Marxismo rivoluzionario n. 1 – primo piano / politica italiana

 

L’ULIVO FRA BLAIR E CHIRAC

Ma comunque per l’imperialismo (europeo)

 

 

di Marco Ferrando

 

Il centro liberale dell'Ulivo che gestì dal versante di governo la guerra alla Serbia e che votò, dal versante di opposizione, la guerra all'Afghanistan, si è differenziato – come abbiamo visto – sulla guerra all'Iraq.

Su questa scelta hanno certo influito diversi fattori, tra cui il rapporto con l'opinione pubblica e i relativi calcoli elettorali, le necessità di mediazione interna con le forze socialdemocratiche della coalizione, il peso della stessa mobilitazione pacifista. Peraltro qualsiasi forza borghese strategicamente impegnata a subordinare le masse al proprio disegno ha, perciò stesso, un problema tattico di rapporto col loro senso comune. E l'attuale debolezza del centro borghese ulivista nel suo rapporto irrisolto col cofferatismo rendeva impraticabile una scelta diversa.

Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che solo o prevalentemente questi fattori abbiano sospinto la dissociazione dei liberali dalla guerra. E' questa una rappresentazione interessata a enfatizzare mitologicamente" la forza del movimento", che sarebbe capace con la sua irresistibile fascinazione di convertire il bronzo in oro: ieri di convertire l'Ulivo alla "cultura delle pace" e... domani di "egemonizzare" il suo governo borghese. In realtà nessun movimento cambia segno e natura di una forza borghese. E nessuna forza borghese fonda le proprie scelte fondamentali sulle pressioni di un movimento.

Il centro liberale dell'Ulivo ha ancorato la propria scelta iniziale di dissociazione dalla guerra all'orientamento dell'imperialismo francese e tedesco, cioè all'orientamento delle locomotive costituenti del polo imperialistico europeo.

La grande borghesia italiana ha sospinto e gestito per dieci anni l'integrazione dell'Italia nella costruzione europea. I governi di centro – sinistra sono stati gli esecutori decisivi di questo mandato. L'attuale presidenza della Repubblica (Ciampi) è emersa alla politica nel segno di Maastricht. Le più alte rappresentanze del centro liberale italiano (Prodi) presiedono attualmente le istituzioni europee. Esponenti illustri del centro (Amato) sono impegnati istituzionalmente nella costruzione giuridica della nuova Europa. La larga maggioranza dell'establishment italiano – che è realtà ben più estesa della rappresentanza politica del centro sinistra – s'identifica nel disegno europeista.

La grande stampa borghese, nei suoi assetti maggioritari, si è fatta custode di questa scelta strategica. Il centro borghese liberale non poteva dunque ignorare, nella definizione del proprio posizionamento sulla guerra, la posizione ad un tempo dei propri alleati internazionali e del proprio blocco di riferimento interno.

Naturalmente ciò non significa affatto teorizzare una subordinazione del centro borghese italiano agli specifici interessi del blocco franco-tedesco. Ma piuttosto segnalare una sua convergenza con quest'ultimo su un punto essenziale: la necessità di riconquistare un quadro di concertazione della politica mondiale con gli Stati Uniti d'America; dissociandosi per questo da una linea unilateralista dell'amministrazione americana e lavorando alle condizioni di un polo imperialistico europeo capace di imporre agli Usa una cogestione politica degli affari internazionali.

 

Il fascino del blairismo sui liberali italiani

In questo quadro si è collocato il problema del rapporto dei liberali italiani con Blair e l'imperialismo inglese.

L'attrazione esercitata dal blairismo sul centro liberale italiano non è certo nuova e ha, a suo modo, una radice profonda. Il blairismo è in forma compiuta ciò che il centro liberale italiano vorrebbe essere e ancora non è: la forza dominante di un centrosinistra raccolto in un unico partito; una forza che tiene la relazione con i sindacati e le tendenze socialdemocratiche interne ma che si è svincolata da un rapporto di dipendenza e condizionamento da questi; una forza che guida dal versante di governo un forte paese imperialista a suo modo protagonista nella scena mondiale.

Il centro liberale ulivista (che pur ha costruito con la borghesia italiana rapporti più solidi ed estesi di quelli di Blair con la City) annovera ancora nel proprio cassetto tutti questi sogni dorati. E per di più se li disputa al proprio interno senza risparmio di colpi in una lotta selvaggia tra gruppi e sottogruppi trasversali sia alla Margherita che alla maggioranza DS. Non è forse questa condizione che alimenta il mito del blairismo tra i neofiti nostrani dell'intellighenzia liberal?

Tuttavia il blairismo non è semplicemente un modello astratto di mutazione genetica e quindi d'invidiabile trasformismo. E' anche, disgraziatamente una rappresentanza politica dell'imperialismo inglese e del suo orientamento strategico. E qui nascono i problemi per l'Ulivo.

L'orientamento Blair si muove su direttive precise:

a) privilegia nel modo più risoluto un fronte unico con l'imperialismo americano assumendolo come leva della propria forza negoziale nel rapporto con l'Unione Europea e nella gestione dei propri interessi indipendenti;

b) limita per questa via lo stesso spazio di manovra della UE e il suo potere di negoziazione verso gli Usa, a tutto vantaggio di questi ultimi;

c) cerca uno spazio di compatibilità tra questa politica e il proprio investimento nella UE attraverso l'unica forma possibile: facendosi intermediario ed agente di una convergenza tra Usa e UE fondata su una sorta di subordinazione concordata della UE all'egemonia strategica degli Usa, e di una rinuncia degli Usa ad un unilateralismo anti-europeo.

Questa ruolo complesso di Blair è, al tempo stesso, un problema ed un'opportunità per il centro liberale dell'Ulivo. E' un serissimo problema, come si è visto nella vicenda della guerra: sia perché quella politica è contraddittoria con la costruzione di un forte polo imperialistico europeo, sia perché offre una sponda preziosa al centro destra italiano e alla sua politica di fiancheggiamento stretto di Bush contro il centro dell'Ulivo (l'abbraccio di Berlusconi e Blair è stato, doppiamente interessato per il governo italiano). Al tempo stesso si configura come opportunità preziosa: perché offre al centro ulivista la possibilità di valorizzare le sue vecchie relazioni con Blair come canale di recupero di un rapporto con gli Usa e come moneta da spendere nella politica interna.

 

Tra Blair e Chirac le contraddizioni dell'Ulivo

Il rapido riallineamento del centro ulivista attorno alla spedizione italiana in Iraq a guerra conclusa, ha trovato qui dunque una prima ragione di fondo: impedire una saldatura Berlusconi-Blair "contro" l'Ulivo e parallelamente riattivare un riferimento internazionale vincente da lustrare agli occhi della borghesia italiana. Questa operazione ha tuttavia un aspetto contraddittorio. Da un lato cerca di appoggiarsi sul tentativo di Blair di recuperare un ruolo più autonomo dagli Usa ai fini della ricomposizione transatlantica. Dall'altro cerca di preservare il proprio rapporto privilegiato con l'asse franco-tedesco stabilito durante la guerra. E' questo un equilibrio vitale per l'entourage di Prodi in Europa tanto più alla vigilia della presidenza italiana (e berlusconiana) nel prossimo semestre europeo. Ma è anche un equilibrio difficile, a causa del forte contrasto franco-britannico. Infatti se è vero che sia l'imperialismo francese sia l'imperialismo inglese considerano inevitabile, nelle condizioni date, un quadro di collaborazione internazionale con gli Usa, è altrettanto vero che lo perseguono in termini diversissimi e, in un certo senso, da angolazioni opposte.

La Francia pensa necessaria la costruzione attiva di una potenza autonoma europea sotto la propria egemonia diplomatico-militare, capace di imporre il proprio peso negoziale internazionale. La Gran Bretagna ritiene invece che il recupero di una cogestione con gli Usa da parte della UE richieda esattamente una rassicurazione agli Usa circa la rinuncia alla potenza europea. Qual è allora l'opzione dell'Ulivo di fronte ad un divario tra i propri referenti internazionali?

Berlusconi opta interamente per la "linea inglese". Ed anzi la scavalca da buon parvenu nell'abbraccio diretto all'amministrazione americana e nella rivendicazione di un'Europa come puro mercato economico (da estendere per questo alla Russia). Il centro dell'Ulivo, pur nella ricerca di un equilibrio, mostra invece distinte propensioni interne. D'Alema e Amato sembrano voler rilanciare il proprio riferimento alla linea Blair: sia perché proprio la maggioranza DS eredita le relazioni con Blair e può dunque più di altri pensare di valorizzarle, sia perché nutre un malcelato scetticismo sulle ambizioni di Chirac e sugli spazi di manovra di una diplomazia parallela a guida francese. Rutelli sembra esprimere invece un più marcato sostegno alla linea franco-tedesca: convinto che le buone relazioni con Blair (che pure coltiva) non possano surrogare l'esigenza prioritaria di una forza autonoma europea e che l'interesse primario dell'imperialismo italiano sia quello di prendere parte attiva alla cabina di comando di quella forza (anche per non farsi emarginare da una egemonia franco-tedesca). Prodi, infine, alfiere da sempre di un imperialismo "unitario" dell'Europa, contrasta per questo, sia la politica inglese  sia anche l'interessata pretesa francese di un'Europa "intergovernativa" (vedi la critica del progetto Giscard per la convenzione UE).

Le contraddizioni dunque non mancano nel centro borghese dell'Ulivo. Ma nulla hanno a che vedere, in ogni caso, con le domande di "un altro mondo possibile". E tutte invece rivelano un'autentica ansia di protagonismo in questo mondo reale di lacrime e di sangue.

 

Il centro liberale per il militarismo europeo

Che questa sia la realtà lo dimostra più di ogni altro la rivendicazione costante dell'intero centro dell'Ulivo prima, durante e dopo la guerra: la rivendicazione dello sviluppo del militarismo europeo. Quanto più si è marcata la distinzione dall'unilateralismo americano, tanto più la suggestione di un'Europa capace di un proprio ruolo militare ha attraversato menti e cuori di larga parte dell' intellighenzia borghese liberale. Sino a conquistare l'intero cofferatismo (vedi Asor Rosa) e le sue propaggini più o meno subalterne(Pdci). Romano Prodi è stato assai chiaro già nei primi giorni di guerra: "L'Europa non può limitarsi a fare affari all'ombra delle politiche mondiali decise da altri. Deve conquistare voce in capitolo nelle scelte internazionali. E può farlo solo se conquista la propria unità e sviluppa la propria difesa militare". Ma soprattutto Francesco Rutelli e la Margherita hanno voluto segnalare il proprio ruolo d'avanguardia su questo terreno: prima hanno scavalcato i DS nel sostegno parlamentare alla missione militare in Afghanistan; poi hanno sostenuto pubblicamente l'iniziativa franco – tedesco – belga di una cooperazione militare rafforzata in Europa che sblocchi ogni incertezza e traini il militarismo europeo; poi ancora hanno formalizzato la proposta di allentare i vincoli del patto di stabilità espungendo le spese militari dal calcolo del deficit; infine hanno annunciato la proposta dell'espansione del bilancio militare italiano in occasione della prossima legge finanziaria.

La coerenza non manca al centro liberale italiano. E dovrebbe diradare la nebbia di tante illusioni. Altro che "Europa di pace" e "autonoma dagli Usa"! La verità è che quanto più l'Europa capitalistica vorrà conquistarsi uno spazio autonomo dagli Usa tanto più dovrà sviluppare il proprio militarismo. E non è un caso che proprio la Francia di Chirac e le tendenze più europeiste del vecchio continente sono schierate in prima fila nel chiedere spese militari, nuove tecnologie militari, sviluppo e concentrazione dell'industria militare europea.

La ragione è semplice. Con buona pace di tante teste pensanti della cosiddetta "sinistra d'alternativa" che avevano sentenziato il "nuovo" primato dell'economia globale sulla "vecchia" dimensione politica degli stati, proprio le vecchie politiche statali di potenza tornano al centro dello scenario mondiale. Non è la globalizzazione sovranazionale ma la forza terribile dello stato imperialista Usa ad avere mosso la guerra all'Iraq e a segnare la politica mondiale. Non è il primato economico europeo nell'Est Europa ad aver deciso la collocazione politica della Polonia durante la guerra, ma la superiorità "protettiva" dello Stato americano e quindi la sua capacità d'attrazione. Ed oggi è la ricostruzione dello stato in Iraq all'ombra delle armate d'occupazione anglo-americane ad essere la cornice di garanzia del saccheggio economico di quel paese e a segnare gli equilibri della sua spartizione.

La forza degli Stati è dunque più che mai un fattore attivo e decisivo della partita economica mondiale.

L'Europa ha certo costruito in questi anni una crescente presenza economica internazionale ed ha forgiato con l'Euro un importante arma di combattimento imperialistico. Non era scontato. Ma solo coniugando l'arma dell'euro con un nuovo potenziale di "distruzione di massa" l'Europa capitalista potrà accrescere realmente il proprio ruolo politico nel mondo, nella spartizione delle nuove zone d'influenza, nella sottomissione di popoli e di terre. E solo comprimendo ancora e pesantemente spese sociali e diritti di decine di milioni di lavoratori europei la UE potrà liberare risorse per sviluppare il proprio militarismo.

Sono le regole del gioco del capitalismo reale e dell'imperialismo. Il centro liberale dell'Ulivo le ha ben inscritte nel proprio codice di classe. Lo stesso via libera alle truppe di Berlusconi in Iraq non ci parla forse di questo?

 

Centro liberale e interessi imperialistici italiani

Ma il benestare del centro dell'Ulivo alla missione italiana in Iraq a guerra conclusa non poggia solo su ragioni strategiche internazionali, ma anche su più immediate ragioni materiali.

L'imperialismo italiano ha una presenza in Iraq di oltre 500 aziende. L'Italia è stata per l'Iraq il quarto partner commerciale nel mondo. Era inevitabile che la spartizione dell'Iraq rappresentasse un boccone appetibile per settori significativi del capitalismo italiano. L'Eni, tra le maggiori multinazionali italiane, ha sgomitato sin dall'inizio per una fetta di torta nella spartizione petrolifera irachena. Già a novembre il quotidiano della Confindustria, “Sole 24 ore” documentava dettagliatamente il lavoro di lobby dell'Eni sia verso il governo italiano sia direttamente verso le grandi compagnie americane per concordare preventivamente i propri spazi. Allo stesso modo, un'ampia fascia d'imprese italiane nel campo dell'impiantistica e dell'edilizia si è mosso con largo anticipo per entrare nel business annunciato della ricostruzione: con il coinvolgimento diretto o indiretto di interessi Fiat, Ansaldo, Telecom, tutte articolazioni di primo piano della classe dominante italiana (e ben vicine all'Ulivo).

Poteva allora il centro dell'Ulivo disimpegnarsi dalla rappresentanza di parte grande di quei poteri forti, abbandonandoli alla esclusiva tutela berlusconiana? Non poteva. E certo la migliore tutela di quegli interessi passa per il recupero di una diretta presenza militare dell'Italia in Iraq. Perché ancora una volta il peso negoziale nell'accaparramento delle commesse e nella conquista di nuove entrature locali si misura anche in base alla consistenza delle proprie truppe sul campo, alle loro disponibilità operative, ai loro mezzi militari. All'impegno, in una parola, del proprio stato nazionale imperialista. E un centro che si candida a rappresentanza generale dello Stato (e dei suoi affari) può forse lasciare il tricolore a Berlusconi e a... Previti?

 

Rompere con il centro

"La nuova politica deve puntare ad influenzare la vecchia politica, e può riuscirvi grazie alla spinta del movimento". Così Bertinotti, su "Liberazione", ha rivendicato durante la guerra, la ricerca di un rapporto unitario con l'Ulivo. E lo slancio è stato tale da spingere il Prc a realizzare mozioni comuni parlamentari con l'Ulivo, a criticare ogni dissociazione del movimento da manifestazioni uliviste, persino ad attaccare Progetto comunista con comunicati ufficiali di segreteria nazionale per una dichiarazione di "non gradimento" verso la presenza di Rutelli alle manifestazioni pacifiste (vedi “Liberazione” dell'11 febbraio).

Tutto legittimo. Salvo constatare in sede di bilancio che un centro dell'Ulivo legittimato come pacifista è finito tra le braccia di Berlusconi e della sua spedizione coloniale. E che un movimento pacifista, illuso dalle sue direzioni e privato di una coscienza antimperialista anche nel nome dell'"unità" col Centro, ha finito col disperdere il proprio potenziale di mobilitazione: e proprio di fronte agli effetti coloniali della guerra e nel momento della discesa in campo delle truppe imperialistiche italiane. Con grande vantaggio per Silvio Berlusconi e per il suo rilancio plebiscitario.

E' l'ennesima lezione: la "vecchia politica" della coalizione con i liberali, o della ricerca di quella coalizione, disarma i movimenti e favorisce la reazione. Solo una "nuova politica" di rottura con il liberalismo borghese, con il suo personale dirigente, con la sua classe sociale di riferimento sul piano interno, come sul piano internazionale, può riservare ai movimenti un futuro diverso. Che o è rivoluzionario o non è.