13 MARZO 2004 ROMA
MEETING NAZIONALE DI PROGETTO COMUNISTA
CONCLUSIONI
di Marco Ferrando
In una lettera a Bebel del
1879, così Marx fustigava le tendenze riformiste del movimento socialista
tedesco, denunciandone e deridendone la "doppiezza":
"(...) il comunismo non
deve essere abbandonato, deve essere solo rinviato a tempo indeterminato. Lo si
accetta, ma non per sé e per il tempo nel quale si vive, bensì per
l’avvenire, come un’eredità da lasciare ai figli e ai figli dei figli. Nel
frattempo ci si dedica ad ogni sorta di ciarpame e al rabberciamento della
società capitalistica, affinché si abbia l’impressione che qualcosa accade,
ma la borghesia non sia spaventata… Così si può dunque fare i conciliatori,
gli accomodatori, i filantropi religiosi, i pacifisti, quanto si vuole
(...)".
Marx denunciava quella
contraddizione tra le parole e le cose, quel doppio binario tra evocazione del
futuro e politica presente che tanto avrebbe segnato la lunga storia del
riformismo. Certo non poteva prevedere che una "rifondazione
comunista", formalmente annunciata nel nome del "ritorno a Marx",
avrebbe riprodotto esattamente quel doppio binario che Marx aveva combattuto.
Care compagne e cari compagni,
da dieci anni non c’è congresso del nostro partito che non sia stato
celebrato formalmente come il congresso della "svolta a sinistra" e
del "futuro del comunismo". Da dieci anni il termine
"rivoluzione" ricorre come vezzo ideologico e allusione radicale in
interventi, comizi, risoluzioni del Prc ed in particolare del suo segretario.
Così anche oggi il segretario rassicura che l'"innovazione"
annunciata è l'"uscita da sinistra" dalla crisi del movimento
operaio: e in questo senso colloca la stessa svolta identitaria della “non
violenza” e la scelta del "nuovo" partito della Sinistra europea.
Purtroppo conta la realta’,
non la sua rappresentazione. E oltretutto la stessa rappresentazione
della realtà che si fa nel partito non è la rappresentazione della realtà che
si fornisce all’esterno, in particolare alla stampa borghese.
Interrogato dal giornale della Margherita Europa, attorno agli obiettivi del Prc in Europa e in Italia, Fausto Bertinotti così risponde: "Non ho dubbi. L’obiettivo centrale della lotta politica in Italia e in Europa è una vera riforma del sistema capitalistico… Se entriamo in un’era dell’Alternanza, io credo che la sfida vada accettata. E che il partito della Sinistra europea possa avere il ruolo di governo che pensiamo per Rifondazione in Italia”.
RIFORMA DEL CAPITALE E
ALTERNANZA DI GOVERNO: DOV'E' IL "NUOVO"? L'UTOPIA DEL RIFORMISMO
OGGI.
Riforma del capitalismo,
alternanza di governo. Viene da chiedere banalmente: "Dov’è il
comunismo?" E prima ancora: "Dov’è l’innovazione radicale, la
celebrata rottura col Novecento, il "nuovo" pensiero del
"nuovo" secolo? Riforma del capitalismo e compromesso riformatore con
la borghesia: per dirla con Rosa Luxemburg si tratta dei "soliti, vecchi,
ronzini del riformismo che non hanno mai nulla di nuovo da dire". Ed in
effetti è tutto ciò contro cui è nato il marxismo; tutto ciò contro cui è
stato rifondato a ridosso della rivoluzione d’Ottobre; tutto ciò che ha
accomunato la socialdemocrazia e lo stalinismo, contro il marxismo
rivoluzionario, per larga parte del Novecento.
L’unica vera novità è che
queste vecchie suggestioni riformiste vengono riproposte non solo nel nome della
rifondazione comunista, ma in un contesto storico nuovo che, tanto più oggi, le
priva di una base materiale e ne accentua il carattere subalterno.
Un “compromesso riformatore e
di governo” oggi in Europa, nel quadro della crisi capitalistica mondiale e
dopo il crollo dell’Urss? La stagione delle riforme sociali, in Europa fu
figlia del boom economico e della rivoluzione d’Ottobre, quando la borghesia
per paura di perdere fu indotta a concedere qualcosa. Ma ora la crisi
capitalistica internazionale ed europea; la costruzione del polo imperialistico
europeo, sospinto dal crollo dell'Urss e dalla nuova competizione mondiale; la
stessa evoluzione liberale della socialdemocrazia europea, chiudono, nel loro
insieme, lo spazio storico del riformismo.
Dov'è oggi lo spazio materiale
di "un'Europa sociale" dentro questa Europa del capitale? Dov'è
l'interlocutore politico e sociale del cosiddetto "compromesso
riformatore"?
L'esperienza degli ultimi
quindici anni ci dice l'opposto: che tutti i governi socialdemocratici o di
centrosinistra, spesso celebrati inizialmente come governi di svolta e modelli
di riferimento, hanno realizzato il grosso della controriforma sociale e
politica del vecchio continente. Così in Italia, così in Francia, così oggi
in Germania. E tutto questo non "nonostante" la loro composizione
politica "di sinistra" o la presenza in essi di "ministri
comunisti", ma esattamente in ragione di quella composizione. Perché
proprio quella composizione politica ha consentito e consente loro di disporre
delle leve della concertazione e della pace sociale, che è il contesto migliore
per la realizzazione efficace di quei programmi padronali.
Così il vecchio detto di
Agnelli secondo cui "i governi di sinistra servono a fare le politiche di
destra" ha trovato un riscontro non solo in Italia, ma in tutta Europa. E
che poi siano state le destre a beneficiare di quelle politiche non solo non
riduce ma aggrava il bilancio politico di quelle esperienze.
Possiamo noi allora riproporre,
nel nome della rifondazione, come se nulla fosse accaduto, l’illusione
smentita di un riformismo senza riforme?
IL PSE: UNA RIFONDAZIONE
"SOCIALDEMOCRATICA" PER L'ALTERNANZA.
Ed è talmente vera l’assenza
di uno spazio riformatore di governo oggi in Europa, che questo dato si riflette
indirettamente sullo stesso profilo politico del Partito della sinistra europea.
Le componenti della maggioranza dirigente del Prc si accapigliano sul metodo di
costruzione del Pse, ma tacciono significativamente sulla sua prospettiva di
alternanza e sulle implicazioni programmatiche di tale prospettiva. Eppure il
Manifesto fondativo del Pse è, da questo punto di vista, davvero
impressionante. Ciò che impressiona non è solo l’evanescenza del soggetto
sociale di riferimento; né i richiami culturali variopinti ed eclettici del
preambolo dello Statuto (comprensivi del “pensiero liberale”); né
l’assenza, del tutto scontata in una prospettiva dichiarata d’alternanza di
un programma di alternativa anticapitalistica. Ciò che impressiona è
l’assenza di una piattaforma coerente di obiettivi immediati sullo stesso
terreno “riformatore” e in rapporto alle domande dei movimenti di lotta.
Il partito europeo “più a
sinistra” non chiede il ritiro delle truppe dai teatri coloniali, oggetto
centrale della prossima manifestazione del 20 marzo; accetta la costituzione
dell’esercito europeo in nome di una sua possibile funzione di pace; rimuove
il no alla Costituzione della Ue, che pur ha i caratteri di una costituzione
reazionaria; e sullo stesso terreno della proposta sociale redistributiva
l’unica rivendicazione esplicita contenuta nel Manifesto fondativo è la
rivendicazione liberale della Tobin Tax, talmente “radicale” da essere stata
votata dal parlamento canadese e da essere lodata da... Luciano Violante.
Sono "lacune
letterarie" o semplice effetto di contraddizioni interne tra i vari partiti
che compongono il Pse? No. Sono il riflesso obbligato della prospettiva
d’alternanza e al tempo stesso la misura della sua natura. Se la prospettiva
dichiarata del nuovo partito è un governo con la socialdemocrazia liberale e il
centro liberale, per di più nelle condizioni storiche attuali, quel governo
borghese sarà così poco “riformatore e pacifista”, così irreversibilmente
controriformatore che la sola candidatura a quella prospettiva richiede la
rinuncia preventiva non solo “al socialismo” ma persino a un programma
minimo di riforme. E questo è solo il... piede di partenza.
Ecco allora il senso vero e di
fondo dell’operazione del Pse e il suo duplice paradosso.
Di fronte all’evoluzione
liberale della socialdemocrazia ci candidiamo noi ad occupare il vecchio ruolo
della socialdemocrazia riformista. E poiché lo spazio riformistico della
vecchia socialdemocrazia non c’è più, ereditiamo la crisi di quel riformismo
e ci candidiamo a gestire controriforme al fianco dei liberali e sotto la loro
guida.
Altro che “rottura col
Novecento”!
Vi siamo dentro da tutti i
punti di vista. Non solo perché la soluzione di governo con la borghesia
liberale è esattamente il vecchio canovaccio novecentesco della
socialdemocrazia e dello stalinismo. Ma perché siamo dentro la lunga parabola
storica che ha attraversato il secolo passato e che il combinarsi della crisi
capitalistica e del crollo dell’Urss ha potentemente accelerato: quella per
cui i liberali diventano conservatori, i socialdemocratici diventano liberali, i
“comunisti” diventano socialdemocratici. Non solo non siamo alla
“Rifondazione”, cioè alla controtendenza, ma siamo l’ultima propaggine
della tendenza storica della sconfitta.
L'ALTERNATIVA AL PSE DEVE
ESSERE STRATEGICA. PER UN'ALTRA CASA SU ALTRE FONDAMENTA.
Ma se è così, la risposta
alternativa al progetto del Pse non può che essere strategica e complessiva.
La risposta non sta, come altri
vorrebbero, nell’“allargamento” del Pse a partiti comunisti
“ortodossi”, o in future ricomposizioni e più avanzati equilibri con forze
di estrema sinistra “movimentista”. E non perché questi allargamenti o
ricomposizioni siano impossibili: anzi sono possibilissimi, non essendovi dal
versante di quelle forze alcuna obiezione di principio e strategica alla
prospettiva politica del Pse. Ma perché il problema è esattamente opposto: non
l’allargamento del numero degli inquilini nella casa del Pse e sulle sue
fondamenta, ma la costruzione di un’altra casa su altre fondamenta. Fuor di
metafora, un altro progetto che rifiuti la prospettiva dell’alternanza e
rilanci un’alternativa socialista e rivoluzionaria alla crisi del capitale. Un
progetto che metta in discussione le basi materiali della borghesia europea a
partire dalla proprietà dei monopoli e delle banche; che rivendichi il potere
dei lavoratori contro le vecchie classi dirigenti; che riconduca ogni lotta
immediata a questa prospettiva di alternativa di potere. E che per questo
sancisca la propria autonomia e opposizione a tutti i governi borghesi.
Su queste basi è possibile e
necessario lavorare e occupare lo spazio liberato dalla crisi del riformismo,
lavorare ad aggregare l’avanguardia della classe operaia e dei movimenti di
lotta, lavorare ad aggregare tutte le forze e tendenze politiche
d’avanguardia, che al di là della loro provenienza e collocazione, siano
disponibili a convergere su un coerente programma anticapitalistico.
Su queste basi, e solo su
queste, si può costruire una prospettiva nuova: la rifondazione di
un’Internazionale comunista e rivoluzionaria, la rifondazione della IV
Internazionale. Non una piccola chiesa ideologica, ma una direzione alternativa
del movimento operaio e dei movimenti, condizione decisiva della loro vittoria.
E’ una prospettiva difficile, certo, ma è l’unica prospettiva reale:
l’unica che fa i conti col Novecento, che può rispondere alla nuova
generazione, che può lavorare per un futuro diverso della classe operaia e
dell’umanità.
Fuori da questa prospettiva, è
sicuramente tutto più semplice. Ma non c’è il “nuovo”. C’è solo
l’eterno ritorno delle pagine sconfitte: elettoralismi e furbizie
istituzionali e d’immagine, riformismi senza riforme, movimentismi senza
progetto e, soprattutto alla fine, ministeri e governi. Il tutto ogni volta
presentato come “merce nuova”. E in realtà ogni volta una merce
stravecchia.
MARCO REVELLI E LA MISTICA
DELLA NONVIOLENZA.
L’Italia è oggi la cartina
di tornasole di questa verità.
In Italia abbiamo oggi il
laboratorio più avanzato di costruzione e sperimentazione della prospettiva
d’alternanza perseguita dal Pse. E la stessa costruzione del Pse, di converso,
è anche in funzione della prospettiva perseguita dal Prc in Italia.
La particolarità del
laboratorio italiano, largamente segnata dall’effervescenza intellettuale di
Fausto Bertinotti, sta nel tentativo di avvolgere la prospettiva
dell’alternanza con la cortina fumogena di una confezione culturale e
filosofica che apparentemente sembrerebbe dislocare altrove la discussione e
l’attenzione ma che in realtà riveste un contenuto molto “terreno”. Come
del resto tante pietre filosofali nella storia.
Marco Revelli ci ha spiegato,
recentemente, nel noto convegno di Venezia, che il problema della Rifondazione
comunista è la scoperta del “Male”. Quel principio ontologico negativo che
perseguiterebbe l’umanità sin dai tempi delle sofferenze di Giobbe e a cui
Revelli dedica il suo ultimo libro “ispirato” (La morte della politica).
E qual è il Male, il segreto maligno dell’esperienza umana e della sua
dannazione? Revelli non ha dubbi: è la violenza. Un peccato universale, che sta
al di sopra delle classi e della loro lotta. E da dove nasce la violenza? Nasce
dalla brama del potere, anch’esso principio universale e metastorico, vera
maledizione dell’umanità. E poiché la rivoluzione d’Ottobre condensò
“violenza e potere” -un potere conquistato con la violenza, e una violenza
per difendere il potere- ecco che la rivoluzione d'Ottobre sarebbe la
reincarnazione del Male, e quindi il peccato originale del Novecento e del
comunismo.
In cosa consiste allora la
Rifondazione? Nell'estirpare la mala pianta del Male, quindi della violenza,
quindi del potere, dall'antropologia umana, e dunque nel ricomporre finalmente
la sospirata armonia tra "i mezzi e i fini".
Già altri compagni, prima
intervenuti, hanno dimostrato l'inconsistenza totale di questo pensiero, il suo
carattere idealistico e mistico, il suo risvolto potenzialmente reazionario. E
certo è triste pensare che dopo tredici anni di storia del Prc, in cui si è
sistematicamente rimosso ogni bilancio storico serio del Novecento, si proponga
come Rifondazione comunista la rilettura della filosofia cristiana e i più
banali luoghi comuni della Rerum Novarum.
Ma se proprio dovessimo
assumere come autentico questo confronto teorico con Marco Revelli, potremmo
ricorrere al mezzo abusato di una breve lettera, molto semplice ed esplicativa.
"Caro Revelli, noi che non
apparteniamo al mondo dello spirito, ma al mondo terreno e che vogliamo la
liberazione sociale in questo mondo e non in qualche terra promessa, noi
distinguiamo la violenza degli oppressi dalla violenza degli oppressori, il
potere dei lavoratori dal potere dei burocrati e dei padroni contro i
lavoratori.
Noi non siamo terrorizzati
dalla dittatura del proletariato, ma dalla dittatura quotidiana della borghesia
mondiale. Noi non siamo spaventati dalla forza liberatrice delle rivoluzioni ma
dall'abitudine alla pacifica sottomissione e rassegnazione alla violenza
infinita del capitalismo.
Per questo, lo confessiamo:
noi, comuni mortali, stiamo dalla parte dell’umanità peccatrice delle masse
oppresse ogni volta che levano la propria forza contro la violenza
dell’oppressione. Stiamo dalla parte del popolo palestinese, la cui domanda di
liberazione è inseparabile dalla rivoluzione. Stiamo dalla parte del popolo
irakeno e del suo diritto di sollevazione contro la violenza dell’occupazione
coloniale e militare, inclusa quella tricolore. Stiamo dalla parte dei minatori
boliviani che, ignari del nuovo vangelo della “nonviolenza” (e dei libri di
Revelli) hanno marciato sulla capitale con la dinamite e con i fucili Mauser,
hanno cacciato un governo filoimperialista, hanno segnato la situazione sociale
e politica boliviana con l’esperienza preziosa della propria autorganizzazione
e di un possibile potere alternativo.
E noi pensiamo più in
generale, caro Revelli, che la Rifondazione comunista ha un senso non se fustiga
nel nome della “morale eterna” i tentativi di liberazione delle masse
oppresse del mondo ma se offre loro un progetto cosciente e una direzione
alternativa che è condizione decisiva della loro emancipazione”.
PALAZZO D'INVERNO E PALAZZO
CHIGI: I MEZZI E I FINI NELL'IDEOLOGIA E NELLA POLITICA.
E tuttavia, detto questo, è
proprio il caso di dire che il problema è un altro, ed è politico. A
differenza di altre componenti del partito non accettiamo la finzione di una
“discussione filosofica separata” rispetto alla linea politica del partito e
alla sua prospettiva. Al contrario: vogliamo liberare da quella confezione
filosofica e “teologica” il suo contenuto politico reale. Che è semplice.
Cosa si cela sotto questa
“rivoluzione dello spirito” senza (e contro) la rivoluzione sociale?
L’accettazione della società esistente. Cosa si nasconde dietro il rifiuto
sdegnato della “conquista del potere” proletario? L’accettazione del
potere esistente. Di più: la richiesta di condivisione di questo potere.
Questo è il punto: si irride
alla conquista del palazzo d’Inverno perché si bussa alle porte di Palazzo
Chigi per un paio di ministri. Questo è il contenuto della nuova filosofia.
Se dovessimo interrogare la
svolta di governo di Fausto Bertinotti col metro di misura dell’etica formale
che lui stesso ci propone, quella della coerenza formale tra mezzi e fini,
emergerebbero alcune irriguardose curiosità: che coerenza c’è tra il nobile
afflato della “pace infinita” e un governo con i sostenitori e i complici
della missione coloniale in Irak? Che coerenza c’è tra l’assoluto rigore
filosofico della nonviolenza e un governo con i campioni dell’esercito
europeo, dei bombardamenti nei Balcani, dell’aumento delle spese militari, dei
campi di detenzione per gli immigrati?
Sarebbero sufficienti questi
interrogativi retorici per bucare il pallone della filosofia morale e riproporre
la questione sul terreno concreto della politica. E su questo terreno, e solo
questo, tutto acquista un senso e si ricompone -diamone atto a Bertinotti- la
stessa coerenza tra mezzi e fini.
Se il fine è fare del Prc
l’ala sinistra di questa società, non c’è mezzo migliore e più
sperimentato di una classica collocazione di governo. Se il fine è la garanzia
dello sbocco di governo, non c’è mezzo migliore che garantire la borghesia
circa il proprio senso di responsabilità, la propria misura; circa il fatto che
non interessa vincere, ma partecipare, che certo stiamo nei movimenti ma con una
funzione di calmiere, che siamo non già irreligiosi o atei, ma rispettosi
persino del Papa, che il comunismo cui ci riferiamo non è quello spettro
terribile e vetusto che attenta alla proprietà privata e allo Stato borghese ma
un’evocazione, un sentimento, una fede, come tale accettabile e persino
apprezzabile in qualsiasi salotto intellettuale “progressista”.
Questo è il messaggio vero del
nuovo corso e del nuovo abito: comunismo in cielo, ministri in terra. Un
programma inoffensivo per chi sta in alto, un comunismo da “oppio dei
popoli” per chi sta in basso.
Del resto: è un caso che tutta
la stampa borghese “illuminata” plauda apertamente alla svolta del Prc e vi
riconosca un segno complessivo? Così ad esempio Giuseppe Caldarola, illustre
portavoce dalemiano, descrive la svolta di Bertinotti sulle colonne del Messaggero:
“Con il ripudio della connessione tra comunismo e violenza, Bertinotti rompe
realmente col leninismo e realizza un’operazione di grande interesse. Non
siamo più di fronte a un partito antagonista. Non siamo più di fronte a un
partito incompatibile col governo, di cui temere e da cui guardarsi. Bertinotti
appare ormai realmente maturo per governare”. C’è bisogno di essere più
chiari?
IL PLAUSO DELLA BORGHESIA
ALLA SVOLTA DI GOVERNO DEL PRC.
La soddisfazione del
liberalismo borghese per la svolta del Prc è peraltro assolutamente
comprensibile. Non è solamente la soddisfazione culturale dell’anticomunismo.
E’ la soddisfazione di chi saluta nel nuovo corso del Prc un tassello prezioso
per la propria strategia politica: quella che punta a rimpiazzare Berlusconi con
la propria alternanza liberale, quella di ricomporre un nuovo e più stabile
assetto di rappresentanza della borghesia italiana.
Gramsci diceva: “I partiti
sono la nomenclatura delle classi”. Applichiamo dunque questa chiave di
lettura alla realtà italiana e la risultanza sarà chiarissima.
La grande borghesia vede nel
centro dell’Ulivo il suo principale punto di raccolta: parlo delle grandi
famiglie industriali che hanno puntato su Montezemolo, delle grandi banche del
Nord e del Centro (amiche di Parmalat), dei grandi corpi intermedi dello Stato.
E’ il blocco d’interessi
che ha governato l’Italia per oltre dieci anni che ha dettato il programma
d’azione dei suoi governi in ogni campo.
Questo blocco d’interessi ha
sempre considerato Berlusconi un parvenu, legato a interessi familistici
e di clan, inadatto a rappresentare l’interesse generale del capitalismo
italiano. E ora vuole sfruttare la crisi strutturale del berlusconismo per
recuperare il controllo sull’Italia, completare la realizzazione del proprio
programma sociale, politico, istituzionale, portare a compimento la transizione
alla Seconda Repubblica, con tutte le implicazioni del caso.
Ma per questa impresa ha
bisogno di alcune condizioni. Non solo recuperare la propria egemonia
sull’insieme della classe dominante (v. la riconquista della Confindustria);
non solo rifondare un proprio partito di centro, forte, dotato di vasto
insediamento e capace di garantire stabilità politica e istituzionale (v. il
progetto Prodi-D’Alema di unificazione del liberalismo italiano); ma anche di
ottenere l’integrazione subalterna, il coinvolgimento, la
corresponsabilizzazione di tutte le forze del movimento operaio dentro il
proprio blocco politico e sociale e sotto la propria egemonia. Perché questa è
la condizione decisiva per il recupero della concertazione e della pace sociale,
necessarie per la realizzazione di quel programma.
Da qui il pressing sulla Cgil e
il plauso convinto ad Epifani per il rilancio delle relazioni unitarie con Cisl
e Uil e della politica dei redditi. Da qui la proposta al Prc: non una proposta
di accordo elettorale tecnico per battere la destra, ma una proposta di governo
comune e vincolante per l'intera legislatura. Perché solo la stabilità
politica del futuro governo potrà consentire ai liberali di realizzare il
proprio programma antioperaio e antipopolare. E solo la cancellazione
dell'opposizione comunista può privare le classi subalterne di uno strumento di
liberazione e di lotta contro quel programma, favorendo demoralizzazione,
ripiegamento, resa.
Ma qui sta allora la gravità
estrema della svolta di governo del Prc. Non è un errore, per quanto grave, sul
terreno "dell'alternativa" (come si affannano a spiegare a Bertinotti
quei dirigenti di Erre che fino a ieri lo presentavano come un campione
della rivoluzione). E' il signorsì alla borghesia italiana. Di più: è
l'integrazione del Prc nello specifico disegno che la borghesia italiana
persegue contro il movimento e le lotte di questi anni.
IL PROGRAMMA ANTIOPERAIO DEL
CENTROSINISTRA E DI PRODI.
CACCIARE BERLUSCONI DAL
VERSANTE DEI LAVORATORI O DEI BANCHIERI?
Per questo la nostra
opposizione alla svolta del Prc parte dalla difesa del movimento operaio, delle
sue ragioni sociali, delle sue domande di svolta.
Se il movimento operaio, i
movimenti di lotta, le loro rappresentanze accettassero ancora una volta di fare
da sgabello dei liberali andrebbero incontro, ad una nuova, profonda, sconfitta
politica e sociale. Rivivrebbero il film già visto e subito negli anni Novanta:
una nuova stagione di regressione sociale, restrizioni, rinunce, sotto il rullo
compressore di una concertazione sindacale nuovamente stabilizzata e in un
quadro di pace sociale garantito dalla stessa assenza dell'opposizione.
Non solo sarebbe delusa la
domanda di "un altro mondo possibile" ma sarebbe soddisfatta la
domanda controriformatrice della grande industria, dei banchieri, di quel blocco
di interessi che ha investito e investe nel centrosinistra proprio in funzione
antioperaia e antioperaia.
Che questa sia la verità è
provato del resto dallo stesso programma "per l'Europa e per l'Italia"
che Romano Prodi ha recentemente presentato. E' curioso l'interrogativo diffuso
e problematico su "quale sarebbe il programma di un futuro governo
dell'Ulivo". Il programma è già pubblico. E’ scritto direttamente dalla
mano del candidato premier, che è al tempo stesso la massima autorità politica
di questa Europa imperialista. Ed è il programma formalmente posto come base
politica costitutiva del nuovo cosiddetto “soggetto politico riformista”
(Margherita, maggioranza Ds, Sdi) e della lista unitaria del triciclo che lo
prefigura, quale forza egemone della futura coalizione di governo.
Bene: credo che questo
programma andrebbe distribuito gratuitamente come “servizio di verità” in
tutte le riunioni di movimento e della sua avanguardia. Perché raccoglie tutte
le ragioni sociali, politiche, ideali contro cui si sono sviluppati i movimenti
di lotta di questi anni. “Allungamento della vita lavorativa”,
“occupazione flessibile”, “contrasto dell’immigrazione illegale”,
“rilancio di liberalizzazioni e privatizzazioni”, “politiche dentro il
mercato e non contro il mercato”, “aumento delle spese militari"... il
tutto in nome dell’Europa come “potenza” e del rilancio, in essa, del
capitalismo italiano.
Chiedo: questo programma è
“insensibile” ai movimenti e alle loro ragioni per “difetto d’ascolto”
e “insufficienza di confronto”? No. Lo è perché è il programma dei
banchieri contro i movimenti e le loro lotte. Questa è la semplice verità.
E del resto questo programma e
la prospettiva di centrosinistra sono talmente impermeabili ai movimenti, a
partire dalla propria radice materiale, che già oggi militano attivamente
contro i movimenti e contro l’opposizione di classe a Berlusconi.
Lo dico a quei compagni e
interlocutori che a volte affermano “Ora pensiamo a cacciare Berlusconi, poi
vedremo”. Cacciare Berlusconi è certo un compito importante. Ed anzi
rivendico il fatto che per primi e a lungo da soli abbiamo avanzato la parola
d’ordine della cacciata del governo quando tutti, a partire da Bertinotti, ci
dicevano che si trattava di una parola d’ordine “politicista” e
“velleitaria”. Ma il punto è: da quale versante sociale e di classe
cacciare Berlusconi? Dal versante dei lavoratori o dei banchieri? Perché se i
lavoratori si subordinano ai banchieri e alla loro rappresentanza politica
finiscono col compromettere non solo il proprio futuro, ma la stessa opposizione
a Berlusconi e a tutto vantaggio di Berlusconi.
IL CENTROSINISTRA BOICOTTA
L'OPPOSIZIONE DI MASSA A BERLUSCONI. A TUTTO VANTAGGIO DI BERLUSCONI.
Diamo uno sguardo d’insieme
alla dinamica dell’opposizione di massa di questi anni e poniamoci un
interrogativo.
Da tre anni, almeno, seppur
lungo un itinerario non lineare e contraddittorio, l’Italia è attraversata da
una forte tensione sociale e di movimento, e in ordine sparso si accumulano i
tasselli di una possibile esplosione sociale. La crisi del berlusconismo si
aggrava. Le basi di consenso delle politiche dominanti si restringono. Si
moltiplicano gli episodi di autentica ribellione, che rompono le regole del
gioco, investono diversi settori, si contagiano reciprocamente (autoferrotranvieri,
Scanzano, Alitalia, movimenti di lotta sul versante scuola…). Ed in
particolare ovunque si affaccia una giovane generazione, non usurata dalle
vecchie sconfitte, e carica di una forte energia combattiva. Il potenziale di
rivolta è tale che mai come oggi la stessa stampa borghese liberale e i circoli
dominanti discutono pubblicamente dei possibili rischi della radicalizzazione
sociale e della ingovernabilità dei conflitti. Domando: perché allora tutto
questo non precipita in un vero scontro generale? Perché non trova uno sbocco
concentrato, unitario, dirompente sul terreno di una autentica prova di forza
col governo, per di più nel momento della sua massima debolezza e
contraddizione interna?
La risposta è evidente: tutto
il quadro di centrosinistra, tutta la prospettiva di centrosinistra, milita
contro la radicalizzazione sociale dell’opposizione. Con mille ruoli diversi,
ma in una logica d’insieme.
Il centro liberale e i suoi
banchieri stanno semplicemente dall’altra parte della barricata. Altro che
chiedere loro un’“opposizione più incisiva” come fa Bertinotti! Essi
puntano direttamente sulla sconfitta sociale del movimento operaio. Come ha
detto De Benedetti riprendendo un vecchio concetto di Agnelli: “Se Berlusconi
perde perde da solo, se vince vince per tutti”. E in questo c’è un
elementare calcolo politico: “Se il movimento operaio viene oggi sconfitto, il
nostro futuro governo liberale potrà disporre di un rapporto di forza più
favorevole, potrà realizzare più agilmente il proprio programma e godere di un
maggiore margine di manovra, a fronte di masse demoralizzate e ripiegate. La
pace sociale sarà una conquista più semplice”.
Dal canto suo, tutta la
sinistra dell’Ulivo (apparato Cgil incluso) certo presente nei movimenti e
formalmente sostenitrice delle loro ragioni, non avanza né una piattaforma di
lotta unificante, né un’azione di lotta che sia minimamente all’altezza
dell’attacco governativo e delle stesse potenzialità dei movimenti. Non a
caso l’imminente sciopero generale di quattro ore ripropone la logica perdente
del gesto puramente simbolico e dimostrativo. E la piattaforma unitaria
Cgil-Cisl-Uil su cui viene convocato è talmente moderata da ricevere
l’apprezzamento pubblico dello stesso governo reazionario al quale è rivolta.
Perché questo accade? Solo per un astratto moderatismo sindacale? No. Accade
perché le prospettive politiche di governo di centrosinistra e di concertazione
col centrosinistra esigono la moderazione sociale. Se la prospettiva è fare la
sinistra del governo dei banchieri o la sua sponda sindacale e concertativa
allora ogni radicalizzazione di massa deve essere preclusa. Meglio ancora:
proprio la capacità di rimozione di ogni “rischio di insorgenza sociale”
-per usare le parole di Epifani- fonda la credibilità del centrosinistra agli
occhi delle classi dominanti, e della sinistra dell’Ulivo agli occhi del
centrosinistra.
Chi si avvale, in definitiva,
di questo gioco paralizzante? Silvio Berlusconi e il suo governo. Se oggi un
governo all’apice delle sue difficoltà e permanentemente a rischio di
esplosione delle sue contraddizioni interne, riesce non solo a sopravvivere ma a
continuare a colpire i lavoratori, le loro difese sociali, i loro diritti, ciò
avviene perché il centrosinistra disarma l’opposizione al governo privandola
di uno sbocco vincente.
PER L'AUTONOMIA DEL
MOVIMENTO OPERAIO. DEI MOVIMENTI DI MASSA. ROMPERE COL CENTRO LIBERALE
DELL'ULIVO.
Ecco allora il senso di fondo e
complessivo della nostra proposta alternativa. Le ragioni della lotta per
cacciare Berlusconi dal versante dei lavoratori sono inseparabili
dall’autonomia del movimento operaio e dei movimenti di massa e da un’altra
prospettiva politica.
Quando abbiamo posto -soli- la
questione di una vertenza generale unificante che leghi le ragioni sociali di un
blocco alternativo. Quando abbiamo posto -soli- il tema dell’unità di lotta
dei lavoratori di tutte le fabbriche in crisi che rompa l’isolamento
drammatico di tante comunità operaie, a partire dalla rivendicazione
dell’occupazione di quelle fabbriche e del loro esproprio. Quando abbiamo
posto -soli- la questione dello sciopero generale prolungato, che ponga fine
allo stanco rituale degli scioperi simbolici e di “calendario”, che raccolga
il potenziale enorme che emerge da tante lotte, che punti a rovesciare dal basso
i rapporti di forza fra le classi... Noi non abbiamo posto semplicemente “una
questione sindacale", né abbiamo semplicemente indicato una diversa
proposta d'azione del Prc nei movimenti (ciò che pure è essenziale). Noi
abbiamo posto e poniamo una questione politica di fondo a tutto il movimento
operaio, a tutti i movimenti, a tutte le forze che parlano in loro nome: quella
di rompere col centro liberale dell'Ulivo.
Perché questa è la condizione
necessaria per liberare il potenziale di lotta e di rivolta, impedire la sua
dispersione, estenderlo e unificarlo su una piattaforma di azione vera. Perché
questa è la condizione necessaria per consentire al movimento operaio e alla
sua giovane generazione di unificare le ragioni più ampie dell'insoddisfazione
popolare.
Perché questa è la condizione
necessaria per liberare dal basso una prospettiva nuova: quella di
un'alternativa vera, che sia all'altezza della profondità della crisi e delle
nuove domande di svolta.
L'ALTERNATIVA VERA: UN
GOVERNO DEI LAVORATORI.
"Alternativa": non c'è
parola più abusata e più vuota. A chi ci rimprovera di rivendicare la cacciata
di Berlusconi senza indicare l'"alternativa", chiediamo: alternativa
di chi, a cosa e per cosa? Alternativa di quale classe a quale classe? Perché
un'alternativa vera non può essere a braccetto con le classi dirigenti, può
essere solo contro di esse.
Il Pcd'I di Gramsci nacque
affermando che "non c'è alternativa in Italia fuori da un'alternativa
socialista". Così affermavano le tesi di Lione del 1926, sullo sfondo di
un capitalismo italiano ancora relativamente "straccione" e sotto il
tallone di ferro dal fascismo. Ottanta anni di storia italiana non hanno forse
confermato, seppure a negativo, questa verità?
E proprio oggi, qui e ora,
l'esperienza concreta e quotidiana del capitalismo e dello stesso capitalismo
italiano, dei suoi capitalisti, dei suoi banchieri, delle loro truffe, ripropone
la possibilità di popolarizzare e spiegare, in termini concreti, e non
"ideologici" l'attualità di un'alternativa socialista.
Altro che, "commissioni
parlamentari d'indagine" sul capitalismo italiano, per di più gentilmente
richieste al governo Berlusconi e a un parlamento da lui controllato, con tanto
di complimenti di Casini e della stampa borghese e dell'Ulivo!
Caro Bertinotti, l’indagine
sul capitalismo italiano è già svolta dai fatti di cronaca e dalla stessa
magistratura. E questa “indagine” ci dice che Parmalat e Cirio non sono mele
marce, ma la punta emergente di un iceberg immenso. Che quelle stesse classi
dirigenti che per trent’anni hanno chiesto ai lavoratori “sacrifici”,
“rispetto delle leggi” (magari antisciopero) e, naturalmente,
“nonviolenza” hanno vissuto sulla violenza della frode e del saccheggio,
nell’illegalità più diffusa. Che l’intreccio tra grandi famiglie
industriali e principali banche è organico e indistruttibile in un gioco
perpetuo di reciproche complicità e coperture. Che tutte le forze dominanti di
centrodestra e centrosinistra che si sono alternate nel governo dell’Italia
hanno protetto quel blocco d’interessi e ne hanno beneficiato sistematicamente
(come ci rivela persino l’interrogatorio di Callisto Tanzi, non a caso
secretato dai principali organi di stampa…).
Ecco: l’alternativa, quella
vera, è quella che dice: “Se ne vadano tutti”. E’ quella che mette mano
sulla legale associazione a delinquere che si chiama “capitale finanziario”.
E’ quella che rivendica la cacciata delle classi dirigenti e un governo dei
lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro forza e sulla loro
mobilitazione.
Questo è l’unico governo che
possa andare alla radice della crisi sociale e rispondere alle esigenze più
profonde delle masse. E proprio per questo è l’unico governo in cui possano
stare i comunisti.
Solo la lotta per questa
alternativa fonda l’autonomia dei comunisti e quindi la loro opposizione a
tutti i governi della borghesia. E viceversa: la rinuncia alla lotta per questa
alternativa significa, prima o poi, la stessa liquidazione dell’opposizione
comunista.
NON SI PUO' SCIOGLIERE
L'OPPOSIZIONE DI CLASSE E COMUNISTA.
E qui il nodo torna, in
conclusione, sul Prc, il rapporto con la sua storia e il suo destino.
La storia di questo partito non
è solo la storia dei suoi gruppi dirigenti, è anche la storia di un corpo
collettivo e di un rapporto sociale.
Per oltre dieci anni decine di
migliaia di compagni e di militanti sono stati sospinti verso questo partito
prima dallo scioglimento del Pci poi dalla deriva liberale della
socialdemocrazia Ds alla ricerca: di una risposta a quella deriva di
omologazione; di un’alternativa di riferimento; di un canale di espressione
indipendente capace di rompere con la lunga stagione dei compromessi storici e
con l’eterno doppio binario del partito di lotta e di governo.
Così, al di là del confine
del partito un settore sociale di avanguardia, di lavoratori, di giovani,
protagonisti di tante lotte, anche critici, e a più riprese, verso singole
scelte del partito, hanno ciclicamente ricercato un rapporto col Prc attratti
non da una coerenza che davvero non c’è stata e non c’è, ma da una
collocazione obiettiva di opposizione sociale, dalla ricerca in esso di una voce
indipendente, di una propria domanda e ragione sociale respinta e ignorata da
tutti gli altri partiti e dagli apparati burocratici del sindacato.
Oggi, la prospettiva politica
intrapresa verso un governo con l’Ulivo con tutta la sua accelerazione
impressionante, con tutta la deriva dell’impianto politico/culturale che
quella svolta trascina, colpisce nel profondo, come mai in passato, tutte le
migliori domande sociali e politiche che il Prc ha raccolto in più di dieci
anni.
Non è forse una realtà
verificabile già oggi?
Mentre tutta la stampa borghese
incoraggia la svolta di Bertinotti il corpo profondo del partito vive il più
acuto disorientamento della propria storia.
Ricordo tanti momenti di
contraddizione tra il sentimento del partito e il suo gruppo dirigente, ma lo
smarrimento che oggi si è prodotto non ha eguali. Perché migliaia di compagni
non vivono un’ordinaria divergenza politica, per quanto grave, ma la
sensazione di una prospettiva di liquidazione per di più subita e tanto più
inaccettabile.
Così, mentre tutta la stampa
borghese incoraggia Bertinotti e la sua svolta, un settore rilevante di
quell’avanguardia di lotta che nei movimenti ha costituito in questi anni di
opposizione una sponda naturale del partito entra in contrasto con la sua svolta
politica e culturale e con le sue prime ricadute: nel movimento operaio e
sindacale, nel movimento contro la guerra, nel movimento per la Palestina e
persino nel movimento noglobal.
Non è questo forse il primo
segno premonitore di quello che inevitabilmente accadrebbe se quella prospettiva
di governo dovesse realizzarsi?
PER IL CONGRESSO
STRAORDINARIO DEL PARTITO
Se quella prospettiva si
realizzasse, se davvero il nostro partito varcasse il Rubicone del governo, se
davvero si sciogliesse come forza d’opposizione, questo non sarebbe solo
obiettivamente un passaggio di campo (ciò che è l’essenziale), ma sarebbe
vissuto come tale soggettivamente dal settore più avanzato dell’avanguardia
politica e sociale che vi vedrebbe il segno di una separazione irreversibile
dalle proprie attese e domande. E avrebbe ragione.
Per questo l’esito di governo
va scongiurato.
Sarebbe la distruzione delle
ragioni sociali del partito.
Per questo abbiamo chiesto e
chiediamo al nostro partito, con tutta la forza di cui siamo capaci, di
fermarsi, di invertire la rotta intrapresa.
Di dare finalmente la parola
agli iscritti e ai militanti in un congresso straordinario libero e sovrano
perché il partito non è o non dovrebbe essere proprietà dei gruppi dirigenti
ma di tutti i militanti che hanno concorso a fondarlo, a costruirlo, a farlo
vivere e che hanno diritto di decidere del proprio futuro e non di apprenderlo
(come sinora è avvenuto) dalle interviste sulla stampa borghese.
E la grande ampiezza delle
firme raccolte per il congresso, ben al di là dei confini di Progetto
Comunista, ci dice quanto questa domanda elementare sia presente nel corpo vasto
del partito.
Su questa base continueremo la
nostra battaglia e andremo sino in fondo.
Non è la battaglia di Progetto
Comunista, di una componente che difende semplicemente il suo “spazio” o la
sua “coerenza”che pur rivendico.
E’ una battaglia che è e
vuole essere a disposizione di tutti i compagni, che al di là di ogni passata
collocazione congressuale vogliono salvare il proprio partito dalla distruzione
e rilanciare l’attualità di un progetto comunista coerente, quindi
rivoluzionario, quindi antistaliniano.
E questa battaglia cresce e
s’allargherà ancora non solo per la crescita soggettiva del nostro impegno
(che pur è essenziale) ma perché tutti i fatti che verranno da qui al 2006,
tutta la dinamica degli avvenimenti, confermeranno, giorno dopo giorno, le
nostre ragioni a una parte sempre più ampia di compagni.
LA NECESSITA' DELLA
RIFONDAZIONE RIVOLUZIONARIA.
La verifica dei risultati,
naturalmente, noi la faremo, tutti insieme, alla fine.
E proprio perché questa
battaglia non è la battaglia privata di una componente ma è in funzione del
movimento operaio, della sua avanguardia, il terreno della verifica non sarà né
l'ottenimento o meno del congresso straordinario, né i futuri equilibri
congressuali, ma la collocazione generale del partito, al bivio di classe della
prossima legislatura: o con i lavoratori, quindi all'opposizione, o con la
borghesia, quindi nel suo governo contro i lavoratori.
Questo è e sarà il discrimine
di fondo, lo spartiacque. E lo è esattamente perché esso riguarda non Progetto
Comunista ma il movimento operaio, l'avanguardia di classe e dei movimenti, la
loro rappresentazione politica.
Per quanto ci riguarda non
abbiamo altro da difendere che la coerenza della prospettiva per cui ci siamo
battuti, e per cui ci stiamo battendo.
Quando Bertinotti in una
recentissima intervista al Manifesto, già citata da altri compagni, ha
detto, "vorrei vedere in faccia qualcuno che al giorno d'oggi proponga un
partito marxista, magari con Lenin a riferimento", noi credo possiamo
rispondere insieme: "caro segretario, noi siamo qui, questa è la nostra
faccia. Questa è esattamente la nostra proposta e il nostro impegno: la
costruzione del partito della rivoluzione in Italia, in Europa, e nel
mondo."
E poiché noi non conosciamo
doppio binario tra evocazione ed azione, poiché noi non separiamo le parole
dalle cose, poiché la nostra etica, come diceva Trotsky parlando proprio di
Lenin, è "la tensione concentrata verso il fine", noi saremo coerenti
con quella proposta e quell'impegno.
Nessun governo della borghesia
italiana di centrodestra di centrosinistra sarà privato di un'opposizione di
classe e comunista.