Venezia,
VI Congresso Prc
Un
dissenso senza alternativa
Le
mozioni "critiche" (2 e 4) alla prova dei fatti
di Ruggero Mantovani
Con la chiusura del VI
Congresso del Prc "Bertinotti rifonda la sinistra socialista e libertaria,
non il comunismo. Perché non dirlo?" (Emanuele Macaluso da La
Stampa del 7 marzo 2005).
Una definizione
assolutamente coerente e confermata dai fatti, giacché è lo stesso Bertinotti
a non far mistero di voler riproporre, se pur riattualizzandola, la formula del
centrosinistra degli anni Sessanta, quella dell’incontro storico tra la Dc di
Fanfani e Moro e il Psi di Nenni, Lombardi e Giolitti.
Un fascino, quello
governista, mai sopito per il segretario del Prc, che oggi tende a
razionalizzare, ritenendo che "l'eventuale convivenza di Rifondazione comunista al governo assieme a forze
molto diverse, ha un precedente nel primo centrosinistra, nel quale convivevano
due forze tendenzialmente inconciliabili, da un lato la Democrazia Cristiana e
dall’altro il Partito socialista. Quell’esperienza dimostra ( asserisce
entusiasticamente Bertinotti, nda) che una convergenza tra diversi si può
fare" (La Stampa, 07/03/05).
Il segretario del Prc al
congresso di Venezia, sia nella relazione che nella replica, ha in definitiva
riproposto, approfondendola, l’antica idea del compromesso sociale con la
borghesia produttiva. E ciò paradossalmente in un momento in cui i margini del
riformismo e di conseguenza la sua credibilità, sono di fatto azzerati dalla
globalizzazione e dalla strisciante crisi capitalistica.
Una prospettiva che fin
d’ora rimette in discussione la stessa funzione sociale del Prc e
l’esistenza di un’opposizione comunista e di classe nel nostro Paese.
Mai nella storia del
nostro partito la prospettiva politica avanzata dal segretario ha incontrato,
se pur con motivazioni differenti, un’opposizione di oltre il 40%.
Mai come in questo
congresso il segretario vince ma non convince il corpo del partito.
Una convergenza, quella
delle opposizioni, misurata oggi nella comune battaglia per una gestione
democratica, plurale ed unitaria del partito, contro una logica che ha di fatto
cambiato lo statuto a colpi di maggioranza e che rivendica esplicitamente
l’esclusione delle diversità.
Ma la ristrutturazione
degli organismi dirigenti del Prc non può essere vissuta come una torsione
autoritaria e rilanciata su piano meramente
democraticista: questa battaglia è legata alla prospettiva di governo
perseguita da Fausto Bertinotti.
Solo così può essere
spiegata l’aberrante proposta di una segreteria omogenea e di un
depotenziamento della direzione nazionale assente dal comitato esecutivo.
Qui sta tutta la necessità
di contrastare la prospettiva governista di Bertinotti prima che sia troppo
tardi e non di avanzare dei correttivi, e cioè l’illusione di introdurre
paletti nel programma del governo della classe avversaria, come ha proposto la
mozione 2 (Grassi); o un accordo politico-elettorale col centrosinistra,
inclusivo di un appoggio esterno al governo della borghesia come propone la
mozione 4 (Malabarba-Cannavò).
La comune battaglia delle
opposizioni interne al Prc contro una ristrutturazione antidemocratica degli
organismi del partito è tanto più incisiva nella misura in cui rompa qualsiasi
internità con il prossimo governo confindustriale, rimettendo al centro
dell’opposizione interna, la costruzione dell’indipendenza di classe e
dell’autonomia della rifondazione comunista.
La costruzione
dell’unità delle forze del dissenso politico nei confronti della linea di
maggioranza e la necessità di salvare rifondazione comunista come forza
indipendente, impone, tanto più oggi, di contrastare le stesse impostazioni
avanzate dalle mozioni "critiche" (2 e 4).
Mozione 4 (Erre): Non
diciamo “mai al governo con la borghesia”
Poco prima dell’inizio del VI Congresso un’autorevole
dirigente di questa componente (la compagna Flavia D’Angeli), su Liberazione
del 27 febbraio, asseriva:"Non esiste un problema astratto di governo, è
evidente che è sbagliato escludere questa prospettiva. Noi diciamo: non
discutiamo governo Sì, governo No. Non diciamo 'mai al governo con la
borghesia'. È uno slogan che non serve a niente, noi abbiamo una posizione
realista. Vogliamo costruire un nuovo mondo. Quale? Un mondo non capitalista. Lo
costruiamo con Prodi in queste condizioni? Ci pare evidente che la riposta, oggi
(e non domani, nda) è No.
Noi diciamo: verifichiamo insieme questa linea politica,
vediamola con i movimenti, mettiamola alla prova del fuoco delle lotte e
valutiamo se tiene o No. Poi si decide cosa fare."
Sullo stesso piano le fa
eco il compagno Salvatore Cannavò, il quale nel ribadire la necessità di un
accordo politico-elettorale col centrosinistra, ritiene che lo stesso servirebbe
a "Dare uno strumento di autonomia ai movimenti e alle lotte di questi
ultimi anni (…) per fissare dei punti politici (…). Non sarebbe ovviamente
la conclusione di una battaglia o l’adagiamento rilassato alla logica del
governo Prodi, come scompostamente e ricorrendo alle peggiori deformazioni della
realtà ci accusa la mozione 3 (…) ma una lotta che vedrebbe il baricentro
dentro i movimenti sociali e la nostra capacità di fare politica dentro il
palazzo per ottenere risultati concreti".
Tutta l’argomentazione
proposta dal gruppo dirigente di quest’area conferma ancora una volta la
mancanza di una base di principio: ignora il carattere di classe del centro
liberale come rappresentazione della grande borghesia; dichiara di non avere
“pregiudiziali” verso un governo comprensivo degli interessi del capitalismo
italiano; non pone la rottura con quel centro liberale come asse centrale di una
politica di classe. Insomma si avanza oggi un rafforzamento del movimento,
speculare, domani, al “confronto con il centrosinistra”, proponendo, in
definitiva, un movimentismo incapace di prospettare un’alternativa di classe
al compromesso governista avanzato dalla maggioranza del partito.
Certo, autorevoli esponenti del
quarto documento hanno ribadito al congresso di Venezia che con "questo
centrosinistra non è possibile confrontarci in termini di alternativa di società
(…) e che solo la sua scomposizione e superamento, potrebbe far avanzare
l’alternativa di società"; proponendo al contempo la necessità
dell’accordo politico, giudicato necessario per "un avanzamento tangibile
delle condizioni di vita" dei ceti popolari.
Contro questa impostazione
militano i fatti e non le asserite deformazione delle realtà che sarebbero
propinate dalla terza mozione.
Come non vedere che un accordo
politico col centrosinistra, pur rimanendo fuori dal governo, riproporrebbe
l’effetto del primo governo Prodi: demotivazione della base operaia,dei
movimenti e del conflitto sociale?
Il tanto sbandierato
realismo politico rende evidentemente miopi, incapaci di recepire una verità
elementare: l’inconciliabilità tra le domande espresse dai movimenti nel
periodo 2001-2004 e gli interessi delle forze del capitalismo italiano.
Una verità che pone sia
la necessità della rottura con il centro liberale e sia un’alternativa di
classe e anticapitalista.
Non si tratta di
avanzare, come fa Erre, un programma più radicale o più antiliberista, che
richieda alla borghesia liberale “i rinnovi contrattuali, la lotta contro la
legge 30, un dibattito corretto sul salario” o la “realizzazione transitoria
di nazionalizzazioni di alcuni gangli produttivi”, o forme “innovate di
scala mobile” per il recupero di potere di acquisto di salari e pensioni.
Si tratta di proporre un
programma di rottura con il centro liberale borghese, capace di cancellare le
controriforme imposte dal padronato.
Un programma di
alternativa che dimostra che l’antiliberismo avanzato dal documento di Erre,
in assenza dell’anticapitalismo, finisce per riproporre con l’antica
illusione riformista nuovi ambiti di compromesso di classe con la borghesia
liberale.
Ma sempre Cannavò ci ricorda
che"Il documento Un'altra
rifondazione è possibile è stato all’opposizione nel partito sia nel '94
che nel '96 quando il Prc si fece trascinare dentro l’opzione di governo;
gestendo in prima persona, pur con molte limitazioni e ristrettezze la gloriosa
fase dei movimenti. Le altre mozioni che quell’esperienza hanno snobbato
pretendendo una sacralità dei testi, fanno più fatica a sintonizzarsi con il
nuovo corso che attraversa il partito, e con quello che ci aspetta
nell’immediato futuro".
Ora pur volendo prescindere dal
fatto che "quello che ci aspetta" è il governo Prodi-Montezemolo e
l’entrata del Prc nel governo della borghesia liberale, è bene ricordare che
la storia del gruppo dirigente del quarto documento è parte integrante di una
tendenza programmatica caratterizzata da continue svolte e contro svolte,
attestandosi costantemente su posizioni subordinate al gruppo dirigente
maggioritario del partito.
Nel primo congresso di
Rifondazione (1991), la parola d’ordine di Bandiera Rossa (oggi Erre) era di
evitare qualsiasi battaglia politica. Al secondo congresso di Rifondazione
Comunista (1994), Bandiera Rossa presenta alcuni emendamenti in blocco con Paolo
Ferrero, il cui contenuto movimentista li rende compatibili con l’impostazione
del gruppo dirigente garaviniano. Durerà pochissimo: una volta chiuso il
sipario del congresso, passarono pochi mesi e iniziò nella maggior parte della
seconda mozione una corsa al bertinottismo.
Quando poi scissionò la
corrente Magri-Crucianelli, il gruppo dirigente di Bandiera Rossa enfatizzò lo
spostamento a sinistra del partito, ritenendo che la dinamica delle cose era la
prova provata che Bertinotti andava a sinistra. Ma quando Bertinotti fece la
svolta verso Prodi, il gruppo dirigente di Bandiera Rossa si trovò totalmente
spiazzato.
Inizialmente appoggiò la svolta
sostenendo l’accordo politico elettorale con Prodi, votando a favore in sede
di Direzione Nazionale nei confronti del governo. Ma passato qualche mese e di
fronte al fatto che il governo presentava e Rifondazione si apprestava a votare,
la finanziaria più gigantesca degli ultimi vent’anni, a questo punto fecero
un passo indietro, ma anche in questo caso con cautela.
Quando ci fu la successiva
rottura con Cossutta a seguito della ricollocazione all’opposizione del
partito, nuovamente l’innamoramento per Bertinotti, questa volta molto più
intenso e appassionato del primo, tant’è che al IV e al V congresso del
partito Bertinotti divenne nell'immaginario di questi compagni un agente, fosse
pure involontario, di una rifondazione comunista rivoluzionaria in Italia.
Ma quando il segretario avvia la
svolta filoprodiana produce un nuovo spiazzamento del gruppo dirigente di Erre,
questa volta più intenso del precedente, poiché rimette in discussione tutta
la teorizzazione del bertinottismo e la tanto decantata nuova rifondazione.
All’inizio della nuova svolta
Erre manifesta massima cautela, votando tutte le risoluzioni in Direzione
Nazionale e nel Comitato Politico che di fatto aprirono alla prospettiva di
governo.
E quando il 6 marzo del 2003
Bertinotti impose le commissioni programmatiche con Treu e Mastella, Erre vota a
favore e si oppone pubblicamente
alla richiesta di Progetto Comunista del congresso straordinario del partito,
rimanendo successivamente nel limbo di una contraddittoria astensione.
In definitiva, questa tendenza
nel tempo ha costruito un itinerario subalterno al bertinottismo che riteniamo
non sia il prodotto di un deficit politico, ma l’interiorizzazione del ruolo
di “consiglieri del principe”, il cui esito è stato costantemente la
rimozione del programma dell’indipendenza di classe come questione centrale e
di principio. Tanto più oggi, questa impostazione rischia di riproporre una
critica empiristica alla linea politica della maggioranza, facendo prevedere,
finita la tempesta della ristrutturazione antidemocratica degli organismi, il
predisporsi nuove modalità di adattamento al bertinottismo.
Mozione 2 (l'Ernesto): al
governo con la borghesia ma con "un’identità comunista"
Da un altro versante le posizioni
assunte al VI congresso dalla mozione due, malgrado l’aspra critica
alla prospettiva avanzata dalla maggioranza, sul terreno
politico e programmatico, in definitiva, avanzano, seppur “a precise
condizioni”, l’antico compromesso con la borghesia liberale.
E’ il compagno Grassi in sede di intervento congressuale
a rilanciare questa impostazione: "Noi contrastiamo una doppia scelta:
dentro il governo, dentro l’Unione, ancor prima di aver discusso e concordato
un programma. Dovevamo e dobbiamo dire a Prodi e all’Unione: siamo pronti a
unirci a voi per cacciare Berlusconi, ma l’intesa è possibile solo se si
costruisce un programma che contiene degli elementi di rottura con le politiche
che anche voi avete praticato negli anni ’90. Questo è il nodo politico. E
qui -su questo tema- c’è il vero punto di dissenso tra di noi."
Al di là dei toni e delle
polemiche che i compagni dell’area de l’Ernesto hanno pubblicamente
indirizzato al segretario del Prc, la prospettiva avanzata è tutta centrata
nella ricerca del compromesso con
le forze di rappresentanza della borghesia liberale.
Una prospettiva tanto
interiorizzata da questi compagni, che sul piano della gestione misura la
drastica spaccatura con Bertinotti.
Non è un caso che la svolta
filoprodiana è all’inizio salutata da l’Ernesto con entusiasmo.
Anzi, il gruppo dirigente di
quest’area rivendicava il ruolo di interlocutore privilegiato della sinistra
Ds, accreditandosi come tassello essenziale di ricucitura dell’alleanza col
centro liberale, limitandosi a sollevare critiche di metodo sulla gestione del
processo.
E se da un lato proprio
nell’ambito delle relazioni tra i gruppi dirigenti che matura la rottura con
Bertinotti, dall’altro tutta la storia di questa tendenza, fin dall’inizio,
è segnata dal costante tentativo
di rientrare nell’economia della dirigenza maggioritaria del partito.
Al primo congresso del Prc
quest’area, malgrado non avanzò nessuna differenziazione con la maggioranza
del partito e vantasse la tradizione espressa del giornale Comunisti oggi, viene emarginata, tant’è che non entrò nella
segreteria.
Al secondo congresso, nel timore
di essere messi da parte dall'asse maggioritario Cossutta Magri, mima una
differenziazione a sinistra con la famosa terza mozione del secondo congresso
del partito, la mozione Vinci-Sorini-Salvato, ma su una posizione in realtà
intermedia tra quella governista
del gruppo dirigente e la seconda mozione congressuale.
Anche allora a l’Ernesto venne
impedita l’entrata nella segreteria nazionale, inserendosi, poi, organicamente
nella direzione del gruppo dirigente del Prc solo in virtù delle ripetute
scissioni: prima la scissione della componente Pdup-Crucianelli-Magri e
successivamente la scissione di Cossutta.
Inizia a questo punto la totale
copertura della linea maggioritaria del partito da parte del gruppo dirigente di
quest’area.
Tutta la vicenda Prodi è
totalmente coperta da responsabilità di segreteria: non c'è nessuna
differenziazione del gruppo de L’Ernesto sulle finanziarie da 60.000 miliardi,
sul Pacchetto Treu, e sui campi di
detenzione.
E così quando il partito si
ricolloca all’opposizione (forzata e non voluta), L’Ernesto si trova alla
destra del gruppo dirigente bertinottiano, e tutta la sua differenziazione al V
congresso nei confronti di.Bertinotti, è finalizzata a ricostruire una base
negoziale verso il centrosinistra.
Ma vi è di più. Persino la
cronaca spicciola dei fatti dimostra che la recitazione critica delIa quarta
mozione, è clamorosamente smentita dalle posizioni assunte che hanno
accompagnato la svolta di Bertinotti.
Claudio Grassi giustamente nel
suo intervento al VI congresso denuncia che Prodi "accoglie Bush dandogli
il benvenuto e che continua a definire ancor oggi la guerra nel Kossovo non come
una guerra ma come un intervento umanitario".
Ma ricordiamo che, con un
articolo su Liberazione del 18
dicembre 2003, è il compagno Grassi, che riferendosi al manifesto di Prodi
affermava: "(…) il suo è un appello sincero a riattivare adeguati canali
di partecipazione democratica, forse la migliore parte del documento è quella
in cui rivendica il primato del capitalismo renano contrapposto a quello di
marca anglosassone".
Una polemica aspra quella con il
segretario del Prc che si è sviluppata proprio
nel momento in cui Bertinotti rivendicava il monopolio in proprio di tutta la
gestione di questa operazione, senza e contro il gruppo de l’Ernesto.
Una posizione che se nel merito
risulta assente di un chiaro principio di classe, nel metodo fa emergere tutta
la sua inconsistenza e le sue gravi contraddizioni.
Domandiamo, tanto più
all’esito del VI congresso, che senso politico può avere una proposta che
rivendica i “paletti” programmatici come precondizione di un accordo col
centrosinistra e al contempo si dichiara pronta a sostenere dall’esterno il
futuro governo Prodi, con o senza i medesimi “paletti”?
Le “condizioni
minime”, oggi rivendicate dall’area de l’Ernesto, non reggono alle
contraddizioni di una posizione che non esclude, ma rilancia, un compromesso
forte con il centro liberale borghese, testimoniata anche soggettivamente dalle
responsabilità assunte in questa direzione da suoi autorevoli esponenti.
Come si concilia la giusta
denuncia del compagno Grassi di non "vedere una sostanziale modifica in
positivo delle posizioni politiche del centro sinistra", e la
sottoscrizione della bozza Amato sulle riforme istituzionali, che prevede un
federalismo pro devolution e
l’adeguamento della forma di governo al cosiddetto premierato inglese?
La posizione oggi
apparentemente critica del gruppo dirigente de l’Ernesto, lungi da mostrare un
posizionamento contingente, è viceversa tutta interna alla sua tradizione
togliattiana, con tutto quello che ha significato questa eredità sulle
impostazione politiche: dalla prospettiva internazionale, articolata tutta in
termini campisti (i cui agenti anti imperialisti oggi sembrerebbero il Venezuela
di Chavez e la Cuba di Fidel Castro), là dove i rapporti interstatuali
sostituiscono nei fatti la centralità della lotta di classe; a quella
politico-programmatica sulla questione del governo, che esplicitamente in linea
con il recupero della "via italiana al socialismo", della via
graduale, accetta e promuove le alleanze con la cosiddetta borghesia democratica
o progressista.
Una prospettiva
socialista che come vigorosamente affermava il compagno Pegolo nel suo
intervento congressuale, "(…) non necessariamente e sempre non
violenta", allude evidentemente al possibile passaggio al socialismo per
via pacifica, attraverso quel compromesso dinamico di togliattiana memoria.
Una identità legata ad
un modo già sperimentato e fallito di Essere Comunisti.
Quello che oggi reclama
la necessità di valorizzare “il patrimonio di idee degli ultimi
centocinquant’anni” e della “battaglia per la costruzione del
socialismo”, ma riduce l’analisi di Marx ed Engels ad una “forza di
mutamento politico del sentimento d’ ingiustizia sociale”; Lenin ad
un’analista del “colonialismo e dell’imperialismo”, e il pensiero di
Gramsci alla “complessità dei contesti sociali”.
Non c'è più spazio
per la "critica" del bertinottismo
Rifondazione è giunta al
crocevia della sua storia.
Siamo ad un bivio, oltre il
quale rischiamo la morte di una forza comunista che tutti e tutte in questi anni
abbiamo contribuito a costruire.
Per questo riteniamo che rompere
con la prospettiva governista della maggioranza del partito significa rompere
con qualsiasi formula di collaborazione di classe, con o senza paletti. E
concretamente significa andare oltre la "critica" delle "mozioni
critiche".
Questo sì, segnerebbe
“un’altra rifondazione” e un altro modo di “essere comunisti”.