismo, dai rapporti di produzione come potere di classe al dominio militare di una casta oligarchica, dalle contraddizioni tra accumulazione di capitale e lavoro salariato a quella tra “ricchi” e “poveri” o oligarchia e “moltitudine”. Forse si può intendere meglio il successo non solo editoriale del libro di Negri e Hardt, non a caso apprezzato da alcuni fautori dell’“imperialismo benefico”. Un successo che si misura con il fatto che la nozione di Impero sta affiancando o sostituendo quella più neutra di “globalizzazione”. E per quanto l’uso “popolare” dell’idea di Impero possa contrastare con quello più specifico, in effetti ideologicamente postmoderno e politicamente moderato, di Negri e Hardt, che è un’apologia del costituzionalismo e della natura non imperialistica degli Stati Uniti, esso implica comunque uno slittamento della riflessione verso l’idea che la guerra sia conseguenza di un sistema sempre più “parassitario”, che deve appunto rimediare per via politica al declino della sua vitalità economica.

E siamo così al terzo problema, quello del preciso rapporto tra guerra ed economia mondiale. La guerra, dicevo all’inizio, è sempre un fatto totale e dalle tante dimensioni. E’ sempre un fatto complesso, da cui è sempre possibile isolare un aspetto e considerarlo la causa prima, la risposta. Ma più alta è la posta in gioco, più complessa la situazione, più ampie le implicazioni, più numerosi gli “attori” in gioco, meno soddisfacente sarà una singola risposta. Anche perché ogni guerra comporta dei rischi, degli imprevisti, degli effetti non intenzionali, conseguenti alle azioni contrapposte ed alla loro sinergia: è un calcolo delle probabilità, scriveva Clausewitz, in cui nulla è più sbagliato che assumere le grandezze in gioco come determinate anziché variabili, e considerarne solo quelle materiali dimenticando la compenetrazione tra la lotta e le forze e gli effetti di origine “morale”. La potenza dei computer impiegati per fini militari, ad esempio per simulare un’esplosione nucleare, è tale da poter con ogni probabilità risolvere “tecnicamente” i miliardi di equazioni necessari a pianificare gli scambi economici di un grande paese: ma come la vita sociale non è mai perfettamente calcolabile così più una guerrà è importante tante di più sono le variabili che oltrepassano il dato militare, materiale e “locale”, con influenze, conseguenze, reazioni, lezioni che si estendono al mondo. Al termine di una guerra importante il quadro d’insieme non è più lo stesso. La guerra moderna è totale anche per i suoi rischi ed imprevisti, e non c’è “intelligenza” umana od artificiale che possa contenerli. Una ragione in più per opporvisi, e per scavarne la complessità.

 

Guerra per il petrolio? Non solo e non principalmente

3. La guerra all’Iraq è stata certamente una guerra per il petrolio. Ma in che senso precisamente? Obiettivo degli Usa è forse distruggere il cartello dell’Opec per spingere al ribasso i prezzi del petrolio? E agirebbero così su “mandato” delle compagnie petrolifere? Non è questa amministrazione in particolare composta in gran parte da esponenti della filiera del petrolio?

E’ ragionevole. Ma, se si abbassano troppo i prezzi del petrolio, che fine fa l’industria petrolifera statunitense, grande finanziatrice di Bush, i cui costi di estrazione sono molto più alti di quelli dell’Arabia o dell’Iraq? Come pagheranno gli Stati Uniti i costi della guerra, del mantenimento dell’occupazione, della ricostruzione ed eventualmente del mantenimento della “pace sociale”, se i flussi di reddito del petrolio iracheno resteranno relativamente bassi? E non è anche vero che il controllo delle multinazionali del petrolio può effettuarsi perfettamente a valle piuttosto che a monte, dell’estrazione?

Può essere il controllo delle riserve di petrolio dell’Iraq un mondo per mantenere il dollaro come valuta delle quotazioni del petrolio, e una sorta di patrimonio a garanzia del ruolo centrale del dollaro nell’economia mondiale? Può essere anche questo. Ma qual’è il “giusto prezzo” del petrolio che può raccordare questo obiettivo al primo? E fino a che punto sarebbe efficace questa “mossa” senza risolvere in qualche modo il problema della sovraproduzione mondiale e dell’investimento?

La Cina, specialmente, e l’India, oltre che i paesi concorrenti a capitalismo avanzato, avranno sempre più bisogno di energia, del petrolio. Controllarne i “rubinetti” può evidentemente essere molto utile. Il controllo del petrolio, iracheno e non solo, e dei corridoi, può avere un obiettivo non di medio-breve ma di lungo periodo, strategico più che immediatamente economico. Mi sembra un’ottima ragione, che non esclude peraltro le precedenti, ed i loro problemi e contraddizioni. Ma può innescare la ricerca di fonti alternative, ad esempio nucleari. E come la mettiamo con l’effetto serra e il Protocollo di Kyoto, con le prospettive di un “capitalismo sostenibile”? Tra i primi atti unilaterali di Bush ci fu appunto il rigetto, oltre che del trattato Abm per poter continuare la militarizzazione dello spazio, del Protocollo di Kyoto. Questo può far piacere alla Cina, od all’India: ma contrasta con l’accaparramento statunitense. Oltre gettare a mare dieci anni di pubbliche relazioni per costruire l’immagine di un ipotetico “capitalismo verde”.

 

Potenza militare e potere del dollaro

La guerre di Bush “il piccolo” all’Afghanistan e all’Iraq, e tutta la campagna bellica contro il terrorismo, hanno portato al più alto livello di spese militari statunitensi in tempo di pace. E’ questo “keynesismo militare” un autonomo motivo per il rinnovato militarismo attivo? Certamente. Per il capitalismo statunitense il warfare-state ha una rilevanza strutturale e di lungo periodo di gran lunga maggiore che per qualsiasi altro paese a capitalismo avanzato. E’ un surrogato o un importante complemento del welfare-state. A conti fatti la “liberista” economia degli Stati Uniti è molto dipendente dallo stato, in specie dalle commesse del Pentagono. Il complesso militare-industriale non è un settore a parte ma gran parte dello spirito vitale tecnologico e la garanzia finanziaria dell’economia “civile”.

Il “keynesismo militare” statunitense è strettamente legato al ruolo di moneta chiave del sistema monetario internazionale del dollaro. E’ il signoraggio del dollaro che permette di pompare nell’economia nordamericana, e quindi mondiale, un tale imponente stimolo “keynesiano”. Ma non senza contraddizioni. Fino a che punto può crescere il debito pubblico statunitense, tanto più che all’enorme espansione della spesa militare si affiancano tagli alle tasse, per i ricchi? Il “monetarismo” dei primi anni di Reagan e la forte crescita dei tassi di interesse finanziò la spesa militare di quell’altro grande “keynesiano” drenando capitali dal resto del mondo e determinando la “crisi del debito estero”, dal Brasile alla Polonia, con ciò che ne conseguì. E’ possibile oggi qualcosa del genere senza far scoppiare le borse ed esporsi al rischio di una grave depressione? Il signoraggio del dollaro è una potentissima arma politico-economica. Eppure la crescita del deficit commerciale statunitense rese necessario nel 1985 uno dei più importanti accordi della storia recente, al Plaza Hotel di New York, per pilotare la discesa del dollaro rispetto allo yen ed al marco. Un “Plaza alla rovescia” ha avuto luogo nel 1995, questa volta nel tentativo di sollevare la boccheggiante economia del Giappone, già presunto candidato all’egemonia economica mondiale. Né seguì una spettacolare bolla speculativa.

Tutto ciò pone la questione dei rapporti tra dollaro ed euro, tra Stati Uniti ed Unione Europea, o meglio ancora tra essi e la Germania, e la Francia. Fin dove arrivano i comuni interessi alla cooperazione, e fin dove si può spingere la rivalità monetaria ed economica? Non è parte della strategia statunitense dividere i rivali, ed indebolire l’Unione Europea? Questo è sicuramente un effetto della guerra all’Iraq.

 

Egemonia planetaria

Infine, qual’è il nemico di una macchina da guerra che costa oltre 300 miliardi di dollari, e che arriverà a 500 in pochi anni, equivalenti a circa la metà della spesa militare mondiale, senza contare il lievitare dei prezzi dei prodotti bellici ad alta tecnologia ben oltre il tasso di inflazione medio? Difficile credere seriamente che il nemico possa essere l’Europa o il Giappone. L’idea di globalizzazione economica non può rendere conto della realtà del neo-mercantilismo, delle dispute commerciali e delle responsabilità delle grandi potenze economiche nel “fare il mercato”. Ma è vero che la concorrenza tra quelle grandi aree capitalistiche non può spingersi fino alla guerra. Il capitale non è “nomade”, ma neanche chiuso in fortezze. Ancor meno credibile è che l’armamentario fantascientifico serva a combattere il “terrorismo”. Una parte delle armi e dei soldi certamente servono e serviranno per guerre a media e bassa intensità (non per le vittime, ovviamente), per la controguerriglia e la controinsurrezione. In Venezuela è già stato tentato un golpe, in Colombia si finanziano le forze armate ed i gruppi paramilitari che praticano il terrorismo e si arricchiscono col narcotraffico. La presunta pax americana non c’è, come non c’è l’Impero. Al contrario, emergono crepe, persistono focolai, sono possibili eruzioni. Come politica egemonica in senso gramsciano il “neoliberismo”, anche combinato con misure “keynesiane” negli Stati Uniti ed in Giappone, sembra alquanto consunto, un po’ dappertutto. Forse sono proprio i “centro-sinistri” europei i più tenaci “neoliberali”. Rovesciare Saddam Hussein e combattere l’ex socio e “combattente per la libertà” Osama bin Laden costa, ma non a quel livello. E ciò vale anche per la Corea del Nord, o per la Siria, o la Libia, o Cuba. Allora, a chi sono destinati i missili? Quali sono i two overlapping major theater wars [i due maggiori teatri bellici simultanei, ndr] che richiedono tanta preparazione per la vittoria?

Non rimagono che due candidati: la Russia e la Cina.

Queste possono essere le molte, stratificate e connesse ragioni per la guerra all’Afghanistan ed all’Iraq. Manca però ancora un filo conduttore, una “contestualizzazione” più profonda delle decisioni operative, degli orientamenti strategici, dei tempi.

 

La fine dell’ordine mondiale della guerra fredda  

4. Dopo la caduta del socialismo di stato nell’Europa centrale ed orientale vennero meno due dei pilastri della politica internazionale del secondo dopoguerra sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite: il rispetto formale della sovranità nazionale e la legittimità della guerra solo come reazione difensiva ad un’aggressione. Quei due principi non erano solo conseguenza, rispettivamente, di una lunga tradizione di pensiero “westfaliana” e dell’insopportabile atrocità di due massacri mondiali. Derivavano anche dal diritto ad esistere dell’Unione Sovietica conquistato sui campi della guerra contro i nazi-fascisti e dal riconoscimento della sua potenza sancito dagli accordi di Yalta, che le assegnavano una propria sfera d’influenza. Neanche la guerra fredda poté cancellarli, formalmente, perché essi erano funzionali al persistere di una condizione particolare di non-guerra aperta e diretta e di non-pace dall’equilibrio rischioso e mobile. La fine dell’Unione Sovietica ha viceversa riaperto la possibilità di interventi armati non giustificabili come legittima difesa. La pre-emptive war [“guerra d’anticipo”, ndr] come attacco che anticipa quello di un avversario, e la preventive war [“guerra di prevenzione”, ndr] come attacco anche in assenza di minacce attuali, ma solo in vista di eventualità possibili, sono figlie degli “interventi umanitari”, loro logico sviluppo, in quanto scardinavano i principi giuridici e politici del sistema interstatuale successivo alla seconda guerra mondiale. Questi “interventi umanitari” sono stati funzionalmente analoghi all’invasione giapponese della Manciuria o all’aggressione italiana all’Etiopia che, fra le due guerre mondiali, aprirono le porte all’espansione nazista. L’avallo o meno dell’Onu, o meglio dell’oligarchia del Consiglio di sicurezza è, da questo punto di vista, politicamente irrilevante. Si tratta di un punto da aver ben chiaro nella valutazione del riscoperto “pacifismo” di partiti e governi “centro-sinistri” ed anche nel definire le basi di un pacifismo autentico e non opportunistico.

Se gli Usa si fossero limitati a “punire Kabul”, come 87 anni prima qualcuno pensava di limitare tutto a “punire Belgrado”, saremmo rimasti nel quadro degli “interventi umanitari”, o quasi tali. Ma la “guerra al terrorismo” si è, per così dire, qualificata ulteriormente con la guerra all’Iraq, e con la tardiva levata di scudi di Francia, Cina, Russia e Germania. E’ questa guerra, e non gli attentati dell’11 settembre in se stessi, a cambiare il quadro strategico, cosa avvertita da quegli stati che hanno un minimo di volontà e capacità di non subire passivamente l’iniziativa statunitense, non fosse altro che per poter contrattare in una posizione diversa da quella dei portatori d’acqua.

Qual’è la differenza tra gli “interventi umanitari” negli anni Novanta e il new deal strategico statunitense?

Recentemente Perry Anderson ha notato che la natura dei conflitti degli anni Novanta e la possibilità di utilizzare il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha “mascherato” per dieci anni la conflittualità politica tra gli alleati “occidentali” e la portata dello spostamento dell’equilibrio tra forza e consenso, a favore della prima, nell’esercizio dell’egemonia statunitense.

Si tratta di un fenomeno poco comprensibile sia nei termini della globalizzazione, per cui la statualità, è moribonda o è ridotta ad agenzia locale di comitati d’affari transnazionali, sia nei termini dell’Impero: in ogni caso emerge l’importanza della rivalità politica ed economica tra gli stati maggiori, quella che si sarebbe detta un tempo rivaltà inter-imperialistica (con la minuscola).

 

Crisi dell’egemonia liberista

Per comprendere questo fatto ed i tempi e la natura della svolta strategica statunitense occorre considerare come il mondo è cambiato nel corso dell’ultimo decennio, e come molti nodi sono venuti al pettine.

Innanzitutto, nei paesi imperialisti il riorientamento delle politiche economiche in senso “liberista”, essenzialmente nei confronti dei diritti e delle garazie dei lavoratori e dei cittadini in genere e come laissez-faire imposto asimmetricamente dai paesi economicamente dominanti a quelli dominati, non è stato in grado di imporsi egemonicamente. I rapporti di forza sfavorevoli ai salariati sono stati da questi subiti al prezzo di grandi sacrifici senza però dar luogo ad una fase in cui si possano intravvedere dei benefici sostanziali. I tassi di disoccupazione hanno ripreso a crescere e rimangono alti, nel 2003 grosso modo al livello del 1990; in Giappone nello stesso arco di tempo il tasso ufficiale di disoccupazione è raddoppiato.

Inoltre, nei paesi a capitalismo avanzato è cresciuto un movimento antiliberista o di opposizione alla globalizzazione dall’alto, alleato con altri movimenti sociali nei paesi neocoloniali o dipendenti. Le potenzialità del movimento sono enormi, tanto più se esso dovesse riuscire a catalizzare od a unirsi a una contro-offensiva del complesso dei lavoratori e a conquistare una piena autonomia programmatica da quella che passa per “sinistra di governo”. La mobilitazione mondiale contro la guerra all’Iraq segnala che forse è stato raggiunto un punto di non ritorno nel tentativo di costruire un consenso ai progetti liberisti.

 

... e nuova recessione dell’economia mondiale

Un altro elemento che ha contribuito a “mascherare” il potenziale di conflittualità “inter-ocidentale” è stata la particolare congiuntura economica ed il boom delle borse “occidentali”, a partire dal 1996, conseguente dal rovesciamento dell’accordo del Plaza Hotel di dieci anni prima.

Con lo sgonfiarsi della bolla speculativa e della illusione di una new economy sembra venir meno il volano di una particolare forma di sviluppo capitalistico, trainato dall’inegualitarismo dell’“effetto ricchezza” e dai consumi statunitensi e nello stesso tempo orientato a segmentare fortemente il mercato del lavoro attraverso la precarietà ed a “integrare” almeno una parte dei lavoratori non in quanto tali ma come risparmiatori, attraverso i fondi pensione privati.

E’ dunque venuta meno la possibilità di una certa virtuosa complementarietà nei rapporti interni alla Triade, unita nello smantellamento mondiale degli ostacoli alla libera circolazione dei capitali e delle merci, ovvero delle residue protezioni alle già malconce economie dei paesi già “in via di sviluppo”. Questo potrebbe significare l’inizio di un nuovo periodo di espansione, se non ai livelli della golden age [l’“età dell’oro” del boom postbellico, ndr], almeno con tassi di crescita medi più sostenuti.

Quel modello possibile oggi ha perso il suo dinamismo e la prospettiva di consolidarsi: ne rimangono le contraddizioni: la sovraproduzione su scala mondiale, le incertezze derivanti dalla liberalizzazione finanziaria e il livello della concorrenza, che deprime i prezzi fino al rischio di una spirale deflazionistica, e quindi le prospettive dei profitti e le decisioni di investimento (con il risultato di promuovere la “finanziarizzazione” anche delle società non finanziarie e di deprimere i salari), lo squilibrio strutturale della bilancia commerciale e dei pagamenti tra Stati Uniti e resto del mondo. La storia economica degli ultimi venti anni, ed in particolare dei Novanta, indica ad un tempo la centralità degli Stati Uniti nell’economia mondiale, il che tende a rafforzare la comunanza di interessi tra le diverse borghesie ed i governi, da una parte, e nello stesso tempo le tensioni derivanti da quello squilibrio, che pure è la ragione della centralità e del “potere strutturale” economico degli Stati Uniti. All’inizio del nuovo secolo la situazione appare bloccata.

L’Asia sud-orientale, a lungo il principale centro di crescita continua del capitalismo mondiale, con le sue “tigri” a lungo tanto vantate (del tutto a torto) come esempio delle virtù del liberismo e della globalizzazione, è in crisi. Le “tigri” continuano ad esportare ma gli “artigli” si sono alquanto spuntati e non possono più essere additate come “modello”, di cui anzi si scoprono le magagne, il nepotismo, l’autoritarismo, il croony capitalism e via inveendo. Di fatto le “tigri” che hanno resistito meglio sono quelle rimaste, prima e dopo il 1997, più fedeli alla linea statalista originaria: Taiwan, la Malesia. Quel che dovrebbe essere chiaro è che la crescita delle esportazioni industriali delle “tigri” e dei “tigrotti” del sud-est asiatico, potentemente stimolata dal warfare-state Usa con la guerra di Corea e poi del Vietnam, rompe con lo schematismo della tradizionale teoria della dipendenza ma non conforta neanche quella della convergenza dello sviluppo per stadi successivi: restano paesi capitalisticamente sottosviluppati, anelli intermedi nella lunga e variegata catena dell’imperialismo. Ciò che resta sono le imprese da “salvare” con l’acquisto estero, la compressione dei salari, e specialmente in “tigrotti” come l’Indonesia, uno dei giganti demografici strategicamente importanti, o nelle Filippine, la povertà, l’instabilità politica, guerriglie oggetto della “guerra al terrorismo”. E il loro contributo alla sovraproduzione mondiale, insieme all’impossibilità di seguirne la strada.

Anche un altro continente che negli anni Novanta sembrava mostrare i benefici derivanti dalla buona strada del rigore finanziario, dell’apertura al “capitale globale”, e dello smantellamento degli apparati nazional-populistici, l’America meridionale, è nuovamente alle corde. Degli stati più grandi solo il Cile sembra reggere. Argentina, Venezuela, Colombia, Messico, Perù, Bolivia e Brasile attestano, in varie forme e con diverse intensità, un unico fatto: il fallimento politico, oltre che economico, del neoliberismo.

La Russia ha iniziato (e completato?) una transizione alla rovescia dal socialismo di stato al capitalismo (di stato?). Certamente, a guardarlo da vicino, è un capitalismo con molti tratti sovietici. Il punto è che la Russia ha più bisogno dell’“occidente” di quanto l’“occidente” abbia bisogno della Russia. L’allargamento della Nato agli ex satelliti, che nei tempi e nelle modalità è stato impostato dagli Stati Uniti, costituisce anche un accerchiamento della Russia. In poche parole, la posizione della Russia non è né pare poter essere equiparabile a quella degli alleati “occidentali” della Nato. Si tratta di una formazione sociale “anomala”, che suscita diffidenza: il tracollo socio-economico nella transizione è stato terribile, ma col tempo la Russia ha il potenziale per costituire una minaccia molto seria. In effetti è un’incognita sociale, politica e geopolitica rispetto alla quale vengono tenute aperte tutte le porte: da quella della collaborazione politica con la Nato e nella “lotta al terrorismo” a quella dell’accerchiamento e del contenimento preventivi.

A maggior ragione ciò è vero per la Cina che ha tuttora una struttura sociale non-capitalistica, un’economia in forte crescita e un potere politico saldo. Come la Russia la Cina ha bisogno dell’“occidente”, e l’“occidente”, insieme alla diaspora cinese, ne ha fatto il maggior destinatario dei suoi investimenti diretti. L’oscillare del pendolo tra cooperazione economica e confronto politico-militare è però in questo caso anche più chiaro. Se la Cina riuscirà a mantenere tassi di crescita annui tra l’ 8% e il 10%, se riuscirà a conseguire l’obiettivo di avere un prodotto interno pari a quello degli Usa per il 2010, e se il potere della burocrazia riuscirà a reggere le enormi tensioni del “socialismo di mercato” con le sue decine di milioni di disoccupati, un reddito pro capite contadino stagnate o peggio e disastri ambientali incombenti, allora essa sarà veramente una potenza temibile in una ampia regione cruciale per il mondo.

 

Un detonatore per molti fattori

Infine, in questo quadro sempre più difficile, sia dal punto di vista congiunturale che delle prospettive di lungo periodo, si sono verificati gli attentati dell’11 settembre 2001.

Essi hanno fatto da detonatore scatenante di forze, piani, strumenti che si erano accumulati per un intero decennio.

Le guerre e gli interventi “umanitari” dei Novanta avevano una funzione stabilizzatrice nei confronti degli effetti del “1989”, ovvero della transizione al capitalismo di paesi già “socialisti”, e dell’offensiva “neoliberale”, ovvero dei paesi imperialisti, nel complesso dell’economia mondiale. Si     trattava di impedire l’emergere di un “piccolo imperialismo” in una regione vitale, nel caso della seconda guerra del Golfo Persico contro l’Iraq; di fronteggiare gli effetti della dissoluzione della transizione al capitalismo, come nelle guerre nella ex Jugoslavia; oppure della disgregazione della statualità come in Somalia.

In questi casi la guida del gioco è sempre stata in mano agli Stati Uniti, anche quando giocavano nella “casa europea”. Si trattava però di guerre in cui era possibile conciliare un “interesse generale” capitalistico con il rafforzamento delle posizioni di potere statunitensi.

Come recentemente notato da Perry Anderson la natura dei conflitti degli anni Novanta e la possibilità di utilizzare il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha per dieci anni “mascherato” la conflittualità politica tra gli alleati “occidentali” e la portata dello spostamento dell’equilibrio tra forza e consenso, a favore della prima, nell’esercizio dell’egemonia statunitense.

La guerra all’Iraq si caratterizza invece per il suo unilateralismo, od almeno per la determinazione ad agire comunque in un teatro determinante, con un seguito di meschini caporali, molti dei quali clandestini.

Questo sembra il risultato di molti fattori: della condizione, necessaria ma non sufficiente, dell’esaurirsi economico della fase “neoliberale” dell’imperialismo, che non significa certo, per ora ed in assenza di shock economici maggiori, abbandono delle politiche fin ora perseguite; del conseguente possibile aggravarsi della competizione economica e degli squilibri interni alla Triade; dello stabilizzarsi e delle prospettive di sviluppo, rispettivamente, della Russia e della Cina; delle lotte e delle situazioni critiche, di diverso tipo, aperte o che possono aprirsi contro il dominio imperialista, specie in Asia ed in America latina.

Gli attentati del settembre 2001 hanno aperto una “finestra di opportunità”, un momento critico del tipo “ora o mai più” per raggiungere obiettivi strategici destinati ad influire sul lungo periodo sia contro i nemici esistenti, sia futuri, sia sugli alleati. In effetti più che di garantire un’alleanza, a cui si deve in qualche modo rendere conto, per gli Usa si tratta di mettere insieme coalizioni variabili a seconda dei casi. Non è una linea che sulle questioni più importanti può proseguire all’infinito. Esistono dei limiti alla potenza americana: vedremo quando e come saranno raggiunti.

   

La nozione di imperialismo

5. Se si è seguito il ragionamento fin qui si sarà compresa l’inutilità della nozione di globalizzazione. Per essere usato coerentemente tale concetto richiede la convergenza tra le parti del mondo: ma non solo c’è un peggioramento relativo ovunque, aumentano anche le differenze e le ineguaglianze. Le funzioni della statualità dovrebbero ridursi essenzialmente a quelle dell’ordine: ma sono le funzioni e le istituzioni della statualità connessa alla industrializzazione per sostituzione delle importazioni, e quelle dei più poveri tra i paesi esportatori di prodotti agricoli e minerari, a ridursi o a scomparire, in quest’ultimo caso specie a causa o nel corso di guerre civili. Al contrario le funzioni economiche degli stati maggiori sono solo diversamente orientate, non ridotte alla mera esecuzione di un capitale “nomade”. Per quale ragione altrimenti circa metà degli investimenti diretti dall’estero nei “paesi in via di sviluppo” si dirigono verso uno stato forte come la Cina popolare? E’ perché circa l’80% degli investimenti diretti mondiali avvengono tra i paesi a capitalismo avanzato? Ed i movimenti di capitale a breve termine non dipendono anche dalle decisioni delle maggiori banche centrali, non guardano con ansia a ciò che farà la Federal Reserve? Sarebbe stata possibile la bolla speculativa della seconda metà degli anni Novanta senza una certa politica monetaria negli Stati Uniti?

Queste note schematiche indicano quanto il mondo sia cambiato dalla fine della golden age 1950-1973, ma anche la continuità attraverso il cambiamento.

Il capitalismo è emerso anche attraverso un processo mondiale, la conquista e la guerra, ed ha sempre avuto anche un carattere mondiale. Struttura, attori, istituzioni e politiche sono cambiati più di una volta. La forma di queste diverse configurazioni dell’economia mondiale capitalistica è sempre stata quella dello sviluppo ineguale e combinato, dell’interdipendenza economica dei singoli territori e degli stati, della loro combinazione in un processo complessivo che costituisce propriamente il livello mondiale del capitalismo. Che è qualcosa di diverso dalla sommatoria delle singole parti ma al quale non si possono ridurre queste ultime, facendone mere “appendici” o epifenomeni, componenti passive invece che attive e costituenti. Una funzione attiva certamente distribuita in modo ineguale, e strettamente legata anche alla statualità. Ed alla guerra. Perché questo processo di formazione di un sistema mondiale è instabile, soggetto a trasformazioni, a contraddizioni, alla lotta economica e politica tra gli stati, ed alla lotta delle classi e dei popoli per la liberazione sociale e nazionale. Per decenni il termine utilizzato, bestemmia per i difensori dell’ordine (come non lo sono quelli di globalizzazione o Impero) era imperialismo, scritto prosaicamente con la minuscola. Non si tratta di un caso né di questione di stile. Certamente quello di imperialismo non è, neanche nel dibattito marxista del XX secolo, un concetto univoco. E’ un campo aperto di riflessione, ed è giusto che sia così. Ma una sua peculiarità è il nesso strutturale tra le trasformazioni della statualità, la lotta tra classi e stati, e la dinamica del capitalismo. Perché l’imperialismo è il capitalismo come modo di produzione su scala planetaria, unità e distinzione di poteri economici e poteri politici, distinti ed inegualmente sviluppati per funzioni, aree e capacità, combinati nella cooperazione e nella lotta. E’ per questo che il significato sedimentato del termine è indigesto. Bisogna prima depurarlo del suo valore di critica del capitalismo, liberarlo di ciò che principalmente evoca: sfruttamento ed oppressione e guerra, e lotta radicale internazionale per la libertà sociale e nazionale, lotta di classi e di popoli contro la guerra imperialista.

Perché, infine, la forza ideale che è dietro il matrimonio indissolubile tra imperialismo, capitalismo e guerra è molto semplice: in nessun caso, per nessuna ragione ed in nessun modo sostenere la guerra di uno stato della borghesia. Perché una guerra del genere è sempre guerra d’aggressione, verso il popolo straniero, e verso il popolo della propria nazionalità.

 

 

* Michele Nobile è autore di Merce-natura ed ecosocialismo. Per una critica del “capitalismo reale”, Erre emme edizioni, Roma, 1993. Collabora regolarmente con la rivista “Giano. Pace ambiente problemi globali”, Roma.