Marxismo
rivoluzionario n. 1 – primo piano / guerra all’iraq e imperialismo
GUERRA
PER IL PROFITTO
Le
ragioni dell’aggressione americana all’Iraq
di Alberto Airoldi
Se c’è una cosa che non manca all’amministrazione Bush è la
schiettezza. "Guerra infinita" potrebbe essere un efficace slogan
inventato da qualche propagandista marxista. In effetti il legame tra
imperialismo e guerra è un legame necessario e, quindi, infinito finchè dura
l’imperialismo. Storicamente l’imperialismo, come il colonialismo, si
afferma come sistema di conquista, di dominio e di saccheggio, diretto o
indiretto, legittimato da un’ideologia basata sulla superiorità di alcune
civiltà su altre e su una presunta missione civilizzatrice. Non a caso alcuni
commentatori hanno rilevato le somiglianze tra l’attuale dottrina statunitense
e l’imperialismo dell’inizio del secolo scorso.
Tuttavia, se questo può spingerci a guardare con la dovuta ironia
alle acrobazie di chi fino a pochi mesi fa discettava sul superamento della
categoria classica di imperialismo, non ci esime certo dalla ricerca delle cause
specifiche di questa guerra, senza lasciarci trasportare dalle già citate
analogie formali.
Continuare a vivere alle spalle del mondo
Per cercare di comprendere le scelte dell’attuale amministrazione
statunitense bisogna fare alcuni passi indietro. Nel secondo dopoguerra
l’obiettivo strategico degli Usa è stato la distruzione dell’Urss. In
alcune fasi può essere certo stato utile esagerare il pericolo rappresentato
dall’Urss dal punto di vista militare e politico: l’anticomunismo funzionava
egregiamente da collante per il mondo capitalista, da giustificazione per ogni
crimine perpetrato contro i comunisti e contro i popoli oppressi, da
giustificazione permanente della supremazia Usa sui propri alleati. Tuttavia
l’Urss doveva essere prima o poi distrutta, perché sottraeva all’influenza
dell’imperialismo una parte consistente del pianeta e perché rappresentava,
suo malgrado e nonostante la dittatura burocratica, un punto di riferimento
alternativo. Questo obiettivo divenne impellente a partire dalla seconda metà
degli anni settanta, quando le sconfitte in Vietnam, in Iran e in Nicaragua
minacciavano di trasformare gli Usa in una potenza in declino. La distruzione e
la ricolonizzazione dell’Urss rappresentavano anche la nuova frontiera di un
capitalismo incapace di rilanciare stabilmente il processo di accumulazione dopo
la crisi dei primi anni settanta. L’obiettivo, come è noto, venne centrato
dalle amministrazioni repubblicane Reagan e Bush, le quali, tra l’altro,
ordirono la trappola afghana, sfruttarono abilmente la crisi polacca,
scatenarono una corsa agli armamenti di incredibili dimensioni e seppero fare
leva sulle contraddizioni apertesi all’interno dell’apparato burocratico
sovietico, in particolare ai tempi di Gorbaciov.
Il crollo dell’Urss non fu quel toccasana per l’economia
capitalistica che in molti sognavano. L’Urss e l’est europeo sono
sprofondati in una crisi economica di drammatiche proporzioni, alla quale sono
rapidamente seguite una crisi sociale, lo sgretolamento di diverse nazioni e
l’emergere di conflitti giustificati su base etnica, l’insediamento di un
capitalismo ibrido, dominato da settori dell’ex burocrazia e da settori di
borghesia mafiosa, spesso impossibilitati a smantellare l’ipertrofico apparato
statale che avevano ereditato. Quel che ne è conseguito è stata una corsa, da
parte dei principali paesi imperialisti, al saccheggio delle materie prime e dei
pochi mezzi di produzione che potevano essere privatizzati con buone prospettive
di profitto, qualcosa cioè di profondamente diverso dall’apertura di immensi
mercati e dalla formazione di uno stabile contesto per la valorizzazione dei
capitali.
Conseguito il proprio obiettivo strategico, senza peraltro ottenere
i benefici economici sperati, gli Usa dovevano arrestare la propria decadenza
economica e riaffermare la propria posizione predominante. In particolare alla
fine degli anni ottanta il Giappone stava sperimentando una forte crescita
economica, per quanto drogata da un’enorme bolla speculativa, e secondo molti
osservatori si candidava a giocare un ruolo sempre più concorrenziale rispetto
agli Usa.
Con la prima guerra del Golfo gli Usa, oltre a insediarsi
militarmente nelle zone in cui sono presenti le maggiori riserve mondiali di
petrolio, guidarono una coalizione di paesi ai quali, poi, fecero pagare gran
parte delle spese dell’intervento. Si trattava del primo atto costitutivo del
"nuovo ordine mondiale", con l’Urss ormai in agonia e le altre
potenze imperialistiche incapaci di proporre un progetto alternativo di dominio.
Anche nel 1991 gli Usa si trovavano ad affrontare una situazione di
crisi economica, allora di recessione (1) e, pertanto, molti osservatori
istituirono uno stretto legame tra la guerra e la necessità di rilancio
dell’economia attraverso la spesa pubblica militare e le commesse per la
ricostruzione del Kuwait. Gli anni che seguirono dimostrarono che l’apporto
del "keynesismo militare" al rilancio economico degli Usa fu
abbastanza limitato. Gli anni 1990-96 furono, dal punto di vista della
produzione, degli investimenti, della produttività e della crescita salariale,
peggiori del decennio 1979-90. I primi anni della presidenza Clinton furono
caratterizzati piuttosto da una politica di stampo monetarista (di certo più
coerentemente monetarista di quella di Reagan) e da una discesa pilotata del
dollaro rispetto allo yen e al marco. La politica monetaria imposta in quegli
anni dagli Usa al resto del mondo ha senza dubbio avuto un ruolo decisivo non
solo nel rilancio delle esportazioni, e quindi della produzione, statunitensi,
ma anche nello sprofondare il Giappone in una crisi che data ormai più di un
decennio e nello scatenare le crisi finanziarie in Messico (1994-95), nel
Sud-est asiatico (1997), in Brasile e Russia (1998), in Argentina (2001). A
partire dal 1997 gli Usa sono stati investiti da un enorme flusso di capitali in
cerca di un rifugio sicuro dopo gli anni dei tour nelle "economie
emergenti". Questa massa di capitali si riversò in generale sui titoli di
Wall Street, e in particolare su quelli della cosiddetta new economy,
creando quella che è stata definita la più colossale bolla speculativa della
storia e generando, cosa meno risaputa, un gigantesco "eccesso di capacità
produttiva". Quest’ultima è la formula con la quale gli economisti
borghesi chiamano la marxiana sovrapproduzione di capitali, e cioè un prodotto
necessario dell’accumulazione capitalistica. Le dimensioni di questa crisi di
sovrapproduzione sono, citando solo alcuni esempi: un tasso di utilizzo della
capacità produttiva del 73,5% (-3,5% rispetto alla recessione del 1990-91,
-7,4% rispetto al periodo 1967-2001), 15% di eccesso di capacità produttiva nel
settore dei semiconduttori (mentre a livello mondiale si sta sfruttando solo il
3% dei trentanove milioni di miglia di fibre ottiche installate), due milioni di
automobili prodotte in eccesso (venti milioni a livello mondiale), profitti e
investimenti ridotti al livello più basso dagli anni trenta. Dopo gli
spettacolari fallimenti di Enron e WorldCom, multinazionali che falsificavano
grossolanamente i loro bilanci, è venuto il fallimento della United Airlines e
della crisi di molte imprese simbolo, dalla Disney a Mc Donald’s
all’American Airlines. Se si uniscono questi elementi al record
nell’indebitamento estero e al colossale indebitamento interno, si inizia a
comprendere su quale baratro poggi l’attuale supremazia economica statunitense
(2). Il rischio di un ritiro massiccio dei capitali investiti a Wall Street,
dove, nonostante il mercato azionario americano sia caduto più del 50%
nell’ultimo triennio, vi sono ancora titoli fortemente sopravvalutati, di una
vendita del cospicuo patrimonio in titoli del Tesoro detenuti da altri paesi, il
rischio che alcuni paesi denominino in euro le loro esportazioni petrolifere
(con relativo ridimensionamento della possibilità di emettere moneta quasi
senza alcun vincolo), sono alcune delle minacce che incombono sul cuore
dell’imperialismo. In buona sostanza gli Usa stanno continuando a vivere ben
al di sopra delle proprie possibilità, godendo di un continuo flusso di
ricchezza, di un continuo sovvenzionamento dal resto del mondo che si potrebbe
ridurre drasticamente e repentinamente.
Il rapporto tra Usa e borghesie arabe
Quanto finora sostenuto sarebbe già sufficiente per ridimensionare
alcune teorie riduttive, incentrate sul mero controllo delle vie di
approvvigionamento delle fonti energetiche. Questo problema, per quanto
estremamente rilevante, deve essere inquadrato nel contesto di vulnerabilità
economica e potenziale declino statunitense, nonché nel quadro di una
ridefinizione dei rapporti tra Usa e borghesie dei paesi dominati. La crisi
mondiale ha ampiamente eroso in questi anni i margini che permettevano alle
borghesie nazionali dei paesi dominati di soddisfare le proprie esigenze facendo
nel contempo gli interessi dei paesi imperialisti. L’esempio più evidente di
questa crisi è offerto dall’America Latina, dove abbiamo assistito alla
caduta nella polvere di partiti e capi di stato tra i più osannati da destra o
dal centro sinistra (Fujimori, Cardoso, De la Rua), e dove già nel 1989 gli Usa
erano dovuti intervenire per rimuovere un loro ex fiduciario, diventato troppo
insubordinato: Noriega a Panama. Il caso delle petro-monarchie e petro-borghesie
arabe è solo parzialmente diverso. In questo caso non conta solo il
restringersi dei margini economici, ma anche l’enorme potenziale di ricchezza
di cui godono quei paesi, la natura estremamente dispotica e politicamente
arretrata della maggior parte di questi regimi, la costante umiliazione delle
masse arabe da parte degli Usa e di Israele. La politica parzialmente
indipendente di Saddam Hussein, o dei talebani col loro alleato Osama bin Laden,
era solo una parte del problema: analoghi rischi si corrono con l’Arabia
Saudita, che, secondo alcuni analisti, avrebbe un ruolo di spicco nell’11
settembre e sarebbe il principale obiettivo delle attenzioni statunitensi
nell’area (3). Quale che sia la portata della minaccia rappresentata da alcuni
settori della monarchia saudita, è abbastanza evidente che la presenza
statunitense mira a un nuovo assetto complessivo dell’area.
La cosiddetta guerra al terrorismo è quindi solo un piccolo
aspetto della questione, mistificante anche in quanto questo terrorismo non
viene ben definito. Si tratta fondamentalmente di settori delle borghesie arabe,
talvolta utilizzati in passato dalla Cia, che lottano in taluni casi per la loro
sopravvivenza e in altri per ricontrattare la loro partecipazione alla
spartizione imperialistica.
Prevenzione, non solo nei confronti degli "stati
canaglia"
Oltre alla necessità di aumentare il controllo sui principali
paesi dominati, gli Usa hanno la necessità di prevenire il consolidamento di
poli imperialistici concorrenti. E’ pertanto prioritario, per gli Usa, evitare
che l’UE si doti di un esercito comune, che possa consolidarsi come un reale
mercato comune e che l’euro possa essere utilizzato per sostituire il dollaro
negli interscambi mondiali.
L’unilateralismo è il modus operandi che si è voluta
dare l’attuale amministrazione statunitense per risolvere questo insieme di
problemi che sono evidenti da tempo. L’unico terreno sul quale gli Usa sono
oggi sicuri di poter fare prevalere un incontestabile predominio è quello
militare. In guerra le contraddizioni vengono esasperate e semplificate, alleati
e avversari vengono condotti a schierarsi. Nelle precedenti guerre le principali
potenze imperialistiche concorrenti preferirono schierarsi con gli Usa,
concedendo loro nuove posizioni di supremazia, ma partecipando anche ai proventi
delle rapine. Proprio per questo motivo molti commentatori e molte
organizzazioni politiche sono rimasti spiazzati dalla posizione assunta dalla
Francia e dalla Germania. Rifiutarsi di seguire gli Usa oggi significa
penalizzare alcuni settori della propria borghesia nazionale, ma significa anche
avere una coscienza dell’obiettiva divergenza degli interessi imperialistici.
Anche negli anni di maggiore allineamento agli Usa, l’UE si è
vista vittima di misure protezionistiche e frustrata nel proprio sforzo di
costruire un moderno esercito. Non si è trattato quindi tanto di seguire le
proprie opinioni pubbliche, quanto di decidere se puntare sulla costruzione di
un polo imperialistico autonomo o fare potenzialmente la fine del Giappone. Le
borghesie europee sono tutt’altro che compatte su questa scelta, non solo la
borghesia inglese per la sua storica collocazione, finanziariamente legata a
doppia mandata agli Usa, ma anche le altre borghesie, messe di fronte alla
scelta tra appalti e concessioni oggi e un grande polo imperialista forse
domani. Queste oscillazioni accompagneranno ancora a lungo la formazione
dell’UE, ancora lontana dal rappresentare un polo imperialista compatto.
L’unilateralismo Usa non deve essere, però, interpretato come
una visione semplicemente autosufficiente, ma piuttosto come la possibilità di
creare coalizioni ad hoc, "cogliendo la ciliegia", come dicono i
"geopolitici" (4). La politica statunitense ha oggi la forza di chi
assume l’iniziativa: crea contraddizioni, divide e sbaraglia gli altri fronti.
Dal punto di vista dei marxisti ha l’innegabile pregio di fare piazza pulita
di tanti orpelli ideologici: la fiducia nell’Onu, nella "comunità
internazionale", nel diritto internazionale, nell’opinione pubblica,
sbattendo in faccia a tutti la brutalità dell’imperialismo. Non esiste
Convenzione di Ginevra, immunità diplomatica o Croce Rossa che tengano: i
militari bombardano, saranno poi gli apparati ideologici a doverci mettere una
toppa.
"Colpisci e terrorizza" è un’altra delle efficaci
formule propagandistiche partorite dall’amministrazione Bush: un vero e
proprio manifesto di intenti. Già l’amministrazione Clinton aveva teorizzato
la necessità che gli Usa assumessero la propria missione nella difesa dei
valori della democrazia e della pace a livello mondiale. Oggi a gestire la
politica estera e militare degli Usa è un gruppo di personaggi di estrema
destra che avevano già da tempo costituito un gruppo denominato Project for
the New American Century (Pnac). Tutti espressione del complesso
militare-industriale-petrolifero, i vari Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld, Rice,
Perle, avevano individuato i punti cardine di quella che avrebbe dovuto essere
la nuova dottrina poltico-militare degli Usa. Il mantenimento della preminenza
Usa, "precludendo la nascita di una grande potenza rivale", fa parte
degli obiettivi. Gli Usa non vengono soltanto chiamati a essere in grado di
combattere simultaneamente su più teatri di conflitto, ma anche a sapere
utilizzare armi biologiche e nucleari tattiche. Le armi nucleari, infatti,
considerate in passato solo come armi strategiche, di dissuasione, possono, con
le ultime innovazioni tecnologiche, diventare delle importanti armi tattiche, a
cui ricorrere realmente nel corso di un conflitto. La missione "democratizzatrice"
degli Usa prevede quindi la protezione dei propri alleati (che così non saranno
indotti a sviluppare in proprio eserciti e arsenali), anche attraverso lo
"scudo spaziale", l’intervento per "stabilizzare" la
regione del Golfo, la "democratizzazione" della Cina (5). Un manifesto
imperialista così schietto da fare sbottare anche il professor Toni Negri,
deluso dal ritorno alla becera politica del secolo passato, deprecabile anche
per il fatto che fa del suo ultimo best seller carta per accendere il camino
(6).
L’ideologia che serve a giustificare questa missione è, tanto
per cambiare, l’integralismo cristiano, incoraggiato e sovvenzionato negli
ultimi quindici anni. Questo complesso di dottrine reazionarie è dilagante oggi
nelle due Americhe, declamato da tele predicatori e da organizzatissime sette
che si insediano capillarmente e portano, oltre al consueto "oppio dei
popoli", un po’ di speranza, di coesione sociale e di viveri nel
disfacimento latinoamericano. Oggi questa è anche la dottrina della Casa
Bianca, che riscopre la religione come copertura ideologica per le proprie
imprese belliche, con buona pace dei tanti teorici del postmodernismo.
Detto di passaggio, queste scelte non sono estranee all’attuale
collocazione del Vaticano, che non gode più delle preferenze statunitensi in
qualità di presidio privilegiato dell’anticomunismo. Non sono più gli anni
ruggenti della Polonia e del Nicaragua, il gigante cattolico appare affaticato
quanto il suo maggiore rappresentante, e quindi può essere messo in secondo
piano rispetto ad altri concorrenti più agguerriti. La vicenda dei preti
pedofili negli Usa rappresenta un forte segnale in questo senso: la chiesa
cattolica non gode più della protezione (e quindi dell’impunità) della quale
godeva in tempi non remoti.
Si rivede l’imperialismo, manca solo l’anti-imperialismo
Il Prc, i Disobbedienti e tutti gli altri soggetti politici
fortemente influenzati dalla teoria negriana hanno scientemente rinunciato a una
propaganda anti imperialista proprio mentre l’imperialismo si stava preparando
a tornare alla ribalta con tutta la sua virulenza. La sinistra si trova, tanto
per cambiare, allo sbaraglio, profondamente influenzata dal pacifismo etico dei
cattolici e, in certi settori, dalle teorie pro imperialismo europeo della
socialdemocrazia e della liberademocrazia europea. Chi è stato abituato a
contestare gli organismi sopranazionali in qualità di depositari della nuova
sovranità e degli interessi delle multinazionali oggi, vedendo gli eserciti, i
plenipotenziari e le bandiere tende a pensare che l’impero siano in realtà
gli Usa, negando così non solo la teoria negriana, ma anche quella Leniniana, e
condannandosi a non comprendere i prossimi nuovi pericoli. L’Onu e la Nato,
rispetto a come li abbiamo conosciuti, sono ormai dei cadaveri, il Wto potrebbe
diventarlo presto. Quel che ci attende, verosimilmente, è una nuova fase di
offensiva statunitense per ridisegnare gli equilibri ancor più a suo favore e
scaricare sul resto del mondo i costi della crisi, o un esacerbarsi dei
contrasti interimperialistici, con le prevedibili conseguenze sul commercio
mondiale e sulle istituzioni internazionali. Dobbiamo comprendere una volta per
tutte la lezione di Lenin e di Trotsky sull’imperialismo e non farci illusioni
sul possibile ruolo progressivo di questa o quella frazione della borghesia
mondiale, o su eventuali ricadute antifeudali o democratizzatici delle guerre
imperialiste (7).
E’ necessario sottolineare, a questo proposito, come tali
illusioni, nell’attuale conflitto, siano state molto meno presenti che nel
corso delle recenti guerre in Kosovo e in Afghanistan. Il movimento contro la
guerra ha rigettato queste suggestioni, presenti invece nel centro liberale
(maggioranza ds, Margherita), e , pur non arrivando a sostenere il paese
aggredito e la necessità della sconfitta degli aggressori, è stato meno che in
passato vittima del ricatto "o con gli Usa o amici di Saddam". Anche
la consapevolezza diffusa dei reali motivi della guerra è stata superiore che
in passato: il terreno è fertile per cercare di trasformare un generico
movimento pacifista in un movimento antimperialista.
Grandi e piccole spartizioni
Come prevedibile questo dopoguerra ha al centro la spartizione
delle proprietà e delle ricchezze. Gli Usa si sono assicurati il monopolio del
business della ricostruzione, del valore stimato di cento miliardi di dollari.
Agli Usa il privilegio di distribuire i subappalti, secondo criteri di fedeltà
politica e di opportunità (8). I peshmerga kurdi, nel loro piccolo, guidano
l’espropriazione dei sunniti dalle loro case, che a suo tempo furono dei kurdi.
Un paese "liberato" dall’autorità statale fino a poco prima vigente
è un paese dove si ridefiniscono gli assetti delle proprietà, dove gruppi,
frazioni, spesso organizzati su base etnica e/o religiosa, lottano per
conquistare una posizione di privilegio. Sapendo che li attende un futuro sotto
il tallone di ferro dell’imperialismo, con la presenza diretta degli
occupanti, alcuni settori potrebbero orientarsi in senso decisamente anti
imperialista e altri mirare a una contrattazione con l’imperialismo da una
posizione di maggiore forza rispetto all’attuale stato di prostrazione. Spesso
a questo quadro si aggiungono una serie di imprevisti, come la tendenza che
hanno i conflitti, una volta iniziati, a estendersi, a complicarsi, a richiedere
più risorse di quanto non fosse stato previsto.
Una domanda legittima è, indubbiamente: "Potrà questa guerra
rilanciare l’economia statunitense, e, anche se in posizione subordinata, il
resto dell’economia mondiale, almeno nel futuro prossimo?". Una
trattazione esaustiva di questo punto richiederebbe un articolo ad hoc,
ma un abbozzo di risposta pare comunque utile. In termini marxisti il rapporto
tra guerra ed economia è individuato nel fatto che un conflitto generalizzato,
che coinvolge i principali concorrenti imperialisti, porta alla distruzione di
ingenti quantità di capitale e alla svalorizzazione di parte di quello che
resta. L’accumulazione di capitale può pertanto ricominciare a tassi di
profitto finalmente crescenti. La devastazione di un paese come l’Iraq e la
sua successiva ricostruzione creano diversi problemi. Si dice che le spese di
guerra saranno prevalentemente pagate, questa volta, dallo stesso Iraq col suo
petrolio (9). Questo non significa che le imprese del consorzio imperialista
potranno presentarsi tranquillamente a ricostruire ponti, fabbriche e palazzi
riscuotendo il compenso in petrodollari. D’altronde se le cose fossero così
facili non si comprenderebbe perché la ricostruzione della Confederazione
jugoslava non sia quasi iniziata, il promesso piano Marshall per il Nicaragua
post sandinista non si sia mai visto, gli investimenti nella Russia post
sovietica languano. Anche pensando che il dirottamento della rendita petrolifera
nelle tasche del consorzio "per la ricostruzione" possa agevolare
molto le cose, è difficile credere che la locomotiva di un capitalismo afflitto
dai suoi consueti malanni, in termini per molti versi simili agli anni trenta,
possa essere rappresentata dalla ricostruzione di un paese come l’Iraq. Mi
pare che questa idea, che pure circola insistentemente, sia impregnata di
suggestioni keynesiane. Se le politiche keynesiane potessero rilanciare il
capitalismo in crisi l’ultimo decennio keynesiano in Giappone e l’ultimo
pacchetto di spese pubbliche (civili e militari) post 11 settembre avrebbero
dato ben altri risultati. Del resto se il prezzo da pagare per rilanciare il
capitalismo nei momenti di crisi fosse semplicemente radere al suolo un paese,
avremmo da tempo assistito al cinico giochetto della distruzione e ricostruzione
degli "stati canaglia".
In conclusione
Se la guerra appena conclusa dovesse passare alla storia come la
"guerra del petrolio", la definizione sarebbe decisamente limitativa,
come lo è, per esempio, quella di "guerra dell’oppio". Negli anni
quaranta del XIX secolo l’Inghilterra e gli Usa miravano all’apertura del
mercato cinese, e quindi all’apertura dei porti e alla soppressione dei dazi.
Senza dubbio il controllo del petrolio ha oggi una valenza infinitamente
maggiore del commercio dell’oppio ieri, ma non è l’unico motore della
guerra. Il titolo di questo articolo: "guerra per il profitto"
dovrebbe rappresentare un’ovvietà, ma purtroppo non è così. L’idea che il
motivo di fondo per cui il capitalismo entra in crisi e deve ricorrere a delle
guerre sia il declino del saggio di profitto è incomprensibile per larghissima
parte della sinistra. Vale la pena quindi di ricordarlo con forza, avendo però
chiaro che, assodato questo fatto, non si è che all’inizio della spiegazione.
La tesi sostenuta è che l’aggravarsi della crisi di
sovrapproduzione mette a repentaglio, oggi ancor più che dieci anni fa, il
predominio statunitense. Questa affermazione pare ancora più azzardata, ma è
confortata da una mole consistente di dati raccapriccianti sullo stato
dell’economia statunitense. Se si leggono questi dati in una prospettiva che
vede il rafforzamento e l’estensione dell’area dell’euro, il possibile
consolidamento del polo imperialista europeo, la crescita della Cina, il
deflusso di una quota consistente di capitali da Wall Street, appare un po’ più
chiara l’esigenza statunitense di puntare sulla propria schiacciante
supremazia militare. Tutti questi elementi, in particolare quelli legati al
rafforzamento dell’euro e alla fine del signoraggio del dollaro, sono presenti
nel dibattito sulle cause della guerra, ma vengono solitamente presi
unilateralmente e spacciati come la causa prima o principale. Gli Usa oggi si
confrontano con l’imperativo di scongiurare una forte crisi, che, tra
l’altro, coinvolge anche il loro rapporto con le borghesie dei paesi dominati.
La regione che strategicamente permette di insediarsi tra Europpa, Cina e
Russia, controllando la risorsa energetica fondamentale, è per l’appunto il
Medio Oriente. Il protettorato sull’Iraq e l’Afghanistan, le divisioni e le
basi militari in Arabia Saudita, Kuwait e Quatar, non sono che l’inizio di un
riassetto complessivo della regione, i cui tempi e le cui modalità sono di
difficile previsione, anche a causa delle divisioni presenti all’interno
dell’amministrazione statunitense. Quello che è certo è che i vincitori
della guerra, i nuovi governatori del Medio Oriente, avranno molte più
possibilità di continuare a imporre alle altre potenze imperialiste le loro
politiche monetarie, il loro commercio "unilateralmente libero", il
signoraggio del dollaro, e tutto quanto serve per continuare a vivere felici e
indebitati alle spalle del mondo, fino alla prossima guerra.