La
lotta dei ricercatori contro la Moratti
Intervista
ad Antonino Campennì, ricercatore Unical, Esecutivo nazionale Confederazione
Cobas
a
cura di Progetto Comunista Cosenza
Potresti
spiegare brevemente quali effetti verrebbe a produrre il Ddl Moratti
sull’Università?
Il
Ddl Moratti prevede innanzitutto la cancellazione della figura del ricercatore e
la sua sostituzione con figure precarie. La lettera del Decreto parla della
possibilità di stipulare dei contratti di Collaborazione coordinata e
continuativa aventi una durata di cinque anni e rinnovabili per altri cinque.
Alla fine di questo lungo periodo di precarietà, riuscirebbe a rimanere dentro
l’università con una posizione stabile solo chi riuscisse a vincere un
concorso per professore associato, ovvero accedere alla cosiddetta seconda
fascia. In realtà però, questo discorso è già stato superato dalle cose, nel
senso che nei tavoli tecnici di incontro con la Crui la ministra ha già detto
che sarebbe disposta a sostituire i Co.co.co. con dei contratti a tempo
determinato che avrebbero tutt’altra copertura previdenziale, quindi
risulterebbero più appetibili, ma pur sempre di precariato si tratterebbe.
Un'altra
cosa che il Ddl verrebbe a introdurre è la cancellazione della distinzione fra
tempo pieno e tempo definito, quel tipo di distinzione che, in qualche modo,
costringeva soprattutto le figure appartenenti alle fasce più alte della
docenza a prestare la loro opera all’interno dell’università e a non farsi
distrarre troppo da impegni professionali esterni alla stessa. In questo modo
noi che critichiamo questo decreto sosteniamo che, in realtà, si verrebbero a
creare le condizioni per cui i professori potrebbero avere agio di accettare
incarichi presso le università private e così andare ancora a sottrarre
ulteriori risorse all’università pubblica.
Vi
è poi proposta di creazione dell’Istituto italiano di tecnologia, che è
stato definito al pari del Mit. statunitense (Massachusetts Institute of
Technology) e a cui già da questa Finanziaria è stato assegnato un miliardo di
euro per un periodo di dieci anni. Tutto questo in un momento in cui, dobbiamo
ricordarlo, l’università italiana soffre per i continui tagli ai
finanziamenti che i governi hanno operato in questi anni. Una università che è
già carente dal punto di vista delle risorse da destinare alla didattica, con
un numero di personale docente molto inferiore a quello che dovrebbe essere.
Questo comporta un super lavoro, in particolar modo per i ricercatori che in
base al proprio contratto non sarebbero tenuti ad insegnare, tant’è vero che
noi non abbiamo riconosciuta la funzione docente. In una situazione in cui il
sistema universitario versa in gravi difficoltà a causa dei tagli ai
finanziamenti, si vengono a creare pochi posti per la docenza anch’essa
insufficiente dopo l’introduzione della cosiddetta riforma del “3+2”, che
ha moltiplicato i corsi senza finanziare una lira. Il Ddl Moratti andrebbe per
questo motivo solo a complicare ulteriormente una situazione già complicata.
Tu
hai parlato del modello “3+2”: cosa pensi della sua introduzione, voluta
dalle riforme precedentemente varate dai governi di centrosinistra e oggi ancora
più accentuate dal governo di centrodestra e quindi dalla Riforma Moratti?
Personalmente
della Riforma del “3+2” penso tutto il male possibile. Sono stato studente
con il vecchio ordinamento e posso dire che era un sistema che presentava non
pochi problemi, in quanto sistema scarsamente strutturato dove si finiva molto
facilmente fuori corso e dunque era giusto che si introducessero dei correttivi,
ma il correttivo a cui si è deciso di approdare in Italia è stato quello di
adottare in blocco, o meglio solo il peggio, del “sistema anglosassone”, un
sistema costituito su ritmi serrati di insegnamento, dove è previsto
l’obbligo di frequenza e tutto è mirato a fare “lavorare” le persone
presto, senza però offrire una visione a 360 gradi del sapere. Il modello del
“3+2” ha introdotto una frammentazione degli insegnamenti, i corsi sono
divenuti molto più numerosi e molto più brevi e quindi meno formativi, in
un’ottica in cui il sapere non viene inteso più nella sua globalità, cioè
come chiave di lettura critica per la società, ma solo come bagaglio culturale
da spendere sul mercato del lavoro. Si deve inoltre aggiungere che a questa
frammentazione non sono corrisposti adeguati supporti economici, in modo tale da
avere tanti docenti per quante sono le materie d’insegnamento.
(…)
Il sistema dei crediti, introduce a mio modo di vedere, una sorta di
“monetizzazione del sapere” e delle attività di approfondimento per lo
studente, nel senso che con il sistema dei crediti tutto è quantificabile. Il
credito, in realtà, esprime un monte ore standard che prevede sia la frequenza
alle lezioni, sia lo studio individuale a casa, rendendo il sistema dei crediti
un vero e proprio sistema di controllo sociale perché, solo chi è meritevole
dei crediti passa.
(…)
Altro elemento di difficoltà che introduce il “3+2” è rappresentato dalla
forte riduzione dei margini di scelta rispetto alle materie da inserire in un
piano di studi coerente con i propri interessi.
Da
ciò, credo che l’introduzione di questo sistema abbia rappresentato una
grossa sconfitta per il mondo universitario e il fatto che la protesta in atto
contro il Ddl Moratti abbia scoperchiato questa sorta di pentola a pressione che
è rappresentata dall’università italiana ha riportato una certa attenzione
su tutte le altre cose che non vanno bene. Vedremo nel prosieguo di questa
battaglia che cosa si riuscirà a realizzare, affinché si possa arrivare ad un
sistema alternativo di formazione che non costringa più ad un super lavoro
matto e disperato che dà poco o niente in termini di profitto reale e di qualità.
Attualmente
qual è precisamente la situazione in cui si trovano i ricercatori e più
complessivamente i lavoratori precari dell’università?
Partiamo
dai ricercatori per poi arrivare ai precari. I ricercatori, come dicevo prima,
non dovrebbero per legge svolgere attività didattica e sarebbero tenuti
esclusivamente a studiare, svolgere ricerca, effettuare lavori di pubblicazione
ecc. In realtà sappiamo che non è così, perché per portare avanti la
didattica ci si appoggia per buona parte sul lavoro dei ricercatori, che si
trovano a svolgere tale attività gratuitamente, perché il nostro stipendio non
è definito contrattualmente, ma per legge dello stato.
Ogni
ricercatore deve fare tre anni per divenire ricercatore in attesa di conferma,
alla fine dei tre anni, dalla documentazione di tutta l’attività di ricerca,
di studio e di pubblicazione svolta, dovrebbe scattare la conferma e da lì
anche una progressione salariale, perciò noi insegniamo gratuitamente e a volte
ci troviamo ad insegnare moltissimo -personalmente io faccio 120 ore di
docenza-, senza considerare che poi ci sono studenti che bisogna seguire per la
tesi, che bisogna prevedere un orario di ricevimento e partecipare ai vari
consigli. Dunque un impegno notevole, estremamente gravoso, che non viene
riconosciuto su un piano formale e soprattutto su un piano salariale, che
oltretutto entra fortemente in concorrenza con quelle attività che per dovere
istituzionale siamo chiamati, in via principale, a svolgere. Questa è la
situazione del ricercatore medio italiano che sostiene circa un terzo, se non
addirittura di più, dell’attività didattica degli atenei italiani.
Rispetto
alla situazione dei precari dell’università, ci troviamo di fronte ad una
serie di figure diversificate, come i dottorandi di ricerca, i quali pure
dovrebbero sostenere dopo i tre anni degli esami per divenire dottori di ricerca
ma che, in realtà, fanno anche attività didattica e di supporto alle sessioni
d’esame, seguono i tesisti ecc, tutto questo completamente gratis. Ci sono poi
figure come i cosiddetti assegnisti di ricerca -che sono quelli che hanno un
contratto per collaborazione di attività di ricerca e spesso anche loro
svolgono attività didattica non retribuita, figure come i professori a
contratto e via discorrendo.
Il
Ddl Moratti crea dei problemi soprattutto per questo mondo variegato di precari
più che per i ricercatori, perché anche se questi ultimi versano in condizioni
di precarietà rispetto alle condizioni di lavoro, non possono essere rimandati
a casa in quanto vincitori di concorso, mentre il rischio aperto dal decreto è
forte per chi oggi si trova in condizioni di precarietà totale e rischia
seriamente di non entrare mai a lavorare stabilmente nell’università. Il
rischio è quello di dover avere contratti temporanei di cinque anni, più
eventualmente di ulteriori altri cinque anni, dopodiché solo chi potrà
permettersi il lusso di scommettere su un precariato così lungo forse potrà
riuscire ad ottenere un contratto di professore associato. Si viene a creare così
un sistema fortemente classista e selettivo, legato alle condizioni economiche
del soggetto in questione.
La
risposta al Disegno di legge è stata caratterizzata nell’università, dalla
nascita di Coordinamenti dei ricercatori a livello locale ed a livello nazionale
e da importanti momenti di mobilitazione, come la manifestazione nazionale del
17 febbraio a Roma e l’occupazione simbolica del rettorato nella nostra
università. Non pensi che, di fronte all’inflessibilità del ministro Moratti
e del governo, la risposta al decreto debba venire creando una forte
unificazione delle lotte di tutto il precariato d’ateneo con quelle degli
studenti (già pesantemente colpiti dagli effetti di riforma) e mettendo in
questione non solo questa riforma, ma tutto il processo di privatizzazione e
precarizzazione del sistema formativo pubblico, messo in atto negli ultimi anni?
Sono
assolutamente d’accordo sul fatto che il mondo dell’università debba
lottare unito e debba far scendere in campo tutte le sue componenti, dai
ricercatori ai precari, dai professori delle fasce più alte agli studenti, ma
anche gli impiegati dell’università che sono ancora in attesa del loro
contratto. Ad ogni modo, così è stato sin dall’inizio, perché già il 17
febbraio, all’Assembla nazionale dei ricercatori tenutasi nell’Aula Magna
della Sapienza di Roma, hanno preso parte al dibattito dai professori ordinari
agli associati, anche se non in grandissimo numero, c’erano anche alcuni
presidi di facoltà e poi al corteo spontaneo che è seguito c’erano anche gli
studenti e alcuni impiegati.
Certo
l’università nel suo complesso sta vivendo momenti di fibrillazione, ma la
mobilitazione non è al completo perché, se ci sono alcuni atenei come quello
di Cosenza che sono avanti sia come elaborazione che come iniziative di lotta già
poste in campo, è anche vero che non c’è ancora un risveglio corale del
mondo accademico. Noi crediamo che la prosecuzione di questa lotta possa
determinare come risultato immediato il risveglio di quelle sedi che ancora non
hanno prodotto se non alcune assemblee, ma che si sono comunque pronunciate in
maniera netta e radicale sia contro il Ddl, sia contro i danni apportati dalla
Riforma nel suo complesso.
All’Unical
sono state praticate tutte le decisioni scaturite nell’Assemblea nazionale del
17 febbraio, infatti il 4 marzo, dopo l’organizzazione di un corteo molto
partecipato, che ha visto la presenza di oltre 300 studenti, siamo arrivati
all’occupazione del Rettorato. Un momento importante perché ha rappresentato,
a mio avviso, un importante presa d’atto degli studenti dell’importanza di
mobilitarsi, perché in gioco non è solo la questione dei ricercatori precari,
ma le intere sorti dell’università in Italia. Lo hanno capito anche loro,
hanno parlato contro il “3+2”, anzi lo hanno fatto portando il proprio punto
di vista, nonostante le difficoltà derivanti dal fatto di essere costretti a
seguire le lezioni per non perdere la presenza.
Per
quello che è emerso condivido il discorso di allargare lo sguardo anche al di
fuori del mondo accademico, perché in questo momento in Italia tutta
l’istruzione pubblica, fin dalle scuole materne a finire ad i gradi più
elevati della formazione post-universitaria si trova sotto attacco. Un attacco,
che è bene precisarlo, è iniziata negli anni dei governi del centrosinistra e
prosegue adesso con il governo delle Destre, dimostrando una formidabile
continuità di vedute su quello che dovrebbe essere l’università e
l’istruzione in questo paese. Un modello formativo che guarda sempre più al
mercato e all’economia, tant’è vero che sono stati i governi di
centrosinistra ad aver posto in essere la legge di parificazione tra scuola
pubblica e scuola privata.