13 MARZO 2004 ROMA

MEETING NAZIONALE DI PROGETTO COMUNISTA

 

NONVIOLENZA O RIVOLUZIONE?

 

di Fabiana Stefanoni

 

 

4 Gennaio 2004. Liberazione pubblica la seguente dichiarazione di Fausto Bertinotti: “La violenza, in ogni sua variante, risulta inefficace perché viene riassorbita dalla guerra o viene riassorbita dal terrorismo mettendo fuori gioco la politica”.

9 febbraio 2004. Comunicato diramato dalle agenzie di stampa: “Una mattinata di tensione oggi a Genova, per la protesta degli operai delle acciaierie Ilva di Cornigliano. Quando l’imprenditore Riva ha varcato i cancelli è scattata la violenza. Lanci di bastoni, sassi, petardi contro le forze dell’ordine, nel tentativo di forzare il blocco”. Vorremmo chiedere al compagno Bertinotti in quale delle due articolazioni della spirale Guerra-Terrorismo pensa di inserire la lotta degli operai dell’Ilva. In base alle sue dichiarazioni gli operai di Cornigliano, che protestano per la difesa del posto di lavoro, andrebbero considerati dei terroristi o dei guerrafondai inconsapevoli.  

Secondo i dirigenti di maggioranza di Rifondazione Comunista, chiunque adotti mezzi violenti -si tratti pure di atti di autodifesa di fronte alla violenza della polizia nelle manifestazioni- inevitabilmente si metterà sullo stesso piano dell’aggressore. Questo è il ritornello che caratterizza la gran parte degli interventi che sono stati raccolti nel libro di Liberazione “La politica della non-violenza”. Un ragionamento che, portato alle sue conseguenze, si traduce nella condanna della resistenza del popolo iracheno e delle lotte dei palestinesi: non sono forse forme di resistenza che assumono inevitabilmente un carattere violento? o vogliamo chiedere ai giovani palestinesi di contrapporsi a mani nude ai carri armati del colonialismo sionista? O pensiamo sia possibile per gli iracheni contrastare pacificamente le truppe degli invasori? Eppure, secondo quanto affermano i dirigenti di maggioranza, ogni resistenza armata è terrorismo. Ci spiegheranno come si fa a contrastare mezzi pacifici un nemico armato fino ai denti che ha dimostrato chiaramente di non avere alcuna esitazione nello sterminare migliaia e miglia di civili per l’occupazione di territori considerati strategici e funzionali agli interessi del capitale.

Ma restiamo pure in Italia e vediamo nel concreto cosa significa la cosiddetta “politica della non-violenza”. Vi ricordate, care compagne e cari compagni, cosa si è affrettato a dichiarare all’indomani degli arresti per gli scontri del 4 ottobre all’Eur, Bertinotti? In un’intervista al Corriere della sera ha dichiarato: “alle manifestazioni si va a mani nude e a volto scoperto”: un modo non tanto velato per abbandonare i manifestanti arrestati al loro destino. Bene. Se Bertinotti ci invita ad andare alle manifestazioni sempre e comunque a mani nude e a volto scoperto, gli risponderemo che è ancora vivo in molti di noi il ricordo delle giornate di Genova in occasione del G8 e abbiamo ben presente quanto sia costata la scelta assurda di scendere in piazza senza un adeguato servizio d’ordine. Già allora, la maggioranza del Prc si diceva contraria a qualsiasi ipotesi di autodifesa dei cortei e, anche dopo gli scontri di quei giorni e nonostante la morte di Carlo Giuliani, si aveva il coraggio di dire “la difesa dalle aggressioni della polizia si fa solo con le videocamere e con la testimonianza”.

Eppure l’esperienza insegna. Sempre, da che esiste il capitalismo, le classi dominanti hanno opposto alla crescita dei movimenti la violenza dei loro apparati. È la storia di Genova e del movimento antiglobalizzazione, ma non solo. È la storia del secondo dopoguerra in Italia, per fare solo uno dei tanti esempi. Basta pensare alle stragi di stato studiate a tavolino per frenare la crescita dei movimenti.

Se poi volessimo ripercorrere la storia degli ultimi due secoli potremmo trovare infiniti esempi. Dalla Comune di Parigi, passando per la Spagna degli anni ’30, al Cile di Allende, l’esperienza ci ha dimostrato che, ogni volta che gli oppressi hanno messo in pericolo il potere delle classi dominanti, queste non hanno esitato ad utilizzare senza scrupoli quelle che Engels chiamava le bande armate del Capitale. È chiaro: un potere che, come quello del capitalismo, si basa sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo non può che reggersi sulla violenza degli apparati e delle cosiddette forze dell’ordine.

Ma è sufficiente pensare alla violenza che la classe operaia e i movimenti sono costretti a subire ogni giorno nei luoghi di lavoro e nelle piazze per rendersi conto di quanto sia assurda e ipocrita la parola d’ordine del “pacifismo sempre e comunque”; ipocrita, perché non è un caso che la maggioranza del Prc insista sull’ipotesi nonviolenta proprio nel momento in cui sta marciando a grandi passi verso un governo comune con l’Ulivo. La borghesia, di cui il centrosinistra resta il rappresentante privilegiato, chiede degli impegni ben precisi ai futuri governanti: tra questo, l’abbandono della lotta di classe e della violenza che a essa è necessariamente connessa. E per questa prospettiva –per la prospettiva di un nuovo governo Prodi- la maggioranza dirigente di Rifondazione Comunista s’appresta a svendere i movimenti di massa che hanno preso vita negli ultimi anni e che hanno visto scendere in campo una nuova generazione: obbligarli alla scelta pacifista significa obbligarli a restare inefficaci e innocui, significa condannarli a subire passivamente la repressione degli stati borghesi. Ma la non violenza investe anche questioni strategiche: se vogliamo che il richiamo a un altro mondo possibile non resti una vuota parola sarà necessario riempirlo di contenuto. Sarà necessario pensare che un altro mondo sarà possibile solo a patto d’abbattere il capitalismo, e per farlo obbligata è la strada della lotta di classe.

È proprio questo il punto. All’oppressione dello sfruttamento capitalistico, alla violenza dell’imperialismo, alla repressione degli Stati borghesi è necessario contrapporre la violenza della lotta di classe. Come scriveva Trotsky, cercare di “subordinare la lotta di classe a delle norme astratte significa disarmare i lavoratori che affrontano un nemico armato fino ai denti”. Solo con la violenza rivoluzionaria il proletariato potrà affrontare la resistenza che le classi dominanti oppongono ad ogni processo rivoluzionario. Rinunciare sempre e comunque alla violenza significa rinunciare alla prospettiva del rovesciamento dell’ordinamento capitalistico: e questo rovesciamento, come ci insegnano Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista, non avverrà se non per via della “sovversione violenta”.

Ma ai dirigenti di maggioranza del Prc la prospettiva del superamento del capitalismo evidentemente interessa poco. Ci spiegano, negli interventi apparsi su Liberazione, che “i mezzi sono inscindibili dai fini”, anzi che i mezzi anticipano i fini e che quindi, per costruire un mondo di pace, dovremmo utilizzare solo mezzi pacifici. Certo: perché il mondo di pace al quale aspirano non è certo il Socialismo, piuttosto il mondo della pace sociale concertata di un nuovo governo Prodi, con la benedizione dei ramoscelli d’Ulivo che tanta pace portarono nei Balcani durante il governo D’Alema. È veramente grottesco: mentre si ergono a difensori del pacifismo, i dirigenti del Prc siedono al tavolo delle trattative con quei partiti che hanno organizzato o sostenuto tutte le imprese imperialiste dell’ultimo decennio.  Mentre si dicono non violenti si dichiarano disponibili ad entrare nei governi della borghesia, che sono i massimi organizzatori di violenza.

Del resto, è una contraddizione inevitabile per i riformisti, perché vera pace non si potrà parlare finché la classe operaia sarà costretta a subire l’oppressione dello sfruttamento capitalistico, finché i popoli saranno soggetti alle angherie dell’imperialismo. Poiché siamo convinti, con Rosa Luxemburg, che  “lo scopo finale è il solo momento decisivo” sappiamo che battersi per la pace significa lottare per il Socialismo. Sappiamo che un altro mondo possibile si potrà costruire solo con l’esproprio degli sfruttatori e, quindi, solo con la presa del potere da parte dei lavoratori e delle lavoratrici. È evidente che tutto questo non avverrà senza resistenza da parte del padronato: è scontato che, come scriveva Trotsky, dovremo “prepararci a tutte le conseguenze che deriveranno dall’opposizione inevitabile delle classi possidenti”. Nessun padrone ovviamente cederà pacificamente le proprie aziende ai lavoratori.

Diversamente, pronunciarsi per la non violenza e per il pacifismo significa rinunciare alla rottura rivoluzionaria, ovvero adattarsi ai governi della borghesia. E questa è la strada che sta percorrendo la maggioranza dirigente del Prc. Una strada che porta dritto non certo alla conquista del potere ma al massimo alla conquista di qualche ministero in un governo con i banchieri e i liberali.

Lenin e Trotsky ci hanno insegnato che la storia non offre possibilità di scelta e l’alternativa è chiara: o dalla parte del grande capitale e dei suoi governi (siano essi di centrodestra o di centrosinistra) o dalla parte dei lavoratori e delle lavoratrici e per un loro governo, che solo con la violenza rivoluzionaria vedrà la luce.

È questa seconda prospettiva –la prospettiva della rivoluzione socialista- che Progetto Comunista intende mantenere viva.