Il congresso Ds e i compiti dei comunisti

 

di Marco Ferrando

 

Il congresso dei Democratici di sinistra segna una tappa ulteriore dell’evoluzione liberale della maggioranza dirigente Ds in direzione del soggetto unificato del liberalismo italiano (il cosiddetto partito unico riformista).

La federazione del cosiddetto “triciclo” (Margherita, Ds, Sdi) è stata la proposta centrale del congresso.  Il suo significato di fondo è stato riproposto con chiarezza dalla relazione introduttiva di Fassino: unire le forze del cosiddetto “riformismo cattolico, socialista, liberale” in un nuovo soggetto politico che le trascenda. In altri termini sviluppare la progressiva fusione degli eredi della socialdemocrazia italiana  con gli eredi del popolarismo borghese democristiano e di altre famiglie della diaspora borghese liberale (da Rutelli a Dini).

 

Il punto di forza della proposta federativa

Questa proposta, da tempo perseguita e coronata dal congresso con un vasto corredo scenografico di riferimenti emblematici (si pensi alla riabilitazione di Craxi), ha in realtà un suo punto di forza e una sua debolezza.

Il suo punto di forza è rappresentato dalla corrispondenza coi processi politici di lungo corso che si sono sviluppati in Italia nell’ultimo decennio. Sul piano politico gli orientamenti congressuali della maggioranza Ds e della Margherita sono ormai largamente sovrapponibili. Così sul piano sociale la maggioranza Ds ha da tempo superato il baricentro dei propri legami con la Cgil e le vecchie organizzazioni di massa collaterali, per moltiplicare le proprie relazioni col mondo dell’impresa e delle banche. Il fatto che il congresso, per la prima volta, sia stato introdotto da una lettera aperta di Fassino alle imprese italiane perché contribuissero al finanziamento del partito usando il congresso Ds come vetrina di esposizione delle proprie proposte d’affari, non è solo una concessione d’immagine a una spregiudicata modernità ma anche un riflesso indiretto delle nuove radici del partito. Lo stesso intervento congressuale di Massimo D’Alema, interamente rivolto al mondo delle imprese, è al riguardo emblematico. Peraltro i settori decisivi della classe dominante – da sempre estranei al berlusconismo – sollecitano la costruzione di una propria rappresentanza centrale unificata e spingono con forza per l’unificazione Ds-Margherita in direzione del partito unico riformista. E questo tanto più nel momento in cui la ricomposizione interna al Polo delle Libertà tra Berlusconi, il Centro cattolico e An sembra temporaneamente archiviare un’operazione di sfondamento centrista da quel versante politico.

 

La lotta per l’egemonia nell’unificazione liberale

Tuttavia la prospettiva politica del partito unico riformista continua a scontare nel proprio cammino contraddizioni importanti. Lo Statuto della Federazione è stato varato su spinta dei Ds per decisione congiunta di Ds e Margherita, demandando a organismi federali non più di partito poteri deliberativi su materie fondanti, a partire dalla politica estera. Ma nessuna normativa statutaria può sciogliere di per sé nodi politici molto intricati. Il nodo politico essenziale non è dato da una divergenza politica sullo sbocco generale dell’operazione, ma dal contenzioso irrisolto nell’egemonia dell’operazione. Per l’apparato maggioritario dei Ds la prospettiva del partito unico riformista è il definitivo compimento strategico della scelta varata alla Bolognina: la propria emancipazione definitiva non solo come forza di governo ma come possibile architrave di una rappresentanza borghese dentro una seconda repubblica bipolare. In concreto, una forza che possa pretendere la Presidenza del Consiglio senza doversi disporre in seconda fila. Ma proprio per questo D’Alema e Fassino non concepiscono l’operazione del partito riformista come propria dissoluzione subalterna in un partito borghese, ma come costruzione della propria egemonia su quel partito, contando sulla diretta superiorità del proprio apparato e della propria forza elettorale.

Romano Prodi e la sua famiglia politica hanno un’aspirazione opposta. Minoranza nella Margherita ma forti dei propri legami col mondo bancario  (e del sostegno di Bertinotti) i prodiani fanno leva sull’operazione federativa per conquistare una propria leadership sul nuovo soggetto. Sono costretti ad appoggiarsi ancora sull’apparato Ds  sia per sormontare le proprie difficoltà nella Margherita sia perché, senza la forza elettorale dei Ds, nessun nuovo soggetto può nascere. Ma al tempo stesso lavorano a utilizzare la forza Ds per un proprio disegno di affermazione. E usano la centralità politica della candidatura Prodi come leva di una scalata presidenzialista e plebiscitaria nella stessa Unione. La proposta delle primarie con la ricerca di una diretta investitura popolare ha questo segno.

La Margherita a sua volta, nella sua maggioranza (Rutelli-Marini) è disponibile all’unificazione coi Ds alla sola condizione di essere garantita nel peso politico: alla condizione, in altri termini, di non essere assorbita e dispersa in un nuovo soggetto a guida Prodi-D’Alema. Per questo Rutelli usa la propria egemonia sulla Margherita come strumento di  condizionamento dell’operazione federativa. E al tempo stesso lavora a puntellare la coalizione,  sciogliendo a destra su ogni versante sia le contraddizioni dei Ds sia  gli impacci di Prodi: le prime dovute alla presenza della sinistra Ds, i secondi determinati dall’interessata mediazione con Bertinotti.

Qual è dunque la risultante di questa complessa partita politica? Un eterno stop and go. Una prospettiva continuamente riproposta lungo un processo realmente avviato, ma al tempo stesso segnata dal manifestarsi su ogni questione dagli effetti paralizzanti delle contraddizioni latenti. E’ difficile in questo quadro fare previsioni certe. Ciò che si può dire è che il risultato delle elezioni regionali sarà un fattore importante per il destino di Prodi e dell’intera operazione della Fed.

 

Subalternita’ e paralisi della sinistra Ds

La sinistra Ds ha rivelato nel Congresso la sua profonda subalternità politica al liberalismo. Le difficoltà non nascono semplicemente dal ridimensionamento del consenso registrato (il 20% complessivo, sommando la mozione Mussi a quelle Salvi e Bandoli).

Ma è riconducibile a fattori politici di fondo. Può la tendenza socialdemocratica interna ai Ds sopravvivere a lungo all’evoluzione liberale del proprio partito? Questo è da tempo l’interrogativo che la dinamica politica Ds pone alla sinistra interna. Cofferati e il cofferatismo furono a suo tempo la grande speranza. O la speranza di una riconquista interna dei Ds, facendo leva sul combinato disposto della forza organizzata della Cgil e del carisma del leader, sullo sfondo della mobilitazione di massa antiberlusconiana; o la speranza di un nuovo soggetto politico, in sostanza un nuovo partito socialdemocratico, che nascesse da una scissione a sinistra dei Ds e trovasse nella Cgil la sua base di appoggio. Ma la grande rinuncia di Cofferati ha spento rapidamente quelle speranze. E ora la morsa si stringe. Da un lato la maggioranza Ds prosegue imperterrita il suo viaggio accidentato verso l’unificazione liberale assorbendo e omologando a sé parti importanti della vecchia minoranza Ds e del suo apparato nazionale e periferico (si pensi al passaggio di Veltroni e Bassolino alla maggioranza sancito da questo congresso). Dall’altro lato la svolta governista del Prc e la sua candidatura esplicita a  sinistra del centrosinistra  riduce lo spazio tradizionale della sinistra Ds quale raccordo di mediazione tra centro liberale e Prc. E insidia la base sociale della sinistra Ds, sia sul versante sindacale sia su quello elettorale.

Stretta in questa morsa la sinistra Ds incontra una crisi profonda di prospettiva che la espone a confuse oscillazioni pendolari: da scelte di blocco con Bertinotti unite al pubblico annuncio di una propria separazione da un’eventuale partito unico “riformista” (vedi Mussi all’Assemblea nazionale del 15 gennaio a Roma)  a scelte di adattamento subalterno alla maggioranza liberale dei Ds, come in occasione del congresso, dove sia Mussi che Salvi non solo hanno rinunciato a qualsiasi proposta alternativa di segretario, ma hanno votato unitariamente la presidenza D’Alema e hanno commentato “positivamente” l’esito di un congresso che pure ha rilanciato quella prospettiva federativa di centro contro cui formalmente si erano schierate le mozioni di minoranza (vedi lo stesso Salvi su L’Unità del 10 febbraio).  

In realtà le sinistre Ds non hanno bussola.

Da un lato il processo dell’unificazione liberale colpisce giorno dopo giorno il loro insediamento nel partito, o per via dell’omologazione di suoi settori o per via dell’abbandono silenzioso di altri settori. Dall’altro lato la lentezza e l’impasse di questa marcia priva la sinistra Ds di uno spazio politico di scissione: peraltro già occupato progressivamente dalla nuova socialdemocrazia bertinottiana. La sinistra Ds è la vittima designata di se stessa: di una politica socialdemocratica di blocco col Centro liberale che, chiudendola nel recinto dell’Unione, la priva di ogni sbocco.

 

Rimpiazzare la sinistra Ds o costruire un’egemonia alternativa nelle lotte?

Il Prc, tanto più oggi, potrebbe e dovrebbe entrare attivamente nella crisi della sinistra Ds in una logica di egemonia alternativa a sinistra. Ma ciò richiede un’altra politica e un’altra prospettiva del partito.

Il Prc dovrebbe incalzare quotidianamente le contraddizioni insolubili di Mussi e Salvi. Dovrebbe sfidarli con una proposta di rottura col Centro e di costruzione di un polo autonomo di classe, mostrando a ogni passo l’inconciliabilità degli interessi dei lavoratori, formalmente rivendicati nelle mozioni di minoranza, e gli interessi dei poteri forti raccolti attorno a Prodi e D’Alema.  E dovrebbe sviluppare questa politica sul terreno dei movimenti, nella lotta di classe, nelle organizzazioni di massa a partire dalla Cgil. Solo così è possibile compromettere la credibilità dei gruppi dirigenti della sinistra Ds presso i settori più avanzati della loro base. Solo così si può allargare l’influenza alternativa del Prc presso la base di massa della sinistra Ds e favorire quella costruzione di un’egemonia alternativa del movimento operaio che resta lo snodo decisivo di una reale prospettiva anticapitalista.

Purtroppo solo Progetto Comunista avanza questa proposta chiara di linea, basata sulla rottura col Centro. Bertinotti si muove nella direzione opposta: la sua politica oscilla tra la ricerca di un compromesso diretto con Prodi, sulla testa della sinistra Ds, e la ricerca di un blocco con essa per mediare con Prodi.

L’Ernesto propone una politica di programma comune con la sinistra Ds (i famosi paletti) per negoziare insieme un governo comune coi liberali. E’ una linea ortodossamente togliattiana. Ma cosa c’entra con la rifondazione comunista?

Erre rifiuta la parola d’ordine della rottura col Centro in nome della pressione dei movimenti sul Centrosinistra. E così glissa il nodo stesso della sinistra Ds.

Infine Falce e Martello trova il modo di polemizzare con Progetto Comunista rimproverandoci di chiedere alla sinistra Ds la rottura con D’Alema. Il tutto in nome del “fronte unico” con D’Alema e della prospettiva del “governo delle sinistre” (D’Alema-Bertinotti?) quale via al socialismo sotto la pressione delle lotte. Poveri noi…

E’ la conferma che solo una politica rivoluzionaria, proprio perché libera da ogni illusione, può intervenire nelle contraddizioni del riformismo in funzione della prospettiva socialista.