Marxismo rivoluzionario n. 1 – nel mondo / speciale argentina
IL
PARADOSSO DEL VOTO DI APRILE
L'esito
delle elezioni presidenziali segna un punto a favore dei disegni di
restaurazione. Ma la crisi del paese è ben lungi dall'essere superata
di Tiziano
Bagarolo
I risultati del
primo turno delle elezioni presidenziali dello scorso 27 aprile in Argentina,
per altro ampiamente attesi e annunciati dai sondaggi, hanno disegnano un
panorama politico in cui, a un primo sguardo, la rivolta del dicembre 2001 e il
terremoto economico, sociale, politico e istituzionale dell’ultimo anno e
mezzo sembrano non esserci mai stati. Si è registrata infatti un’altissima
partecipazione al voto (si è recato alle urne quasi il 78% del corpo
elettorale, solo il 2% al di sotto della percentuale registrata nelle precedenti
presidenziali del 1999); è crollato il cosiddetto voto bronca (il voto
di protesta), pur propagandato da una parte della sinistra e dei movimenti
popolari; il 90% dei suffragi è stato monopolizzato dai primi cinque candidati
tutti in vario modo espressione dei maggiori partiti borghesi; la sinistra è
stata ridotta agli usuali (per l’Argentina) minimi termini.
E’ giusto chiedersi quale rapporto ci
sia fra questo risultato elettorale e le convulsioni rivoluzionarie che il paese
ha attraversato negli ultimi due anni. La “rivoluzione argentina” è stata
solo un errore (anche nostro) di valutazione, o forse tutto è già stato metabolizzato
e il paese è sulla strada della restaurazione? Cosa ne è stato di quel “Que
se vayan todos” (che se ne vadano tutti) che per più di un anno e mezzo
è stato il minimo comun denominatore di tutte le mobilitazioni, che sembra ora
essersi rovesciato in un “Aqui se queden todos” (qui restano tutti)?
Qual’è stata, ed è oggi, l’effettiva incidenza nel paese profondo di quei
movimenti – i piqueteros, le assemblee popolari, le fabbriche occupate
– che hanno suscitato tanto interesse anche fuori dal l’Argentina e che
sembravano promettere un rinnovamento radicale, se non rivoluzionario? Quale
futuro attende l’Argentina? Le speranze che cresca un’alternativa
rivoluzionaria, tramontano o restano?
Per rispondere a tutte queste domande e
provare a sciogliere il paradosso argentino occorre non solo interrogare un
po’ più approfonditamente il responso elettorale del 27 aprile, ma anche
leggerlo alla luce degli avvenimenti dell’ultimo anno.
Una vittoria per la borghesia, ma con molte contraddizioni
Non c’è dubbio, ovviamente, che
l’esito della partita presidenziale rappresenti un successo della classe
dominante e in primo luogo di chi questa operazione elettorale ha concepito un
anno fa, riuscendo in fine a portarla in porto (anche se in termini diversi da
come l’aveva concepita), ossia il presidente “provvisorio” Eduardo Duhalde
e il settore della classe dominante che questi rappresenta.
Duhalde aveva annunciato le elezioni
presidenziali anticipate (per il marzo del 2003) ai primi di luglio di un anno
fa, subito dopo i fatti di Puente Pueyrredon, in un momento di gravissima impasse
della sua navigazione. Duhalde era diventato presidente il 1 gennaio del 2002
– dopo la rivolta del dicembre precedente che aveva bruciato in pochi giorni
cinque presidenti e lasciato un vuoto di potere riempito dai cacerolazos
e dai piqueteros – con l’obiettivo di traghettare il paese verso una
qualsiasi normalizzazione, in breve di salvare il regime e la continuità
del dominio borghese in Argentina. Un anno fa la sua impresa sembrava
compromessa: la ripresa economica, malgrado la brutale svalutazione del peso,
tardava; il Fondo monetario internazionale e il Tesoro americano sembravano
intenzionati a non muovere un dito per impedire il default
dell’Argentina; le divisioni nella classe dominante e nel Partido
Justicialista (peronista) continuavano più profonde che mai; era fallito il
tentativo di mettere un freno ai movimenti di massa con la stretta repressiva; i
sondaggi davano il gradimento di Duhalde attorno al 10%, mentre in testa alle
preferenze balzavano personalità estranee al ceto politico di regime come
l’esponente di sinistra Luis Zamora e la “progressista” Elisa Carriò.
La convocazione delle elezioni anticipate si proponeva di rilegittimare
istituzioni statali uscite a pezzi dalla rivolta del dicembre, sviare
l’attenzione popolare su un terreno più favorevole alla classe dominante,
favorire la ricomposizione della rappresentanza politica di quest’ultima,
possibilmente dietro allo stesso Duhalde, secondo le mire di quest’ultimo.
In verità non tutti gli elementi di
questo disegno si sono realizzati. La data delle elezioni è stata posticipata;
il presidente “provvisorio” ha dovuto rinunciare a candidarsi; il partito
peronista, lungi dal ricomporre la sua unità, si è presentato al voto in tre
tronconi contrapposti. Tuttavia almeno un pezzo, e non il meno importante, di
questa strategia sembra aver funzionato: le partita elettorale si è giocata
interamente fra candidati della classe dominante, il grande movimento sociale
che ha sconvolto l’Argentina l’anno scorso è stato messo in scacco, in un
modo o nell’altro si insedia un nuovo presidente legittimato dal voto
popolare. Tutto ciò rappresenta senza dubbio un primo passo, anche se non molto
di più di un primo passo, in direzione del superamento della crisi politica e
istituzionale che fino a poche settimane fa rendeva del tutto incerte le
prospettive del paese.
Un risultato tanto più importante e
significativo se, come sembra probabile, il presidente che uscirà dalle urne
del 18 maggio sarà quel Nestor Kirchner, governatore della provincia
meridionale di Santa Cruz, uomo di Duhalde, di cui ha già annunciato di voler
seguire le orme, anche cooptando nel nuovo governo alcuni ministri del governo
attuale, a cominciare da quello dell’economia, Lavagna.
Se questo è l’attivo non da poco che la
classe dominante ricava da questa partita, alcuni dettagli lasciano intravedere
che permangono dei problemi e degli ostacoli con cui dovrà scontrarsi qualsiasi
tentativo di normalizzazione.
A questo proposito il primo dato da
esaminare è la frammentazione del consenso e il vero e proprio tracollo dei
partiti tradizionali. Ciò che corrisponde sia alle profonde divisioni esistenti
nella classe dominate e nel ceto politico sia alla perdurante crisi di egemonia
del regime e dei suoi strumenti politici e istituzionali. Per la prima volta
nella storia argentina nessun candidato è eletto al primo turno e si deve
ricorrere al ballottaggio. Nessun candidato supera il 25% dei consensi e i primi
cinque candidati sono divisi da non più di 10 punti percentuali. Il Partido
Justicialista (peronista) in quanto tale neppure si è presentato al voto,
mentre il suo antagonista storico, l’Unione civica radicale, ha raccolto poco
più del 2% (aveva avuto quasi il 50 solo quattro anni fa). Il sistema politico
tradizionale esce dunque terremotato dal voto e non è chiaro se e come un nuovo
equilibrio possa costituirsi a breve-medio termine.
D’altra parte, la fisionomia e i
referenti sociali dei principali candidati borghesi confermano questo giudizio.
Carlos Menem, il principale avversario di
Duhalde nel partito peronista, ha vinto il primo turno con il 24% dei voti.
Eppure egli è – anche agli occhi della maggioranza degli argentini – il
primo responsabile del disastro in cui è precipitato il paese. E’ il
presidente che ha governato negli anni Novanta all’insegna del più sfrenato
liberismo, della corruzione impunita, della svendita del paese agli interessi
stranieri. Menem, che solo un anno fa era stato arrestato e che resta inquisito
per corruzione e complicità con il terrorismo islamico, rappresenta la
continuità dell’ipotesi neoliberista oggi rilanciata, in associazione a una
svolta repressiva, dal settore della classe dominante più legato all’imperialismo
nordamericano, il quale auspica un rapido accordo con il Fmi e l’adesione
all’Alca, l’accordo per un’area di libero scambio delle Americhe sostenuto
da Washington. Il programma liberista e autoritario di Menem non ha niente da
concedere alle masse popolari; eppure Menem è stato il più votato nelle
province dell’interno dove domina il clientelismo semimafioso dei notabili
peronisti (i cosiddetti punteros).
Un dato analogo, per altro, è visibile
anche nel risultato degli altri due candidati peronisti: Nestor Kirchner, il
candidato “duhaldista” sedicente “keynesiano”, e Adolfo Rodriguez Saa,
populista sedicente “antimperialista”, già presidente per una settimana
dopo la cacciata di De la Rua, quando ebbe il tempo di annunciare il non
pagamento del debito estero e … “un milione di posti di lavoro”.
Entrambi hanno avuto un plebiscito nelle province di cui sono governatori, a
conferma che la crisi di direzione del partito peronista non è ancora, o non è
automaticamente, una crisi della sua presa elettorale. Può inoltre contribuire
a spiegare questa tenuta (o questo recupero) un altro fatto: agli occhi delle
larghe masse la responsabilità diretta della catastrofe e dei provvedimenti più
antipopolari di due anni fa ricade sul governo dell’Alianza, la
coalizione fra i radicali di De la Rua e del Frepaso (forze oggi praticamente
scomparse dalla scena politica).
I pregi del “male minore”
Per altro verso, il voto a Kirchner, a
Rodriguez Saa e alla Carriò – ma in parte anche quello a Lopez Murphy, il
candidato della destra liberista e filomilitare –, va letto come un riflesso
deformato della crisi degli ultimi due anni e non può pertanto essere
interpretato come un voto di rinnovata fiducia al vecchio regime.
Nestor Kirchner, secondo piazzato al primo
turno col 22% dei voti ma probabile vincitore il 18 maggio, per quanto abbia
cercato di presentarsi come l’“uomo nuovo”, appare privo di un qualsiasi
carisma personale e il suo maggior pregio è consistito nell’apparire come il
“male minore” in confronto all’estremismo liberista e autoritario di Menem
o di Lopez Murphy. In effetti, Kirchner ha cercato di presentarsi come il
rappresentante della borghesia “produttiva”, che guarda alla costituzione
del Mercosur, alla concertazione con i sindacati e a un moderato riformismo a
la Lula, al rilancio del mercato interno e alla ripresa dell’industria
nazionale. Ma più che su un convinto consenso al suo programma (la cui realizzazione
è altamente problematica, vista l’accettazione del pagamento del debito
estero), è probabile che Kirchner abbia beneficiato di altri fattori quali: i
primi segnali di ripresa dell’economia, l’appoggio dell’apparato
duhaldista, una sorta di “effetto Le Pen”, ossia dello spauracchio di un
possibile ballottaggio da incubo fra Menem e Lopez Murphy, che negli ultimi
giorni ha spostato a suo favore molti voti. Che alla fine sia eletto presidente
dell’Argentina il “male minore” è, a suo modo, indicativo.
Elisa Carriò, già radicale ma da tempo
impegnata con un proprio partito indipendente nella battaglia anticorruzione, e
a Adolfo Rodriguez Saa, che ha cercato di rilanciare il peronismo “storico”
con accenti populisti e antiamericani ricevendo
il sostegno della Cgt di Moyano, sono i candidati che maggiormente hanno
beneficiato del voto di protesta e per il cambiamento (entrambi hanno ottenuto
il 14% circa dei voti). Ciò vale in particolare per la Carriò nei grandi
centri urbani (Buenos Aires, Rosario, Santa Fe…). Dove, per altro, si afferma
anche Lopez Murphy (in particolare nella Capitale federale) a cui sarebbe
andato, secondo analisi abbastanza attendibili, il voto di una parte di quei
settori di piccola e media borghesia arrabbiata che nel 1999 avevano votato per
De la Rua contro Menem e il peronismo, nell’ottobre del 2001 avevano
manifestato la loro delusione e la loro protesta verso De la Rua astenendosi
massicciamente e che nel dicembre successivo erano scesi in piazza al fianco dei
settori popolari e dei piqueteros per rovesciare il governo. Il 27
aprile invece avrebbero scelto Lopez Murphy, un po’ attratti dalla sua
retorica anticorruzione un po’ impauriti dal clima di insicurezza alimentato
dai grandi mass media che sempre più spesso nell’ultimo anno hanno teso a
fare un amalgama fra la criminalità comune, in aumento, e le manifestazioni del
conflitto sociale.
La sconfitta della sinistra
Se la partita elettorale si è giocata
esclusivamente fra i candidati borghesi naturalmente lo si deve, in una certa
misura, alle regole “truccate” con cui si è giocata la partita. Per un
verso, l’attenzione dei mass media si è concentrata quasi esclusivamente su
questi candidati, cancellando quasi del tutto tutti gli altri; per altro verso,
questa tendenza è stata rafforzata dalla natura della competizione e dal modo
in cui essa si è sviluppata. Poiché infine ciò che conta nell’elezione di
un presidente è chi vince, la pressione per il “voto utile” è sempre assai
forte e penalizza inevitabilmente i candidati che partono “fuori gioco”. In
questo caso, poi, la corsa si è quasi subito polarizzata fra il demonio Menem e
il più credibile degli anti-Menem, a scapito di tutti gli altri candidati.
Ma questa è, ovviamente, solo una parte
della spiegazione della sconfitta della sinistra, quella per così dire,
contingente. Essa non basta a spiegare, invece, perché la sinistra sia giunta
al voto già fuori gioco e perché i risultati finali dei suoi candidati più
attesi – Patricia Walsh per Izquierda Unida (alleanza fra partito comunista e
Mst) e il compagno Jorge Altamira per il Partido Obrero – siano stati così
modesti. La prima ha raccolto 336 mila voti, pari all’1,8% (aveva raccolto lo
0,9% nel 1999, mentre Izquierda Unida aveva avuto circa 515 mila voti
nell’ottobre del 2001). Il secondo ha ricevuto 143 mila preferenze pari allo
0,8% (aveva avuto lo 0,6% nel 1999, mentre il PO aveva raccolto 250 mila voti
nelle politiche dell’ottobre 2001).
Le ragioni di un tale esito sono diverse e
si collocano su diversi piani. Al fondo, c’è indubbiamente da registrare il
limite incontrato dalla grande mobilitazione sociale che si è espressa nell’Argentinazo
e nei primi mesi del 2002: il grosso della classe operaia argentina, per un
insieme di ragioni (l’indebolimento oggettivo del decennio precedente fra
licenziamenti, crisi e disoccupazione; il ruolo di contenimento giocato dalle
burocrazie sindacali che si sono prodigate a sostegno di Duhalde…), non è
scesa in campo come tale. Questa assenza, a un certo punto ha segnato un limite
oltre il quale le mobilitazioni radicali dei disoccupati, delle fabbriche
occupate e dei settori popolari non potevano da sole andare. Ciò ha reso meno
credibile la prospettiva di un altro Argentinazo, di una seconda spallata
rivoluzionaria in tempi brevi, e i settori di massa che aveva sperato in questa
possibilità hanno cominciato a cercare altrove quelle risposte che non si
aspettavano più da quel versante. Detto altrimenti: non avendo preso corpo
l’alternativa operaia, hanno perso di credibilità anche le forze di sinistra
che ad essa erano legate e hanno ripreso vigore agli occhi delle più larghe
masse altre proposte (illusorie) di soluzione della crisi. Dalla metà del 2002
in poi non sono mancate in Argentina le mobilitazioni, ma queste mobilitazioni
hanno coinvolto un settore di avanguardia che andava perdendo quel rapporto
stretto con le masse più ampie che aveva caratterizzato la prima fase della
rivolta. Hanno favorito questa evoluzione anche il cambiamento della situazione
economica, che ha cominciato a vedere alcuni miglioramenti, e alcune misure
assistenziali assunte dal governo, come il varo di una indennità di 150 pesos
mensili a favore dei capi famiglia disoccupati.
Sul terreno più strettamente politico, la
sinistra (parlando in generale) ci ha però messo del suo per perdere la fiducia
che pure, in una certa fase, aveva ricevuto in una misura che non aveva
precedenti. Il voto dell’ottobre del 2001 – nel quale tutte le forze di
sinistra che si erano presentate erano andate avanti – e i sondaggi della
primavera del 2002 – che davano Luis Zamora in un testa a testa con Elisa
Carriò attorno al 18-20% delle preferenze – dicevano che una parte crescente
del paese guardava a sinistra. Che cosa avrebbe dovuto o potuto fare, e che cosa
invece ha fatto, o non ha fatto, la sinistra argentina per cogliere questa
possibilità?
Si propongono qui dei ragionamenti
largamente ipotetici per i quali non c’è una controprova certa. Ma forse
aiutano ugualmente a capire come e perché le cose sono andate come sono andate.
E’ successo che quegli esponenti riformisti a cui si rivolgevano in prima
istanza le attese di cambiamento, si sono tirati indietro rinunciando al
tentativo di costruire una proposta politica ed elettorale alternativa a quelle
borghesi e disertando di fatto la partita. Ciò vale in modo particolare per
Luis Zamora, una delle figure più note della sinistra argentina, che già aveva
raccolto oltre il 10% a Buenos Aires nell’ottobre del 2001, che in questa
occasione, invece, dopo aver a lungo tentennato, ha rinunciato a presentarsi e,
prima ancora, a costruire una proposta politica alternativa. Attorno a lui
avrebbe forse potuto coagularsi uno schieramento composito di forze che poteva
aspirare ad essere un credibile polo alternativo ai vari Kirchner, Carriò,
Rodriguez Saa, almeno nel primo turno. E’ possibile, anzi probabile, che una
parte rilevante dell’elettorato potenziale di sinistra, non trovando questa
opzione nell’urna, invece di seguire Zamora nell’astensionismo, abbia
ripiegato sul voto a uno dei candidati borghesi di centrosinistra.
Il non voto e il voto bronca,
usciti così clamorosamente battuti il 27 aprile, sono stati per altro
ampiamente pubblicizzati a sinistra con varie motivazioni sia da diversi
partiti sia da numerose organizzazioni di base, piquetere e non. Per
alcuni, come il Pts, o altre organizzazioni trotskiste minori, si è trattato di
una indicazione classicamente estremista, presentata inizialmente addirittura
come boicottaggio del voto in nome del suo carattere di trappola, ma senza una
seria considerazione dei rapporti di forza reali e senza la minima attenzione
per i sentimenti delle larghe masse. Significativo un episodio che ha visto
protagonisti i compagni del Pts della Zanon, in occasione delle elezioni
amministrative di Neuquen ai primi di marzo. I compagni del Pts, che pure hanno
una grande influenza sul coordinamento che guida l’occupazione, si sono visti
bocciare dai lavoratori a larghissima maggioranza un ordine del giorno a favore
dell’astensionismo! Per altri, invece, come il Partito comunista
rivoluzionario maoista, che egemonizza la Corriente clasista y combattiva (Ccc),
il non voto è stata una mera scelta opportunista di facciata, dietro la quale i
voti sono stati fatti confluire su Rodriguez Saa.
Il bilancio del Partido Obrero
La rinuncia di Zamora e la diserzione di
una parte della sinistra militante hanno compromesso le possibilità elettorali
della sinistra. Ma affermare che, a certe condizioni, si dava la possibilità di
un successo elettorale (comunque relativo) di una opzione di sinistra non
significa pensare che questa sarebbe poi stata all’altezza delle responsabilità
che ne derivavano; e neppure che un tale eventuale successo avrebbe fatto fare
un salto di qualità reale alla costruzione di un vero partito operaio
rivoluzionario in Argentina. In questo senso, affermare che sarebbe stato
possibile e utile che si realizzasse un polo di sinistra, resta una
considerazione largamente virtuale. In realtà, non è detto che in una fase
come quella attuale ci debba necessariamente essere una stretta corrispondenza
fra la costruzione di un partito d’avanguardia marxista rivoluzionario e i
suoi risultati elettorali. In realtà capita spesso che le dinamiche che
interessano le larghe masse, i milioni, si muovano in direzione diversa di
quelle che interessano le avanguardie larghe, le migliaia e le centinaia di
migliaia. E non sempre è facile mettere in relazione queste due dinamiche.
Il Partido Obrero non aveva alla vigilia
della crisi argentina e non ha oggi un’accumulazione di forze e una massa
critica sufficienti per proporsi elettoralmente come alternativa immediata di
fronte ai maggiori partiti della borghesia. Anzi, neppure come l’asse della
ricomposizione della sinistra argentina. In questo senso ha presentato i propri
candidati innanzi tutto per “stare in campo” dentro alla partita delle
elezioni e per usarle per costruire la sua influenza e la sua organizzazione fra
le masse. In quest’ottica, i risultati ottenuti sembrano essere stati molto
positivi, nettamente superiori alla modestia del dato elettorale. Sono stati
coinvolti centinaia di nuovi
simpatizzanti, si sono aperte nuove sedi, quasi ovunque le manifestazioni
elettorali dei candidati del PO hanno visto una presenza comparabile e spesso
superiore a quella dei principali candidati della borghesia. In questo senso,
pur avendo aperto una riflessione e una discussione nelle sue file sul risultato
elettorale, il PO non fa un bilancio negativo della sua partecipazione
elettorale.
Quali prospettive
La politica reale del governo Duhalde
negli ultimi mesi, e non gli argomenti demagogici usati dai candidati borghesi
durante la campagna elettorale, mostrano la linea di tendenza per il dopo 18
maggio. E la tendenza è a cercare la prova di forza con le punte avanzate della
mobilitazione sociale. La mano dura delle forze repressive nello sgombero della
Brukman, proprio alla vigilia del voto, così come gli arresti negli stessi
giorni di alcuni dirigenti dei piqueteros di Salta, dicono che la
persistenza di queste forme radicali di mobilitazione sociale sono un pericolo
costante per i progetti di normalizzazione della classe dominante.
Spostato più verso la destra o più verso
il centrosinistra, l’equilibrio di governo che uscirà dalle elezioni
presidenziali resterà comunque precario, troppo precario in rapporto alla
difficile situazione che deve fronteggiare...
Al momento è difficile pronosticare il
futuro. La fase odierna, che si può forse interpretare come una “tregua”
concessa dalle larghe masse al ceto politico del vecchio regime per vedere che
cosa è in grado di fare, prelude a una rapida restaurazione o è solo un
momento di passaggio verso una nuova crisi?
Difficile
rispondere. Vale la pena di ricordare però che nuove scadenze elettorali, che
potrebbero dare responsi in parte o in tutto diversi da quelli del voto di
aprile, sono annunciate in Argentina per i prossimi mesi: a giugno il voto per
le province (fra le quali Buenos Aires); a fine anno le politiche. Solo allora,
forse, potrebbe apparire in che direzione si incammina l’Argentina.