CONGRESSO FIOM: IL DOCUMENTO ALTERNATIVO DELLA SINISTRA
Potete leggere qui sotto un testo elaborato da alcuni delegati della sinistra Fiom di Genova, Bologna e Venezia per la discussione del congresso della Fiom. Si tratta in realtà di un testo congressuale alternativo che -a causa di un regolamento scarsamente democratico- non viene riconosciuto come tale e sarà dunque presentato nei congressi di fabbrica come "emendamento" al documento Rinaldini-Cremaschi.
XXIII Congresso
della Fiom
Per un
sindacato di classe, democratico e combattivo
Premessa
Niente è più necessario per la Fiom di un congresso
che faccia un bilancio onesto delle lotte degli ultimi tre anni. Dal 2001 ad
oggi sono stati firmati due contratti nazionali sulla testa dei lavoratori che
correttamente la Fiom non ha sottoscritto, ma che allo stesso tempo non è stata
in grado di contrastare.
E’ opinione di chi scrive che l’insuccesso del
nostro sindacato nel tutelare gli interessi dei lavoratori sia più il frutto di
una politica sbagliata dei dirigenti sindacali (senza fare distinzioni tra
Nencini, Naldi, Rinaldini e Cremaschi) che il risultato di una presunta
indisponibilità dei lavoratori a condurre la mobilitazione.
Un regolamento congressuale estremamente restrittivo
(e in definitiva poco democratico) impedisce che il contributo scritto che segue
possa essere la base di un terzo documento in discussione al congresso della
Fiom.
Per presentarlo sarebbe stata necessaria la firma di
5 membri del Comitato Centrale mentre a sostenerlo nel CC c’è un solo
compagno. A sottoscriverlo però ci sono diversi delegati che il 2 marzo si sono
riuniti a Bologna e che hanno sottoposto il loro punto di vista alla riunione
nazionale della sinistra Fiom del 3 marzo.
Alla riunione di Cambiare Rotta abbiamo insistito
sulla necessità di presentare un documento autonomo della sinistra, alternativo
a Rinaldini a Nencini, ma le nostre posizioni sono state sostanzialmente
respinte da Cremaschi e Breda, i quali hanno insistito sulla opportunità di
“condizionare a sinistra” la Fiom sostenendo un’alleanza con Rinaldini.
La realtà è che Rinaldini è stato condizionato non
da sinistra, ma da destra. Lo dimostra il fatto che ha accettato 21 dei 22
emendamenti presentati dai dirigenti Fiom dell’Emilia-Romagna (Zanasi, Naldi
– segretario regionale – ecc.); chiunque abbia vissuto da vicino la gestione
che questi hanno dato alle mobilitazioni sa bene che si tratta dei principali
responsabili dell’impantanamento della lotta proprio in una regione dove
questa stava manifestando una forte spinta dalla base.
La realtà che ciascun attivista può riconoscere è
che negli ultimi anni la sinistra della Fiom è diventata sempre più
impalpabile agli occhi dei lavoratori ed esiste solo come entità burocratica
che occupa poltrone, ma non ha alcuna capacità di iniziativa reale.
Per Cambiare rotta, il sostegno al documento di
Rinaldini è solo un passo ulteriore verso l’abisso, per un’area che sta
perdendo ogni contatto con le lotte reali che pure si stanno sviluppando in ogni
angolo del paese. Non un contratto, non una vertenza, non un accordo, non una
lotta negli ultimi anni ha visto gli esponenti nazionali di Cambiare Rotta
distinguersi dagli altri dirigenti della Cgil.
Invece di dare risposte precise ai problemi brucianti
e irrisolti in questi due anni, nei documenti si spazia sui temi più svariati
per poi approdare all’ennesima riproposizione di politiche concertative. La
differenza è solo nelle dosi: mentre Nencini la minestra concertativa vuole
farcela ingoiare tutta assieme candidandosi ad essere il principale referente di
Epifani, Rinaldini vuole somministrarcela in piccole quantità. Ma la direzione
di marcia è la stessa.
Il documento che presentiamo non parla di Tobin Tax;
movimento no global, scuola, servizi sociali, Europa, Palestina,
americanizzazione, ecc… non perchè non consideriamo importante sottolineare
il nostro punto di vista anche su questi argomenti, ma perchè riteniamo giusto
concentrarci sulle questioni decisive che riguardano le lotte operaie in questa
fase storica e la strategia necessaria per battere l’offensiva del padronato e
del governo contro il lavoro salariato, i pensionati, i disoccupati e tutti i
settori oppressi in questa società.
È nostra intenzione batterci per un sindacato basato
sulla democrazia operaia, combattivo e con una politica di classe.
Riappropriarci come lavoratori del nostro sindacato è una necessità non più
rinviabile. Il nucleo originario dei compagni che sostengono questo documento è
lo stesso che, assieme ad altri, si è reso protagonista quest’autunno nella
vertenza dei precontratti, che, tra l’altro, ha visto la formazione del
Coordinamento dei delegati in lotta nella città di Modena, e l’esemplare
mobilitazione di Fincantieri.
Siamo tra quelli che il ministro Giovanardi ha
chiamato in causa in un’interpellanza parlamentare con l’accusa di
“sabotaggio e di non rispettare la democrazia nelle fabbriche”.
Chi è stato protagonista di lotte così radicali
come quelle di quest’autunno non può tollerare un congresso “blindato”
come quello che si annuncia, dove i lavoratori sono completamente espropriati da
una discussione realmente democratica.
Per questa ragione presentiamo un testo che pur
presentandosi a tutti gli effetti come un documento alternativo sarà
formalmente presentato nei congressi di fabbrica come un emendamento al
documento Rinaldini-Cremaschi, essendo questa l’unica via consentita dal
regolamento congressuale.
Emendamento al
documento Rinaldini-Cremaschi
La rottura della concertazione
È utile ricordare che gli accordi di luglio,
che hanno determinato in 10 anni un calo dei salari del 15% e un peggioramento
sostanziale dei diritti dei lavoratori, si sono incrinati per volontà della
Confindustria che ha deciso di calpestarli non concedendo neanche gli aumenti
calcolati sull’inflazione programmata.
La “svolta” impressa da Cofferati due anni fa, più
che rompere la concertazione si proponeva di recuperarla in un contesto in cui
governo e padronato hanno deciso di non concordare con il sindacato gli attacchi
al movimento operaio.
Il nuovo quadro politico (con l’elezione del
governo Berlusconi), le aspirazioni politiche di Cofferati e le pressioni che
venivano dal basso sono stati ulteriori elementi che hanno spinto il gruppo
dirigente della Cgil ad organizzare i grandi scioperi e le manifestazioni del
2002.
A quelle lotte non è stata data continuità
e il quadro sindacale sta retrocedendo in maniera preoccupante come dimostrano
le recenti prese di posizione di Guglielmo Epifani (non ultimo il sostegno dato
dal segretario della Cgil ai dirigenti della Filt firmatari dell’accordo
bidone nella vertenza degli autoferrotranvieri).
Cofferati ha prima scaldato le polveri per poi
bagnare le miccie, ma le ragioni che hanno spinto milioni di lavoratori a
partecipare alle grandi mobilitazioni del 2002 sono le stesse che dopo un breve
momento di pausa e disorientamento hanno visto il conflitto di classe riprendere
quest’autunno con ancor più radicalità.
Il grado di durezza e di spontaneità mostrato dagli
scioperi dei metalmeccanici (soprattutto in Emilia), quelli degli
autoferrotranvieri, dei pompieri, dei lavoratori dell’Alitalia, le lotte di
Scanzano, Termini Imerese e Terni, di Genova e tante altre, dimostrano che siamo
entrati in una nuova epoca. Le mobilitazioni operaie non si sviluppano più
nell’isolamento totale (come sono state per certi versi quelle degli anni
’90), ma godono del sostegno aperto e militante di milioni di persone che
manifestano a fianco degli operai a difesa delle proprie realtà produttive e
del proprio territorio.
La classe lavoratrice torna ad avere un ruolo
egemonico come avveniva un tempo, un sindacato operaio per eccellenza qual è la
Fiom, non può essere insensibile a questi sviluppi, ma deve invece metterli al
centro della propria analisi discutendo le forme più adeguate non solo per
sostenere queste mobilitazioni.
La realtà è che i conti di questa mobilitazione non
tornano. Le decisioni prese e ribadite in più occasioni nel Comitato centrale
(generalizzare la lotta) sono state rese lettera morta da un apparato che per
troppi anni si è abituato a cercare la legittimazione non presso i lavoratori,
ma presso la controparte, che ha sempre concepito la propria funzione come
quella di sedersi alla prima occasione per firmare a prescindere dai contenuti,
che vede con fastidio la mobilitazione dei lavoratori, soprattutto quando questa
assume forme radicali. Dove la lotta si è spinta più avanti, il ruolo dei
gruppi dirigenti si è limitato, nel migliore dei casi, a prendere atto delle
iniziative dei delegati e dei lavoratori, per poi far ripiegare tutto alla prima
occasione. Nella maggior parte dei casi, invece, i gruppi dirigenti non hanno
neppure preso in seria considerazione la necessità di avviare le mobilitazioni.
Il significato di questo congresso deve essere quindi anche quello di rompere con queste logiche e attingere dai militanti più avanzati che si sono posti in prima linea nella lotta per trasformare un sindacato sempre più impantanato nelle pastoie burocratiche.
La crisi industriale
La crescente competizione nei mercati internazionali
e la stagnazione di lungo periodo in cui è entrata l’economia mondiale dopo
lo scoppio della bolla finanziaria a Wall Street sta determinando una crisi
industriale che investe il futuro di centinaia di migliaia di lavoratori.
Il capitalismo italiano da tempo ha perso una
presenza significativa nella chimica, nella farmaceutica, nell’informatica,
nell’automazione e sembra essere caduto in una vera e propria voragine che nel
giro di poche settimane ha prodotto un susseguirsi di crisi senza precedenti:
Fiat Avio, Alitalia, Cirio, Parmalat, Yomo, acciaierie di Terni (Thyssen Krupp),
Genova e Taranto (Ilva), Finmatica sono solo i casi più noti, ma altre crisi
aziendali comportano esuberi, mobilità e Cassa Integrazione come nel caso di
Ferrania, Marzotto, Finmek, Alcatel, Montefibre, Cesame, Calabrese
Metalmeccanica, i Nuovi Cantieri Apuani, il settore tessile della Calabria, il
polo chimico, la cantieristica.
Queste situazioni si sommano a quelle che si sono
prodotte nel 2002-2003: 21mila posti di lavoro persi nel 2003 rispetto al 2002,
le ore lavorate nella grande industria sono diminuite dello 0,7%. Il ricorso
alla cassa integrazione straordinaria è cresciuto in maniera preoccupante del
76%, toccando punte del 330% in Piemonte, del 230% in Sicilia ed Abruzzo e del
130% in Molise.
La ragione ultima per cui il processo economico
assume queste caratteristiche sta nel fatto che, sotto il capitalismo, la
domanda non segue la produzione. I capitalisti non riescono a vendere tutto
quello che producono. A seguito di ciò incomincia in alcuni settori un
decremento della produzione industriale che poi si generalizza. Siamo di fronte
a una classica crisi di sovrapproduzione che è insita nel sistema capitalistico
e che non è possibile contrastare con le classiche politiche keynesiane di
investimento pubblico per l’enorme quantità di debiti accumulati dagli Stati,
oltre che dalle banche, le aziende e i privati.
Per ristabilire l’equilibrio economico e proteggere
i loro profitti, i padroni avviano le ristrutturazioni e il governo Berlusconi
favorisce questo obiettivo con le proprie politiche che tentano di scaricare la
crisi sui ceti più deboli, in gran parte riuscendoci. L’esperienza del
1996-2001 ci ricorda che i lavoratori non possono aspettarsi di meglio da un
governo di centrosinista.
Dove si sono fatte delle conquiste e ci sono stati
dei miglioramenti questi sono stati il frutto esclusivo delle mobilitazioni e
della radicalità mostrata dai lavoratori.
Mai come in questo momento di crisi economica e
industriale è stato così evidente che il compito del sindacato non può essere
quello di promuovere delle linee di sviluppo “alternative” interne alla
logica capitalistica.
I capitalisti si muovono sul mercato mondiale alla
tutela dei propri interessi, e non sono certo disposti a tollerare vincoli di
sorta.
Un sindacato di classe non deve immaginare un
capitalismo dal volto umano, ma deve tutelare gli interessi dei lavoratori
sempre e comunque, prescindendo dalle cosiddette compatibilità che impone il
mercato.
Al di fuori di questo la politica sindacale non può
essere altro che la collaborazione con la controparte per peggiorare le
condizioni di vita dei lavoratori particolarmente in un contesto di declino
economico.
Il contratto del 2001 e del 2003
Nel 2001 il gruppo diritente della Fiom ha reagito in
maniera assolutamente insufficiente all’accordo capestro firmato da
Federmeccanica con Fim e Uilm. Ha convocato uno sciopero il 6 giugno 2001, ha
portato oltre 50mila lavoratori alla grande manifestazione di Genova e ha poi
aspettato cinque mesi per convocare un nuovo sciopero generale! Il tutto per una
piattaforma che prevedeva solo 18mila lire di aumento rispetto all’accordo
firmato, quando la vera posta in gioco era il futuro stesso del Contratto
nazionale.
La determinazione mostrata dai lavoratori è stata
frustrata da una direzione sindacale esitante, incerta e inadeguata. Il sostegno
dei lavoratori era amplissimo e la possibilità di inasprire la mobilitazioni
c’era, fino al punto che sono state raccolte 350mila firme contro l’accordo
capestro.
Ma la direzione della Fiom l’ha lasciata cadere e
le mobilitazioni in difesa dell’articolo 18 anziché essere un’occasione per
rilanciare su scala più ampia la lotta per il Contratto nazionale, l’hanno di
fatto oscurata e fatta passare nel dimenticatoio.
Se possibile la linea sindacale nel contratto del
2003 è stata anche peggiore. Dopo la firma separata e uno sciopero generale
convocato il 16 maggio, la Fiom ha proposto la linea dei precontratti.
Il gruppo dirigente della Fiom proponeva di
riconquistare il contratto fabbrica per fabbrica, “disarticolando” il fronte
avversario.
Invece di basarsi sull’unità dei lavoratori,
l’unico terreno su cui era possibile vincere la battaglia, si sono spinte
alcune piccole e medie imprese (soprattutto dell’Emilia e della Toscana) dove
la Fiom poteva contare su un radicamento maggiore, per mandandole allo sbaraglio
in ordine sparso con lotte di tipo aziendale.
Se è vero che circa 100mila lavoratori (oltre 500
aziende) hanno ottenuto un qualche tipo di precontratto, è anche vero che oltre
un milione e mezzo di lavoratori sono rimasti senza accordo e senza una
prospettiva a breve termine.
A quasi un anno di distanza da quella scelta, quindi,
i conti non tornano affatto, ma di questo il gruppo dirigente non ha alcuna
intenzione di parlare, rifiutandosi di riconoscere la sconfitta subita.
Quello che fin dall’inizio era un pericolo di
“aziendalizzazione” delle lotte, e dunque di divisione del nostro fronte,
anziché di quello padronale, è divenuto realtà. Come se ciò non bastasse
alla fine di gennaio la direzione della Fiom ha scelto di passare dalla lotta
sui precontratti a quella dei contratti integrativi, minando definitivamente
ogni prospettiva di riconquista del contratto nazionale. Accordi sottoscritti
anche da Fim e Uilm, che si configuravano come semplici accordi integrativi
aziendali del tutto separati dalla lotta per il CCNL e che facevano anche
aperture sulla legge 30, venivano additati come esempio da seguire per tutta la
Fiom (ad esempio la Ducati Motor di Bologna). Si è trattato di un abbandono in
sordina e senza dichiararlo della linea precedente.
Quale piattaforma?
È chiaro che la difesa degli interessi dei
lavoratori ha come primo presupposto che le rivendicazioni possano migliorare
significativamente le nostre condizioni di vita. Se una piattaforma è modesta
in partenza questo inevitabilmente condizionerà anche l’ambiente tra i
lavoratori al momento di decidere come e con quanta determinazione lottare per
difenderla. I tre punti fondamentali della nostra piattaforma non possono che
riguardare il salario, la lotta al precariato e la democrazia sindacale.
A tale proposito bisogna ricordare che proprio nel
dicembre di quest’anno scade il biennio economico del contratto dei
metalmeccanici e già in autunno saremo chiamati ad esprimerci su una nuova
piattaforma salariale. Quale occasione migliore di questo congresso per fissare
i criteri fondamentali su cui basare le nostre richieste per il futuro?
La formulazione di una nuova richiesta di aumento
basata unicamente su una generica rivendicazione di aumenti legati al “vero
andamento dell’inflazione e della ricchezza complessiva del paese”, non
rappresenta una rottura con la tanto deprecata politica dei redditi che si dice
di voler abbandonare.
Di fronte a una decurtazione impressionante del
potere d’acquisto dei salari, che sono stati falcidiati ancor più
dall’introduzione dell’euro e di un corrispondente aumento dei prezzi, è
indispensabile rivendicare un significativo aumento dei salari.
La Fiom deve partire da una proposta di aumenti
salariali consistenti e uguali per tutti, che tengano conto che nella busta paga
media mancano qualcosa come 300 euro mensili. Secondo i dati pubblicati un anno
fa dalla Banca europea i salari italiani sono il 17% al di sotto della media
europea e il 43% al di sotto dei salari tedeschi.
Occorre inoltre garantire il potere d’acquisto
dell’intero salario contrattato attraverso un meccanismo di adeguamento
automatico all’inflazione reale con rivalutazioni trimestrali, la scala
mobile.
Se vogliamo difendere il contratto nazionale dobbiamo
smetterla di delegare ai contratti di secondo livello quanto non viene
riconosciuto nelle vertenze nazionali. I contratti integrativi hanno un altro
ruolo, tanto più che tra i metalmeccanici solo un terzo dei lavoratori è
coperto dagli integrativi mentre la maggior parte della categoria è tutelata
esclusivamente dal contratto nazionale, che deve pertanto contenere tutte le
garanzie essenziali sia salariali che sul piano dei diritti.
Rivendichiamo la quattordicesima mensilità per
tutti.
Contro il dilagare del precariato la Fiom deve
promuovere una campagna per lanciare un’offensiva contro la legge 30 e le
precedenti leggi sulla “flessibilità del mercato del lavoro” (includendo il
pacchetto Treu sciaguratamente sostenuto anche dalle sinistre presenti nel
governo Prodi). Non possiamo contrattare su questo terreno le percentuali di
contratti temporanei o entrare nella logica dei “paletti”. Rivendichiamo la
trasformazione immediata di tutti i contratti precari in contratti a tempo
indeterminato. A parità di mansione, parità di salario e stessi diritti.
La Fiom, in qualità di principale sindacato
industriale e contro ogni logica corporativa, ha il dovere di rivolgersi con una
propria proposta all’esercito di lavoratori precari che ormai si contano a
milioni e che non sono protetti da alcun contratto nazionale. Per un dovere di
solidarietà da una parte ma anche perché questo è funzionale alla formazione
di un fronte articolato di lotta per la difesa della dignità del lavoro.
Rivendichiamo a questo proposito un salario minimo
intercategoriale di 900 euro netti indicizzati.
La produttività del lavoro è enormemente aumentata
negli ultimi anni ed è dal contratto del 1969 (dunque 35 anni fa) che non c’è
una significativa riduzione dell’orario di lavoro. Questo è un fattore che
sommato ad altri (delocalizzazione, crisi industriale, abuso degli straordinari,
ecc.) produce una disoccupazione dilagante con una situazione che è diventata
particolarmente insopportabile al Sud Italia dove siamo tornati a una situazione
di emigrazione simile a quella degli anni ’50 e ‘60.
C’è un esercito di potenziali lavoratori che
restano a casa, mentre in alcune fabbriche si arriva a lavorare anche 60 ore
alla settimana e i part-time si trasformano in lavoratori a tempo pieno a tutti
gli effetti.
Proponiamo la riduzione a 35 ore a parità di
salario, (32 per i turnisti) senza scambi di flessibilità di nessun genere.
Se in generale è peggiorata la condizione dei
lavoratori di questo paese ancora peggio è la situazione per quanto riguarda le
lavoratrici che spesso si ritrovano dopo aver staccato in fabbrica a svolgere a
casa il “secondo turno” di lavoro domestico. Non può essere insensibile a
questo problema la Fiom che organizza quelle lavoratrici e lavoratori che sono
sottoposti ai lavori più logoranti. La questione femminile non può essere
risolta ipocritamente dal sindacato introducendo le quote negli organismi
dirigenti. Questo può forse “migliorare la condizione” delle nostre
funzionarie ma non quella delle lavoratrici.
La Fiom deve aprire una grande discussione rispetto
alla condizione femminile in fabbrica a partire dalla proibizione del lavoro
notturno per le donne e garantendo la maternità con uno stipendio pieno per
almeno 9 mesi (tre prima e sei dopo il parto) e la garanzia del mantenimento del
posto di lavoro e serie forme di tutela specifica delle lavoratrici.
L’introduzione dei fondi pensione integrativi si è
dimostrata un inganno. Il fondo Cometa è in perdita e vista l’estrema
instabilità dei mercati finanziari è destinato a lasciare i lavoratori
nell’incertezza più assoluta. Ricordiamo che nei vari crack finanziari, dalla
Enron in poi, spesso sono proprio i fondi pensione a perdere somme
considerevoli.
La vecchiaia dei lavoratori deve essere garantita,
pertanto la Fiom mentre si batte nel movimento più generale in difesa di
pensioni pubbliche dignitose reintroducendo il 35x2 su 5 (in pensione dopo 35
anni col 2% di rendimento annuo calcolato sugli ultimi 5 anni di lavoro) propone
ai lavoratori l’uscita dal fondo Cometa (su base volontaria ovviamente) e
restituzione dei soldi ai lavoratori. Si batte contro i tentativi di sottrarre
il Tfr ai lavoratori per gettarlo nelle mani della speculazione finanziaria
legata alle pensioni intergrative.
Infine si pone il problema delle proposte sindacali
di fronte alle crisi aziendali, alle chiusure di imprese che come si diceva si
moltiplicano a vista d’occhio. Se cala la produzione non possiamo accettare,
come fanno i vertici sindacali, che il problema si risolva con la cassa
integrazione, con la mobilità incentivata o coi contratti di solidarietà
(contratti che prevedono una diminuzione dell’orario di lavoro ma anche del
salario) strumenti anticamera dell’espulsione dalla produzione, che tolgono
dignità ai lavoratori e che li costringono a vivere nell’incertezza con
salari da miseria.
Per le aziende che denunciano lo stato di crisi e la
chiusura, se la lotta non porta a garanzie soddisfacenti per i lavoratori,
l’unica risposta che può avanzare il movimento operaio è la
nazionalizzazione sotto il controllo operaio. Se i padroni vogliono
disimpegnarsi, che lo facciano, ma le fabbriche devono continuare a produrre
tanto più che per anni hanno usufruito di forti incentivi statali. Nel caso
della Fiat, per esempio, lo Stato ha dato così tanti soldi a fondo perduto alla
famiglia Agnelli da pagarne più volte il suo valore. Per non parlare di aziende
come l’Ilva, svendute per quattro soldi ai vari Riva e Thyssen, che oggi
minacciano di cancellare migliaia di posti di lavoro.
Se queste aziende venissero espropriate, questo non
sarebbe certo un furto ma una semplice restituzione del maltolto. Sarebbe
inoltre l’unica via per garantire il futuro della produzione e dei lavoratori.
Il coordinamento democratico e la
democrazia sindacale
La democrazia sindacale, è uno dei punti su cui,
giustamente, la Fiom sta più insistendo in questa fase, proponendo un maggiore
coinvolgimento della base. Tutto ciò è senz’altro un passo avanti rispetto a
quanto difeso da Cisl e Uil ma su questo argomento dobbiamo essere precisi coi
lavoratori.
Per garantire una partecipazione attiva e un
controllo realmente democratico da parte dei lavoratori verso il proprio
sindacato è necessario in ogni vertenza costituire un coordinamento di delegati
di trattativa eletti in tutti i luoghi di lavoro e a tutti i livelli (di zona,
provinciale, regionale e nazionale) che siano responsabili di definire la
piattaforma e che abbiano il mandato nella gestione della vertenza. I delegati
verranno eletti in fabbrica e saranno revocabili dall’istanza che li ha
eletti, in qualsiasi momento della vertenza. Sarà l’assemblea nazionale dei
delegati di trattativa a scegliere la commissione trattante con Federmeccanica.
I segretari dei sindacati di categoria affiancheranno la commissione nella
trattativa ma sarà quest’ultima ad avere l’ultima parola su un eventuale
accordo che poi andrà ratificato nell’assemblea nazionale dei delegati. Il
mandato dei delegati cesserà con la chiusura del contratto e a quel punto si
farà un referendum tra tutti i lavoratori per verificare il loro consenso
all’accordo.
Molti delegati sono stati eletti in un contesto
sociale estremamente differente da quello attuale. Come si è visto in questi
mesi, la dove tra i metalmeccanici si sono rinnovate le Rsu, spesso la Fiom ha
aumentato i suoi voti e il numero di delegati a scapito di Fim e Uilm, questo lo
si deve alla maggiore disponibilità mostrata sul piano del conflitto contro i
padroni.
Il rinnovo generalizzato delle Rsu è un obiettivo
strategico della Fiom, come l’abolizione del terzo garantito per Cgil-Cisl e
Uil.
Si pone infine il problema del controllo
sull’operato dei dirigenti sindacali. La Fiom deve essere esemplare da questo
punto di vista introducendo un nuovo criterio antiburocratico.
I funzionari sindacali assegnati a una determinata
realtà dovranno non solo ricevere il gradimento dei lavoratori (attraverso un
voto) ma dovranno sottoporre al voto qualsiasi accordo viene firmato con
l’azienda.
Per togliere ogni forma di privilegio la Fiom legherà
i salari dei funzionari al contratto di riferimento della propria categoria.
Questo significa che nessun funzionario, a nessun livello, riceverà un salario
superiore a un lavoratore specializzato (diciamo un metalmeccanico di 5°
livello).
Queste misure antiburocratiche assolutamente
elementari dovrebbero essere appoggiate entusiasticamente da qualsiasi dirigente
voglia battersi realmente per un autentico regime di democrazia sindacale.
Le forme di lotta
L’unica arma che hanno i lavoratori per difendersi
dai soprusi padronali è quella dello sciopero. Ma perché questo strumento sia
efficace è necessario inserire le mobilitazioni in una strategia che punti a
colpire la controparte nei suoi punti deboli.
I lavoratori sono stanchi di scioperi testimoniali e
rituali (una manifestazione oggi, uno sciopero di 4 ore dopo tre mesi, un
presidio tra due, ecc.). Scioperi così modulati sono assolutamente inutili,
vengono proclamati con largo preavviso e il padrone si organizza e il danno che
ne subisce è quasi nullo; anzi, in qualche caso ci guadagna pure (riesce a far
produrre ugualmente il necessario e non paga i lavoratori durante lo sciopero).
Questo non significa che il sindacato non debba
convocare scioperi generali (al contrario deve prolungarne la durata convocando
scioperi di 24, 48, 72 ore secondo le esigenze del momento) ma questi scioperi
generali devono inserirsi in un contesto di mobilitazioni che mirano ad
analizzare il ciclo produttivo in ogni fabbrica per colpire lì dove fa più
male.
Queste forme di lotta più radicali possono emergere
con forza solo se c’è un coinvolgimento più ampio da parte dei lavoratori
nella gestione delle vertenze.
La via da seguire è quella degli “scioperi
selvaggi” (come li chiama la borghesia) utilizzati efficacemente nella
vertenza degli autoferrotranvieri e nelle lotte metalmeccaniche di
quest’autunno.
Non esiste una forma di sciopero che di per se è più
radicale delle altre e che possa garantire la vittoria. La storia del movimento
operaio insegna (si pensi ad esempio alla lotta dei minatori inglesi nell’84)
che anche uno sciopero ad oltranza può essere sconfitto se c’è una direzione
inadeguata.
In certe situazioni sono più efficaci gli scioperi
prolungati, in altre quelli a singhiozzo o scacchiera. Ma la questione decisiva
è la determinazione con cui ci si prefigge di ottenere l’obiettivo. Questa
determinazione non manca certo ai lavoratori, ma certamente è mancata più
volte ai dirigenti, come si è visto quest’autunno nella vertenza dei
precontratti.
Una lotta ha poi il problema dei rapporti che riesce
a stabilire con la popolazione e con il proprio territorio. Spesso i padroni
cercano di isolare le mobilitazioni operaie ed è fondamentale quindi per i
lavoratori in sciopero stabilire un contatto diretto con la cittadinanza con
presidi e volantinaggi che si propongano di costruire solidarietà attorno alle
lotte operaie, una solidarietà politica ma anche materiale (raccogliendo fondi
per sostenere i lavoratori in lotta).
Uno strumento come quello delle casse di resistenza
è certamente fondamentale.
La Fiom da tempo ha approvato la costituzione di
queste casse, ma la cosa è rimasta finora solo sulla carta.
Se durante la lotta alla Fiat o nella vertenza dei
precontratti si fosse organizzata una sottoscrizione tra tutti i metalmeccanici
ci sarebbe stata una risposta entusiastica se i lavoratori avessero visto una
reale determinazione da parte dei dirigenti sindacali ad andare fino in fondo.
Dopo un lungo periodo (negli anni ’80 e ’90) in
cui sembrava che la lotta non portava a nessun risultato nell’ultimo periodo
si stanno traendo conclusioni diverse. Da Terni a Scanzano, da Buenos Aires a La
Paz (per guardare il quadro internazionale) la radicalità della lotta paga e si
può cominciare a vincere.
Conclusioni
In un contesto di crisi mondiale del capitalismo, con
la crescita esponenziale dei conflitti militari e la crescita del conflitto di
classe in ogni angolo del pianeta, la Fiom non può mantenersi nella stessa
logica gradualista e concertativa che l’ha guidata negli ultimi 20 anni e che
ha fatto arretrare disastrosamente i metalmeccanici e tutti i lavoratori.
E’ necessaria una rottura con la logica degli
accordi di luglio e con la politica di collaborazione di classe.
Quello di cui hanno bisogno oggi i lavoratori è di
un sindacato combattivo che convochi gli scioperi con serietà mantenendosi
coerente con le istanze che rappresenta.
Se accettiamo la logica delle compatibilità, ci
troveremo su un asse inclinato sul quale non potremo far altro che accordare un
peggioramento continuo delle condizioni di vita dei lavoratori.
In una logica di competizione con le altre economie
sul piano dei salari, dei diritti, della flessibilità si può finire solo nel
baratro.
Se il capitalismo non è in grado di soddisfare i
bisogni vitali dei lavoratori si faccia da parte come sistema. In Argentina
circa 200 fabbriche producono senza padroni e sotto il controllo dei lavoratori.
Se i lavoratori non le avessero prese sarebbero state chiuse mentre invece in
questo modo producono e creano lavoro. Un altro mondo è possibile, un mondo
dove la produzione non sia finalizzata ai profitti di una minoranza di parassiti
(si veda l’esperienza Parmalat al riguardo) ma alla soddisfazione dei bisogni
primari della popolazione.
Ne consegue che la Fiom se vuole difendere
coerentemente gli interessi dei lavoratori che rappresenta deve non solo rompere
con la politica della concertazione ma anche battersi per una società più
giusta, più equa e dunque per definizione per una società non capitalista.
Se non ci si muove all’interno di questo quadro
ideale allora gioco forza si finisce coll’accodarsi ai vari Pezzotta che
sempre di più si stanno traformando in veri e propri agenti dell’avversario
di classe all’interno del movimento operaio.
Con questo congresso avviamo una svolta per un
sindacato più democratico, più combattivo, più deciso a difendere in modo
intransigente gli interessi di classe.
Ed è così che la Fiom tornerà a vincere e con essa
l’insieme del movimento operaio italiano che non aspetta altro che un
sindacato che meriti realmente questo nome.