Marxismo rivoluzionario n. 1 – primo piano / guerra all’iraq e imperialismo 

GUERRA PER IL PROFITTO

 Le ragioni dell’aggressione americana all’Iraq

 

 

di Alberto Airoldi

 

 

Se c’è una cosa che non manca all’amministrazione Bush è la schiettezza. "Guerra infinita" potrebbe essere un efficace slogan inventato da qualche propagandista marxista. In effetti il legame tra imperialismo e guerra è un legame necessario e, quindi, infinito finchè dura l’imperialismo. Storicamente l’imperialismo, come il colonialismo, si afferma come sistema di conquista, di dominio e di saccheggio, diretto o indiretto, legittimato da un’ideologia basata sulla superiorità di alcune civiltà su altre e su una presunta missione civilizzatrice. Non a caso alcuni commentatori hanno rilevato le somiglianze tra l’attuale dottrina statunitense e l’imperialismo dell’inizio del secolo scorso.

Tuttavia, se questo può spingerci a guardare con la dovuta ironia alle acrobazie di chi fino a pochi mesi fa discettava sul superamento della categoria classica di imperialismo, non ci esime certo dalla ricerca delle cause specifiche di questa guerra, senza lasciarci trasportare dalle già citate analogie formali.

 

Continuare a vivere alle spalle del mondo

Per cercare di comprendere le scelte dell’attuale amministrazione statunitense bisogna fare alcuni passi indietro. Nel secondo dopoguerra l’obiettivo strategico degli Usa è stato la distruzione dell’Urss. In alcune fasi può essere certo stato utile esagerare il pericolo rappresentato dall’Urss dal punto di vista militare e politico: l’anticomunismo funzionava egregiamente da collante per il mondo capitalista, da giustificazione per ogni crimine perpetrato contro i comunisti e contro i popoli oppressi, da giustificazione permanente della supremazia Usa sui propri alleati. Tuttavia l’Urss doveva essere prima o poi distrutta, perché sottraeva all’influenza dell’imperialismo una parte consistente del pianeta e perché rappresentava, suo malgrado e nonostante la dittatura burocratica, un punto di riferimento alternativo. Questo obiettivo divenne impellente a partire dalla seconda metà degli anni settanta, quando le sconfitte in Vietnam, in Iran e in Nicaragua minacciavano di trasformare gli Usa in una potenza in declino. La distruzione e la ricolonizzazione dell’Urss rappresentavano anche la nuova frontiera di un capitalismo incapace di rilanciare stabilmente il processo di accumulazione dopo la crisi dei primi anni settanta. L’obiettivo, come è noto, venne centrato dalle amministrazioni repubblicane Reagan e Bush, le quali, tra l’altro, ordirono la trappola afghana, sfruttarono abilmente la crisi polacca, scatenarono una corsa agli armamenti di incredibili dimensioni e seppero fare leva sulle contraddizioni apertesi all’interno dell’apparato burocratico sovietico, in particolare ai tempi di Gorbaciov.

Il crollo dell’Urss non fu quel toccasana per l’economia capitalistica che in molti sognavano. L’Urss e l’est europeo sono sprofondati in una crisi economica di drammatiche proporzioni, alla quale sono rapidamente seguite una crisi sociale, lo sgretolamento di diverse nazioni e l’emergere di conflitti giustificati su base etnica, l’insediamento di un capitalismo ibrido, dominato da settori dell’ex burocrazia e da settori di borghesia mafiosa, spesso impossibilitati a smantellare l’ipertrofico apparato statale che avevano ereditato. Quel che ne è conseguito è stata una corsa, da parte dei principali paesi imperialisti, al saccheggio delle materie prime e dei pochi mezzi di produzione che potevano essere privatizzati con buone prospettive di profitto, qualcosa cioè di profondamente diverso dall’apertura di immensi mercati e dalla formazione di uno stabile contesto per la valorizzazione dei capitali.

Conseguito il proprio obiettivo strategico, senza peraltro ottenere i benefici economici sperati, gli Usa dovevano arrestare la propria decadenza economica e riaffermare la propria posizione predominante. In particolare alla fine degli anni ottanta il Giappone stava sperimentando una forte crescita economica, per quanto drogata da un’enorme bolla speculativa, e secondo molti osservatori si candidava a giocare un ruolo sempre più concorrenziale rispetto agli Usa.

Con la prima guerra del Golfo gli Usa, oltre a insediarsi militarmente nelle zone in cui sono presenti le maggiori riserve mondiali di petrolio, guidarono una coalizione di paesi ai quali, poi, fecero pagare gran parte delle spese dell’intervento. Si trattava del primo atto costitutivo del "nuovo ordine mondiale", con l’Urss ormai in agonia e le altre potenze imperialistiche incapaci di proporre un progetto alternativo di dominio.

Anche nel 1991 gli Usa si trovavano ad affrontare una situazione di crisi economica, allora di recessione (1) e, pertanto, molti osservatori istituirono uno stretto legame tra la guerra e la necessità di rilancio dell’economia attraverso la spesa pubblica militare e le commesse per la ricostruzione del Kuwait. Gli anni che seguirono dimostrarono che l’apporto del "keynesismo militare" al rilancio economico degli Usa fu abbastanza limitato. Gli anni 1990-96 furono, dal punto di vista della produzione, degli investimenti, della produttività e della crescita salariale, peggiori del decennio 1979-90. I primi anni della presidenza Clinton furono caratterizzati piuttosto da una politica di stampo monetarista (di certo più coerentemente monetarista di quella di Reagan) e da una discesa pilotata del dollaro rispetto allo yen e al marco. La politica monetaria imposta in quegli anni dagli Usa al resto del mondo ha senza dubbio avuto un ruolo decisivo non solo nel rilancio delle esportazioni, e quindi della produzione, statunitensi, ma anche nello sprofondare il Giappone in una crisi che data ormai più di un decennio e nello scatenare le crisi finanziarie in Messico (1994-95), nel Sud-est asiatico (1997), in Brasile e Russia (1998), in Argentina (2001). A partire dal 1997 gli Usa sono stati investiti da un enorme flusso di capitali in cerca di un rifugio sicuro dopo gli anni dei tour nelle "economie emergenti". Questa massa di capitali si riversò in generale sui titoli di Wall Street, e in particolare su quelli della cosiddetta new economy, creando quella che è stata definita la più colossale bolla speculativa della storia e generando, cosa meno risaputa, un gigantesco "eccesso di capacità produttiva". Quest’ultima è la formula con la quale gli economisti borghesi chiamano la marxiana sovrapproduzione di capitali, e cioè un prodotto necessario dell’accumulazione capitalistica. Le dimensioni di questa crisi di sovrapproduzione sono, citando solo alcuni esempi: un tasso di utilizzo della capacità produttiva del 73,5% (-3,5% rispetto alla recessione del 1990-91, -7,4% rispetto al periodo 1967-2001), 15% di eccesso di capacità produttiva nel settore dei semiconduttori (mentre a livello mondiale si sta sfruttando solo il 3% dei trentanove milioni di miglia di fibre ottiche installate), due milioni di automobili prodotte in eccesso (venti milioni a livello mondiale), profitti e investimenti ridotti al livello più basso dagli anni trenta. Dopo gli spettacolari fallimenti di Enron e WorldCom, multinazionali che falsificavano grossolanamente i loro bilanci, è venuto il fallimento della United Airlines e della crisi di molte imprese simbolo, dalla Disney a Mc Donald’s all’American Airlines. Se si uniscono questi elementi al record nell’indebitamento estero e al colossale indebitamento interno, si inizia a comprendere su quale baratro poggi l’attuale supremazia economica statunitense (2). Il rischio di un ritiro massiccio dei capitali investiti a Wall Street, dove, nonostante il mercato azionario americano sia caduto più del 50% nell’ultimo triennio, vi sono ancora titoli fortemente sopravvalutati, di una vendita del cospicuo patrimonio in titoli del Tesoro detenuti da altri paesi, il rischio che alcuni paesi denominino in euro le loro esportazioni petrolifere (con relativo ridimensionamento della possibilità di emettere moneta quasi senza alcun vincolo), sono alcune delle minacce che incombono sul cuore dell’imperialismo. In buona sostanza gli Usa stanno continuando a vivere ben al di sopra delle proprie possibilità, godendo di un continuo flusso di ricchezza, di un continuo sovvenzionamento dal resto del mondo che si potrebbe ridurre drasticamente e repentinamente.

 

Il rapporto tra Usa e borghesie arabe

Quanto finora sostenuto sarebbe già sufficiente per ridimensionare alcune teorie riduttive, incentrate sul mero controllo delle vie di approvvigionamento delle fonti energetiche. Questo problema, per quanto estremamente rilevante, deve essere inquadrato nel contesto di vulnerabilità economica e potenziale declino statunitense, nonché nel quadro di una ridefinizione dei rapporti tra Usa e borghesie dei paesi dominati. La crisi mondiale ha ampiamente eroso in questi anni i margini che permettevano alle borghesie nazionali dei paesi dominati di soddisfare le proprie esigenze facendo nel contempo gli interessi dei paesi imperialisti. L’esempio più evidente di questa crisi è offerto dall’America Latina, dove abbiamo assistito alla caduta nella polvere di partiti e capi di stato tra i più osannati da destra o dal centro sinistra (Fujimori, Cardoso, De la Rua), e dove già nel 1989 gli Usa erano dovuti intervenire per rimuovere un loro ex fiduciario, diventato troppo insubordinato: Noriega a Panama. Il caso delle petro-monarchie e petro-borghesie arabe è solo parzialmente diverso. In questo caso non conta solo il restringersi dei margini economici, ma anche l’enorme potenziale di ricchezza di cui godono quei paesi, la natura estremamente dispotica e politicamente arretrata della maggior parte di questi regimi, la costante umiliazione delle masse arabe da parte degli Usa e di Israele. La politica parzialmente indipendente di Saddam Hussein, o dei talebani col loro alleato Osama bin Laden, era solo una parte del problema: analoghi rischi si corrono con l’Arabia Saudita, che, secondo alcuni analisti, avrebbe un ruolo di spicco nell’11 settembre e sarebbe il principale obiettivo delle attenzioni statunitensi nell’area (3). Quale che sia la portata della minaccia rappresentata da alcuni settori della monarchia saudita, è abbastanza evidente che la presenza statunitense mira a un nuovo assetto complessivo dell’area.

La cosiddetta guerra al terrorismo è quindi solo un piccolo aspetto della questione, mistificante anche in quanto questo terrorismo non viene ben definito. Si tratta fondamentalmente di settori delle borghesie arabe, talvolta utilizzati in passato dalla Cia, che lottano in taluni casi per la loro sopravvivenza e in altri per ricontrattare la loro partecipazione alla spartizione imperialistica.

 

Prevenzione, non solo nei confronti degli "stati canaglia"

Oltre alla necessità di aumentare il controllo sui principali paesi dominati, gli Usa hanno la necessità di prevenire il consolidamento di poli imperialistici concorrenti. E’ pertanto prioritario, per gli Usa, evitare che l’UE si doti di un esercito comune, che possa consolidarsi come un reale mercato comune e che l’euro possa essere utilizzato per sostituire il dollaro negli interscambi mondiali.

L’unilateralismo è il modus operandi che si è voluta dare l’attuale amministrazione statunitense per risolvere questo insieme di problemi che sono evidenti da tempo. L’unico terreno sul quale gli Usa sono oggi sicuri di poter fare prevalere un incontestabile predominio è quello militare. In guerra le contraddizioni vengono esasperate e semplificate, alleati e avversari vengono condotti a schierarsi. Nelle precedenti guerre le principali potenze imperialistiche concorrenti preferirono schierarsi con gli Usa, concedendo loro nuove posizioni di supremazia, ma partecipando anche ai proventi delle rapine. Proprio per questo motivo molti commentatori e molte organizzazioni politiche sono rimasti spiazzati dalla posizione assunta dalla Francia e dalla Germania. Rifiutarsi di seguire gli Usa oggi significa penalizzare alcuni settori della propria borghesia nazionale, ma significa anche avere una coscienza dell’obiettiva divergenza degli interessi imperialistici.

Anche negli anni di maggiore allineamento agli Usa, l’UE si è vista vittima di misure protezionistiche e frustrata nel proprio sforzo di costruire un moderno esercito. Non si è trattato quindi tanto di seguire le proprie opinioni pubbliche, quanto di decidere se puntare sulla costruzione di un polo imperialistico autonomo o fare potenzialmente la fine del Giappone. Le borghesie europee sono tutt’altro che compatte su questa scelta, non solo la borghesia inglese per la sua storica collocazione, finanziariamente legata a doppia mandata agli Usa, ma anche le altre borghesie, messe di fronte alla scelta tra appalti e concessioni oggi e un grande polo imperialista forse domani. Queste oscillazioni accompagneranno ancora a lungo la formazione dell’UE, ancora lontana dal rappresentare un polo imperialista compatto.

L’unilateralismo Usa non deve essere, però, interpretato come una visione semplicemente autosufficiente, ma piuttosto come la possibilità di creare coalizioni ad hoc, "cogliendo la ciliegia", come dicono i "geopolitici" (4). La politica statunitense ha oggi la forza di chi assume l’iniziativa: crea contraddizioni, divide e sbaraglia gli altri fronti. Dal punto di vista dei marxisti ha l’innegabile pregio di fare piazza pulita di tanti orpelli ideologici: la fiducia nell’Onu, nella "comunità internazionale", nel diritto internazionale, nell’opinione pubblica, sbattendo in faccia a tutti la brutalità dell’imperialismo. Non esiste Convenzione di Ginevra, immunità diplomatica o Croce Rossa che tengano: i militari bombardano, saranno poi gli apparati ideologici a doverci mettere una toppa.

"Colpisci e terrorizza" è un’altra delle efficaci formule propagandistiche partorite dall’amministrazione Bush: un vero e proprio manifesto di intenti. Già l’amministrazione Clinton aveva teorizzato la necessità che gli Usa assumessero la propria missione nella difesa dei valori della democrazia e della pace a livello mondiale. Oggi a gestire la politica estera e militare degli Usa è un gruppo di personaggi di estrema destra che avevano già da tempo costituito un gruppo denominato Project for the New American Century (Pnac). Tutti espressione del complesso militare-industriale-petrolifero, i vari Cheney, Wolfowitz, Rumsfeld, Rice, Perle, avevano individuato i punti cardine di quella che avrebbe dovuto essere la nuova dottrina poltico-militare degli Usa. Il mantenimento della preminenza Usa, "precludendo la nascita di una grande potenza rivale", fa parte degli obiettivi. Gli Usa non vengono soltanto chiamati a essere in grado di combattere simultaneamente su più teatri di conflitto, ma anche a sapere utilizzare armi biologiche e nucleari tattiche. Le armi nucleari, infatti, considerate in passato solo come armi strategiche, di dissuasione, possono, con le ultime innovazioni tecnologiche, diventare delle importanti armi tattiche, a cui ricorrere realmente nel corso di un conflitto. La missione "democratizzatrice" degli Usa prevede quindi la protezione dei propri alleati (che così non saranno indotti a sviluppare in proprio eserciti e arsenali), anche attraverso lo "scudo spaziale", l’intervento per "stabilizzare" la regione del Golfo, la "democratizzazione" della Cina (5). Un manifesto imperialista così schietto da fare sbottare anche il professor Toni Negri, deluso dal ritorno alla becera politica del secolo passato, deprecabile anche per il fatto che fa del suo ultimo best seller carta per accendere il camino (6).

L’ideologia che serve a giustificare questa missione è, tanto per cambiare, l’integralismo cristiano, incoraggiato e sovvenzionato negli ultimi quindici anni. Questo complesso di dottrine reazionarie è dilagante oggi nelle due Americhe, declamato da tele predicatori e da organizzatissime sette che si insediano capillarmente e portano, oltre al consueto "oppio dei popoli", un po’ di speranza, di coesione sociale e di viveri nel disfacimento latinoamericano. Oggi questa è anche la dottrina della Casa Bianca, che riscopre la religione come copertura ideologica per le proprie imprese belliche, con buona pace dei tanti teorici del postmodernismo.

Detto di passaggio, queste scelte non sono estranee all’attuale collocazione del Vaticano, che non gode più delle preferenze statunitensi in qualità di presidio privilegiato dell’anticomunismo. Non sono più gli anni ruggenti della Polonia e del Nicaragua, il gigante cattolico appare affaticato quanto il suo maggiore rappresentante, e quindi può essere messo in secondo piano rispetto ad altri concorrenti più agguerriti. La vicenda dei preti pedofili negli Usa rappresenta un forte segnale in questo senso: la chiesa cattolica non gode più della protezione (e quindi dell’impunità) della quale godeva in tempi non remoti.

   

Si rivede l’imperialismo, manca solo l’anti-imperialismo

Il Prc, i Disobbedienti e tutti gli altri soggetti politici fortemente influenzati dalla teoria negriana hanno scientemente rinunciato a una propaganda anti imperialista proprio mentre l’imperialismo si stava preparando a tornare alla ribalta con tutta la sua virulenza. La sinistra si trova, tanto per cambiare, allo sbaraglio, profondamente influenzata dal pacifismo etico dei cattolici e, in certi settori, dalle teorie pro imperialismo europeo della socialdemocrazia e della liberademocrazia europea. Chi è stato abituato a contestare gli organismi sopranazionali in qualità di depositari della nuova sovranità e degli interessi delle multinazionali oggi, vedendo gli eserciti, i plenipotenziari e le bandiere tende a pensare che l’impero siano in realtà gli Usa, negando così non solo la teoria negriana, ma anche quella Leniniana, e condannandosi a non comprendere i prossimi nuovi pericoli. L’Onu e la Nato, rispetto a come li abbiamo conosciuti, sono ormai dei cadaveri, il Wto potrebbe diventarlo presto. Quel che ci attende, verosimilmente, è una nuova fase di offensiva statunitense per ridisegnare gli equilibri ancor più a suo favore e scaricare sul resto del mondo i costi della crisi, o un esacerbarsi dei contrasti interimperialistici, con le prevedibili conseguenze sul commercio mondiale e sulle istituzioni internazionali. Dobbiamo comprendere una volta per tutte la lezione di Lenin e di Trotsky sull’imperialismo e non farci illusioni sul possibile ruolo progressivo di questa o quella frazione della borghesia mondiale, o su eventuali ricadute antifeudali o democratizzatici delle guerre imperialiste (7).

E’ necessario sottolineare, a questo proposito, come tali illusioni, nell’attuale conflitto, siano state molto meno presenti che nel corso delle recenti guerre in Kosovo e in Afghanistan. Il movimento contro la guerra ha rigettato queste suggestioni, presenti invece nel centro liberale (maggioranza ds, Margherita), e , pur non arrivando a sostenere il paese aggredito e la necessità della sconfitta degli aggressori, è stato meno che in passato vittima del ricatto "o con gli Usa o amici di Saddam". Anche la consapevolezza diffusa dei reali motivi della guerra è stata superiore che in passato: il terreno è fertile per cercare di trasformare un generico movimento pacifista in un movimento antimperialista.

 

Grandi e piccole spartizioni

Come prevedibile questo dopoguerra ha al centro la spartizione delle proprietà e delle ricchezze. Gli Usa si sono assicurati il monopolio del business della ricostruzione, del valore stimato di cento miliardi di dollari. Agli Usa il privilegio di distribuire i subappalti, secondo criteri di fedeltà politica e di opportunità (8). I peshmerga kurdi, nel loro piccolo, guidano l’espropriazione dei sunniti dalle loro case, che a suo tempo furono dei kurdi. Un paese "liberato" dall’autorità statale fino a poco prima vigente è un paese dove si ridefiniscono gli assetti delle proprietà, dove gruppi, frazioni, spesso organizzati su base etnica e/o religiosa, lottano per conquistare una posizione di privilegio. Sapendo che li attende un futuro sotto il tallone di ferro dell’imperialismo, con la presenza diretta degli occupanti, alcuni settori potrebbero orientarsi in senso decisamente anti imperialista e altri mirare a una contrattazione con l’imperialismo da una posizione di maggiore forza rispetto all’attuale stato di prostrazione. Spesso a questo quadro si aggiungono una serie di imprevisti, come la tendenza che hanno i conflitti, una volta iniziati, a estendersi, a complicarsi, a richiedere più risorse di quanto non fosse stato previsto.

Una domanda legittima è, indubbiamente: "Potrà questa guerra rilanciare l’economia statunitense, e, anche se in posizione subordinata, il resto dell’economia mondiale, almeno nel futuro prossimo?". Una trattazione esaustiva di questo punto richiederebbe un articolo ad hoc, ma un abbozzo di risposta pare comunque utile. In termini marxisti il rapporto tra guerra ed economia è individuato nel fatto che un conflitto generalizzato, che coinvolge i principali concorrenti imperialisti, porta alla distruzione di ingenti quantità di capitale e alla svalorizzazione di parte di quello che resta. L’accumulazione di capitale può pertanto ricominciare a tassi di profitto finalmente crescenti. La devastazione di un paese come l’Iraq e la sua successiva ricostruzione creano diversi problemi. Si dice che le spese di guerra saranno prevalentemente pagate, questa volta, dallo stesso Iraq col suo petrolio (9). Questo non significa che le imprese del consorzio imperialista potranno presentarsi tranquillamente a ricostruire ponti, fabbriche e palazzi riscuotendo il compenso in petrodollari. D’altronde se le cose fossero così facili non si comprenderebbe perché la ricostruzione della Confederazione jugoslava non sia quasi iniziata, il promesso piano Marshall per il Nicaragua post sandinista non si sia mai visto, gli investimenti nella Russia post sovietica languano. Anche pensando che il dirottamento della rendita petrolifera nelle tasche del consorzio "per la ricostruzione" possa agevolare molto le cose, è difficile credere che la locomotiva di un capitalismo afflitto dai suoi consueti malanni, in termini per molti versi simili agli anni trenta, possa essere rappresentata dalla ricostruzione di un paese come l’Iraq. Mi pare che questa idea, che pure circola insistentemente, sia impregnata di suggestioni keynesiane. Se le politiche keynesiane potessero rilanciare il capitalismo in crisi l’ultimo decennio keynesiano in Giappone e l’ultimo pacchetto di spese pubbliche (civili e militari) post 11 settembre avrebbero dato ben altri risultati. Del resto se il prezzo da pagare per rilanciare il capitalismo nei momenti di crisi fosse semplicemente radere al suolo un paese, avremmo da tempo assistito al cinico giochetto della distruzione e ricostruzione degli "stati canaglia".

 

In conclusione

Se la guerra appena conclusa dovesse passare alla storia come la "guerra del petrolio", la definizione sarebbe decisamente limitativa, come lo è, per esempio, quella di "guerra dell’oppio". Negli anni quaranta del XIX secolo l’Inghilterra e gli Usa miravano all’apertura del mercato cinese, e quindi all’apertura dei porti e alla soppressione dei dazi. Senza dubbio il controllo del petrolio ha oggi una valenza infinitamente maggiore del commercio dell’oppio ieri, ma non è l’unico motore della guerra. Il titolo di questo articolo: "guerra per il profitto" dovrebbe rappresentare un’ovvietà, ma purtroppo non è così. L’idea che il motivo di fondo per cui il capitalismo entra in crisi e deve ricorrere a delle guerre sia il declino del saggio di profitto è incomprensibile per larghissima parte della sinistra. Vale la pena quindi di ricordarlo con forza, avendo però chiaro che, assodato questo fatto, non si è che all’inizio della spiegazione.

La tesi sostenuta è che l’aggravarsi della crisi di sovrapproduzione mette a repentaglio, oggi ancor più che dieci anni fa, il predominio statunitense. Questa affermazione pare ancora più azzardata, ma è confortata da una mole consistente di dati raccapriccianti sullo stato dell’economia statunitense. Se si leggono questi dati in una prospettiva che vede il rafforzamento e l’estensione dell’area dell’euro, il possibile consolidamento del polo imperialista europeo, la crescita della Cina, il deflusso di una quota consistente di capitali da Wall Street, appare un po’ più chiara l’esigenza statunitense di puntare sulla propria schiacciante supremazia militare. Tutti questi elementi, in particolare quelli legati al rafforzamento dell’euro e alla fine del signoraggio del dollaro, sono presenti nel dibattito sulle cause della guerra, ma vengono solitamente presi unilateralmente e spacciati come la causa prima o principale. Gli Usa oggi si confrontano con l’imperativo di scongiurare una forte crisi, che, tra l’altro, coinvolge anche il loro rapporto con le borghesie dei paesi dominati. La regione che strategicamente permette di insediarsi tra Europpa, Cina e Russia, controllando la risorsa energetica fondamentale, è per l’appunto il Medio Oriente. Il protettorato sull’Iraq e l’Afghanistan, le divisioni e le basi militari in Arabia Saudita, Kuwait e Quatar, non sono che l’inizio di un riassetto complessivo della regione, i cui tempi e le cui modalità sono di difficile previsione, anche a causa delle divisioni presenti all’interno dell’amministrazione statunitense. Quello che è certo è che i vincitori della guerra, i nuovi governatori del Medio Oriente, avranno molte più possibilità di continuare a imporre alle altre potenze imperialiste le loro politiche monetarie, il loro commercio "unilateralmente libero", il signoraggio del dollaro, e tutto quanto serve per continuare a vivere felici e indebitati alle spalle del mondo, fino alla prossima guerra.