I
comunisti, i governi, il potere (*)
di
Francesco Ricci
Cari
compagni, care compagne, voglio iniziare questo intervento sul "Comunismo
oggi" citando Fausto Bertinotti. Nella nota intervista a Il
Manifesto (quella in cui ci ha spiegato che per lui i dirigenti
comunisti del Novecento sono morti e non solo fisicamente), il segretario ha
aggiunto che avrebbe voluto vedere in faccia uno che oggi dica di voler fare un
partito marxista e che metterebbe la dittatura del proletariato nello Statuto
del partito.
Ebbene
io, insieme ad altri compagni, ho presentato al V congresso un preambolo allo
Statuto del Prc che recita così:
"Il
compito fondamentale dei comunisti resta quello espresso nel Manifesto
di Marx: guadagnare la maggioranza del proletariato, nel corso delle sue lotte
quotidiane, alla comprensione dell'impossibilità di riformare il capitalismo e
alla conseguente necessità di conquistare il potere politico attraverso il
rovesciamento dell'ordine borghese. Solo la trasformazione del proletariato in
classe dominante potrà aprire una strada di progresso per l'umanità che
conduca infine all'eliminazione della società divisa in classi e alla
cancellazione di ogni forma di oppressione." Questo è quanto abbiamo
proposto per lo Statuto di Rifondazione. Peccato
dunque che Bertinotti non sia qui tra noi oggi, altrimenti avrebbe potuto vedere
in faccia non uno ma diverse centinaia di comunisti che vogliono fare un partito
marxista.
Guadagnare
la maggioranza dei lavoratori alla necessità della rivoluzione per costruire
una dittatura del proletariato. Il comunismo era questo ieri, e per noi continua
ad essere questo anche oggi. Se non è questo, altrimenti cos'è?
Fausto
Bertinotti (nella stessa intervista) ha avanzato un'altra prospettiva come scopo
della rifondazione comunista. Ha detto: si può costruire "una società
diversa dentro la forma di stato presente, introducendo nel capitalismo degli
elementi di socialismo attraverso riforme di struttura".
Questa
teoria è stata subito accolta da alcuni come una straordinaria rivelazione,
come una profonda innovazione.
Purtroppo
non è proprio così. E a questo proposito c'è, come diceva quel tale, una
notizia buona e una cattiva. La notizia cattiva è che l'idea delle grandi
riforme in sostituzione della rivoluzione è vecchia e il marchio è già stato
registrato almeno un secolo fa da un certo Bernstein. La notizia buona è che
Bernstein non chiederà i diritti d'autore perché anche lui è già morto e -ci
permettiamo di aggiungere: non solo fisicamente.
La
cosa più triste in questa forsennata riscrittura della storia (i cui tempi
rapidi sono evidentemente dettati dall'urgenza di un ingresso nel futuro governo
liberale) è che non ci si fa scrupolo di invocare a difesa di questa
prospettiva anche quei grandi rivoluzionari che pure vengono dichiarati morti e
sepolti.
Lo
hanno fatto con Rosa Luxemburg, citata da Bertinotti nell'ultimo Comitato
Politico di Rifondazione, la settimana scorsa.
Siccome
è piuttosto difficile arruolare nella marcia verso il governo dell'Ulivo una
dirigente che è morta per aver costruito l'opposizione rivoluzionaria a un
governo cosiddetto di sinistra (e comunque sicuramente più a sinistra di un
futuro governo Prodi), il segretario ha citato un testo in cui Rosa avanza delle
critiche ai bolscevichi. Si tratta di un testo che hanno sempre utilizzato tutti
i sostenitori delle tesi opposte a quelle sostenute dalla Luxemburg.
Peccato
che anche quel testo non si presti alla bisogna e ogni volta viene citato (e lo
ha fatto anche stavolta Bertinotti) dimenticando di precisare che inizia con un
violento attacco ai socialisti che aspirano ad entrare in governi borghesi e
finisce rivendicando un futuro non al ministerialismo ma al bolscevismo. E
allora dobbiamo tornare a ripetere, con Lenin e Trotsky: giù le mani da Rosa
Luxemburg!
Anche
Lenin è stato utilizzato in questa nuova elaborazione teorica lanciata con
sospetto tempismo negli ultimi mesi dal gruppo dirigente di Rifondazione.
Ci
hanno spiegato che i comunisti non devono aver timore dell'innovazione e devono
saper anche rompere con la tradizione precedente. Ci hanno detto: guardate
Lenin, anche lui ruppe con la tradizione precedente, quella della Seconda
Internazionale. E hanno ragione.
Purtroppo
dimenticano di precisare in quale direzione e per quali
motivi avvenne quella rottura. Lenin
rompeva con la II Internazionale degenerata per contrapporre alla deriva verso i
governi borghesi (e le loro guerre) la necessità dell'opposizione di classe per
l'alternativa operaia.
Viceversa,
ci pare, il senso di marcia che viene proposto oggi è esattamente opposto:
rompere con Lenin per tornare al governo con i Rutelli che rilanciano
l'armamento europeo per far competere l'Europa ad armi pari (letteralmente) con
l'imperialismo statunitense. Rompere con Lenin per governare con i Fassino e i
D'Alema che sostengono ipocritamente i carabinieri in Irak. E cosa c'entra
allora in tutto questo il metodo di Lenin?
E
allora dobbiamo tornare a ripetere con Trotsky: giù le mani da Lenin!
Ma
non basta. Nemmeno Marx è stato risparmiato.
In
genere i riformisti di ogni tempo hanno sempre preteso di contrapporre al Marx
teorico e dirigente della rivoluzione un Marx scienziato e filosofo. Paolo
Ferrero, della segreteria nazionale, ha voluto spingersi oltre, forse per
dimostrare la sua abilità. E ha chiamato in causa addirittura il Marx della
Comune di Parigi.
Nel
suo intervento (pubblicato anche nel libro di Liberazione)
il compagno Ferrero lascia cadere lì, ad un certo punto, una frase. Scrive:
Marx criticò la Comune e "non condivise la scelta dell'insurrezione della
Comune". Detta così sembra che Marx fosse critico della rottura
rivoluzionaria compiuta dai comunardi. Non è detto esplicitamente, ma il
sospetto che si lascia cadere è che forse già Marx, persino Marx (pur non
avendo potuto leggere il libro allegato a Liberazione)
si stesse convincendo della bontà della strategia nonviolenta. Insomma, il Marx
di Ferrero è diventato un ben educato bertinottiano.
Dobbiamo
ammettere di aver provato dell'ammirazione per il compagno Ferrero. Citare Marx
e la Comune di Parigi per giustificare l'ingresso nel prossimo Prodi bis non è
cosa da tutti.
E'
noto, infatti, che Marx prima dell'insurrezione, in carteggi privati, esprimeva
un giudizio negativo sulle condizioni soggettive, cioè sulla direzione politica
parigina. Ma una volta iniziate le 72 giornate della Comune si schierò senza
dubbi coi comunardi e anzi trasse da quell'esperienza (che finì male appunto
per l'assenza di una direzione coerente) una lezione fondamentale che volle
inserire anche nella prefazione del 1872 al Manifesto:
la Comune ha dimostrato che la macchina statale borghese nata per difendere il
sistema economico e sociale dello sfruttamento non può essere riutilizzata
dalla classe operaia. Bisogna spezzare, distruggere lo Stato della dittatura
borghese e sostituirlo con lo Stato della dittatura del proletariato.
In
altre parole, la Comune, nella lezione che ne trasse Marx, è una gigantesca
lapide calata su ogni ipotesi riformista.
Scrive
Marx (nella Guerra civile in Francia):
"Il vero segreto della Comune fu questo: che essa fu essenzialmente un
governo della classe operaia. La forma finalmente scoperta nella quale si poteva
compiere l'emancipazione economica del lavoro."
Evidentemente
questo segreto è rimasto tale per il compagno Ferrero. A sua parziale
giustificazione bisogna dire che non ha avuto molto tempo, di recente, per
approfondire gli studi storici. Perché è stato assorbito dagli incontri di
commissione con Tiziano Treu.
Nel
dibattito aperto sulle colonne di Liberazione si è teso molto a contrapporre il
Novecento all'Ottocento e il secolo nuovo a tutti quelli precedenti; Marx contro
Lenin, ecc. La realtà è un'altra: è che in tutti i due secoli precedenti -e
anche oggi- si sono contrapposte due prospettive diverse. Da una parte il
marxismo rivoluzionario che ha affermato (a partire dall'ottocentesco Marx) che
il compito dei comunisti è costruire nell'opposizione di classe la forza per il
rovesciamento dei governi borghesi e aprire così la strada al potere
lavoratori. Dall'altra parte la prospettiva che sostituisce all'opposizione di
classe la pretesa di convincere la borghesia e i suoi governi a fare politiche
diverse.
Non
due vie diverse per la stessa meta, ricordava la Luxemburg: ma due vie diverse
per due mete diverse. L'obiettivo della conquista del potere attraverso il colpo
di maglio della rivoluzione, ricordava la Luxemburg (che misteriosamente
Bertinotti indica come uno dei suoi punti di riferimento) fu sempre al centro
della battaglia di Marx.
E,
aggiunge Rosa: "era riservato a Bernstein di scambiare il pollaio del
parlamentarismo borghese con l'organo competente a realizzare la trasformazione
più formidabile della storia umana."
Purtroppo,
a quanto pare, oggi Bernstein è in buona compagnia in quel pollaio.
Il
marxismo rivoluzionario ha combattuto contro il vicolo cieco del riformismo
nell'Ottocento, per costruire l'indipendenza di classe del movimento operaio. E
il filo rosso di quella battaglia è servito ai comunisti della prima parte del
Novecento per ripartire, dopo la degenerazione governista della socialdemocrazia
e per vincere nell'Ottobre. Ma lo stalinismo ha reintrodotto nel movimento
operaio il morbo della collaborazione di governo con la borghesia, con i
liberali.
Non
il confronto tra due teorie libresche, ma il confronto vivo della storia ha
messo alla prova ancora una volta riforme e rivoluzione. E tutta l'esperienza
del Novecento -dai fronti popolari degli anni Trenta, passando per la
ricostruzione degli Stati borghesi nell'Europa del secondo dopoguerra, fino ad
arrivare al primo governo Prodi, a Jospin e oggi a Lula ha confermato la teoria
marxista e cioè la necessità di costruire l'alternativa operaia dalle lotte di
opposizione, nell'autonomia di classe. Non vi sono state smentite, ma anzi molte
conferme, molte tragiche conferme.
Purtroppo
la lezione storica non insegna nulla ai riformisti. Anche all'ultimo Comitato
Politico Bertinotti ha ribadito quanto ripete con insistenza quotidiana da mesi
in quotidiane interviste sui giornali borghesi -che sono ovviamente molto
interessati a questo dibattito. Ci ha spiegato che bisogna superare
l'"ipotesi novecentesca della conquista del potere" perché il potere
porta solo sciagure e degenerazioni. Bisogna -ha ripetuto- "estirpare alla
radice il tema della conquista del potere per non rimanerne contagiati."
A
chi si fosse eventualmente preoccupato di una conversione anti-governista del
segretario, dopo trenta minuti di capriole verbali è venuta una rassicurazione.
E' arrivato il solito Ma.
Ma
non siamo anarchici, ha detto Bertinotti, e quindi non siamo allergici all'idea
del governo.
La
conclusione è chiara: il potere dei lavoratori è cosa brutta, ma qualche
ministero in un governo liberale non si rifiuta mai.
E'
in fondo la logica conclusione a cui sono sempre giunte (anche nell'odiato
Novecento) tutte le derive riformiste: Kautsky finì sottosegretario agli
Esteri, Bernstein sottosegretario al Tesoro, Togliatti ministro di Giustizia.
Un
personaggio di Oscar Wilde diceva: "ogni volta che qualcuno mi parla del
tempo ho la certezza che intenda dire qualcos'altro". Così pure noi quando
Bertinotti ci parla di Marx, di religione, di foibe, di Novecento abbiamo una
certezza: si sta parlando d'altro. E precisamente si sta parlando del Prodi bis.
Cioè di un futuro governo di alternanza basato sul Manifesto antioperaio di
Prodi: un governo contro i lavoratori, contro i movimenti.
Ma
se lo scopo dei riformisti resta ancora una volta quello di sostituire
all'assalto al cielo l'assalto a qualche poltrona ministeriale, lo scopo dei
comunisti resta viceversa quello di trasformare la classe operaia in classe
dominante. Non attendendo passivamente l'ora X ma conquistando nelle lotte i
lavoratori a questo obiettivo storico.
Fino
a quando non possono distruggere il potere borghese e costruire un governo loro,
i comunisti devono stare all'opposizione, diceva la Luxemburg prima che oggi
qualcuno la trasformasse in una riformista nonviolenta.
E
Rosa diceva questo non in ossequio a qualche astratto comandamento: ma perché
aveva chiaro che non è possibile "espropriare gli espropriatori" con
il loro consenso, convincerli col confronto tra due programmi inconciliabili
perché basati sugli interessi opposti di sfruttatori e sfruttati.
Opposizione
di principio a qualsiasi governo borghese, dunque, dicevano tanto lei quanto gli
altri rivoluzionari del Novecento e dell'Ottocento, perché il compito
principale dei comunisti è quello di distruggere ogni eventuale illusione dei
lavoratori nella possibilità di riformare un sistema irriformabile.
L'intera
storia ha confermato questo fondamento del marxismo. Ogni governo di
collaborazione di classe, ogni governo di alternanza, non ha mai costituito una
tappa verso l'alternativa, ma un ostacolo su quella strada. Riproporre oggi,
dopo un altro secolo di conferme, quella prospettiva; e farlo tanto più a
fronte delle potenzialità di lotta e della ripresa coraggiosa di mobilitazioni
delle giovani generazioni e di quella classe operaia che era stata data
definitivamente per morta, riproporre oggi un progetto di grande riforma è ben
più di una scelta sbagliata.
Per
questo il compito dei comunisti è, ancora una volta, contrastare questa
prospettiva e costruirne un'altra: quella della reale rifondazione comunista.
Una prospettiva che richiede un partito che oggi ancora non c'è ma che stiamo
costruendo con la nostra battaglia, anche oggi, qui in questa sala.
Cari
compagni, care compagne, voglio concludere con un ultimo riferimento a quei
dirigenti rivoluzionari del Novecento che altri considerano morti.
Nel
seminario di Venezia sulla nonviolenza Bertinotti ha detto: "non possiamo
discutere come se in questa platea fossero seduti insieme a noi Lenin e Trotsky."
Per
una volta siamo totalmente d'accordo con lui. A Venezia Lenin e Trotsky non si
sarebbero seduti volentieri. Forse qui, oggi, in questa sala, sì!
E
vorrei allora concludere citando poche righe da un libro molto bello che in
queste settimane è stato attaccato prima da Revelli, poi da Bertinotti e infine
anche dal compagno Turigliatto, dirigente di Erre. Si tratta di Terrorismo
e Comunismo, un testo che Trotsky ha scritto durante la guerra civile, tra
una battaglia e l'altra, sul treno da cui dirigeva l'Armata Rossa contro
l'accerchiamento degli eserciti imperialisti. Un testo di cui Trotsky ha sempre
rivendicato -anche negli anni Trenta- l'attualità.
Scrive
Trotsky:
"Infine
il processo storico si riduce alla lotta mortale tra capitalismo e comunismo.
Lasciamo
ai Kautsky il ruolo di seguaci critici della borghesia e dei suoi governi.
Noi
combattiamo per la rivoluzione proletaria internazionale. La posta è grande da
entrambe le parti, e la lotta sarà dura e dolorosa.
Ma
noi speriamo nella vittoria del comunismo e ci battiamo per essa, perché ne
abbiamo ogni diritto storico."
(*)
riportiamo la trascrizione integrale di una delle relazioni tenute al seminario
di Progetto Comunista del 13 marzo (su cui rimandiamo a una nota in altre pagine
di questo numero). L'insieme degli atti della manifestazione saranno disponibili
a breve in un opuscolo.