di Marco Ferrando
Con l'incontro Prc-Ulivo e le sue risultanze il gruppo
dirigente del Prc ha intrapreso apertamente il cammino di una prospettiva di
governo: la prospettiva di un governo Prc-Ulivo con ministri del Prc.
Che questa sia la prospettiva imboccata, al di là dei
suoi esiti, è indubbio. La formazione ufficiale di commissioni paritetiche
congiunte tra Prc e Ulivo per la stesura di un accordo programmatico generale (Treu
e Ferrero sul Lavoro; Mastella e Gianni sul Mezzogiorno; Pecoraro Scanio e
Musacchio sull'Ambiente) va ben oltre la soglia delle intese amministrative,
dell'unità d'azione contro Berlusconi, o di ipotesi di desistenza: mira
direttamente a un accordo politico generale col centrosinistra, quindi al
governo dell'Italia. E tutto il commentario politico nazionale del
centrosinistra, da nessuno smentito, concorda entusiasta. Rutelli parla di un
"punto di svolta", Salvi saluta il "salto politico", Parisi
annuncia direttamente la prospettiva di "ministri del Prc" (Avvenire,
13 gennaio). Peraltro lo stesso segretario del partito ha dichiarato
ufficialmente, in un'intervista a La Stampa, che la "desistenza" è
superata, e che il nodo sul tappeto riguarda ormai il governo.
Consideriamo l'imbocco di questa prospettiva un fatto
grave. Molto grave.
Intanto è sorprendente la disinvoltura della
"svolta", il disprezzo persino formale verso parole dette e atti
compiuti, sino alla vigilia, agli occhi dell'intero corpo del partito. Non si
era detto e scritto sino a ieri, finanche alla noia, che l'"Ulivo era
morto", che occorreva "rompere la gabbia dell'Ulivo", che
l'"errore" di Cofferati era quello di intestardirsi a "riformare
un Ulivo irriformabile"? Contrordine, compagni, si è sbagliato. Ora si
punta direttamente all'accordo tra Prc e centro, aggirando Cofferati e sulla
testa di Cofferati. E per di più con un accordo politico, programmatico, di
governo con quelle forze del centro che persino simbolicamente, come nel caso di
Treu, hanno rappresentato e rappresentano nel modo più diretto la borghesia
italiana contro i lavoratori. Perché questo assurdo?
Si è obiettato che la svolta c'è perché sono cambiate
le circostanze. Si è invocata la novità del movimento di massa, la crisi di
egemonia del liberismo nella società italiana e nel mondo, la convergenza col
centrosinistra nell'opposizione alla guerra, le stesse contraddizioni interne al
centrosinistra: per concludere che il nuovo incontro col centrosinistra è
imposto dalla nuova realtà. Ma non è forse vero l'opposto? Tutte le novità indicate rafforzano semmai, una volta di più,
l'esigenza della rottura col centro borghese liberale e l'attualità di un
alternativa anticapitalista come unica possibile alternativa. Perché non c'è
un solo terreno di scontro sociale e politico in Italia che non segni, tanto più
oggi, la totale inconciliabilità degli interessi e domande di lavoratori e
giovani con gli interessi e domande della borghesia e dei suoi rappresentanti di
centro. Si può non vederlo?
La guerra -al di là di ogni falsa apparenza- ha visto e
vede il centro liberale, a partire dalla Margherita, rivendicare prima il
sostegno all'impresa di guerra degli alpini in Afghanistan; poi il sostegno alla
"rapida vittoria" dei Paesi aggressori dell'Irak sino all'attacco
pubblico e scandalizzato delle posizioni "equidistanti" di Epifani;
poi ancora la rivendicazione di un protettorato coloniale Onu in Irak che
consenta all'UE la "concertazione" coloniale con gli USA; infine
l'invocazione di un esercito europeo, di uno sviluppo della Difesa comune
europea, quindi di maggiori spese in armamenti, come condizione di un peso
maggiore dell'imperialismo europeo negli equilibri mondiali. Non è forse
evidente che proprio nel momento della cosiddetta "opposizione" alla
guerra di Bush si conferma del tutto inalterata la vocazione di classe del
centro borghese in politica estera? E cosa ha a che spartire una politica estera
di fatto militarista, seppur in divisa europea, con le domande antimilitariste e
di pace della giovane generazione, in Italia e nel mondo? Invece di una politica
che contrapponga le domande del movimento pacifista alle posizioni liberali,
quindi agli interessi della borghesia, il gruppo dirigente del Prc ha offerto ai
liberali la collaborazione unitaria del movimento. Sino a realizzare mozioni
comuni con i liberali in parlamento e a criticare il movimento per il suo
"settarismo" verso i liberali (come in occasione della mancata
manifestazione unitaria a Roma del 22 marzo). Può esservi un capovolgimento più
clamoroso di una politica comunista?
Ma la contraddizione è ancora più evidente sul terreno
decisivo dello scontro sociale. Il centro liberale continua a sviluppare la sua
opposizione a Berlusconi dal versante della grande impresa. Lamenta
l'insufficienza delle politiche liberali (specie in materia di privatizzazioni)
e soprattutto l'assenza di una politica di concertazione con la Cgil col
conseguente aggravio di conflitti e di scioperi a carico delle imprese. La
stessa critica al governo sull'articolo 18 ha avuto esattamente questo segno. E
infatti guarda caso tutto il centro liberale (a partire dalla Margherita) è in
fronte unico con Berlusconi e i suoi ministri reazionari contro l'estensione
dell'art. 18 e quindi contro il referendum del Prc. Non è questa forse la prova
più semplice e diretta dell'inconciliabilità di classe tra movimento operaio e
centro liberale e quindi tra Prc e centrosinistra? Non dovremmo assumere la
campagna referendaria e le sue potenzialità di vittoria come terreno di rottura
col centro liberale e di riflesso di critica aperta alla socialdemocrazia
cofferatiana per la sua subordinazione ai liberali? Invece accade l'opposto.
L'iniziativa referendaria, come avevamo previsto, è usata come leva
contrattuale di un accordo politico coi liberali. Ai quali si chiede, per non
rovinare tale prospettiva, di gestire il proprio no filo-padronale al referendum
senza eccessive asprezze e senza barare sul quorum. Può esservi, anche qui, un
rovesciamento più clamoroso dei più elementari criteri di classe?
Se la "svolta" del Prc ha poco a che vedere con
le ragioni della lotta di classe, ha molto a che fare invece con l'evoluzione
della situazione politica.
Il governo Berlusconi vede moltiplicarsi le sue difficoltà,
sia nel rapporto con l'opinione pubblica (v. la guerra) sia in relazione alle
contraddizioni interne: e ciò significa mettere in conto la possibilità di una
fine anticipata della legislatura. E' un'eventualità obiettivamente improbabile
ma che è ritenuta possibile dagli stati maggiori dell'Ulivo e dallo stesso Prc
e che ha accelerato i tempi dell'avvio della ricomposizione. Parallelamente si
acuiscono gli elementi di frizione tra Cofferati e il centro liberale (prodiani
inclusi): perché la mancata scissione dei Ds e quindi la mancata costruzione di
un partito socialdemocratico cofferatiano fa sì che il fenomeno Cofferati si
riduca a un fattore di instabilità permanente del centrosinistra e di
rafforzamento elettorale, per quanto paradossale, dei Ds a scapito della
Margherita e delle sue ambizioni di egemonia. Da qui la svolta dei liberali:
perché non aprire direttamente a Bertinotti scavalcando Cofferati e comunque
ridimensionando il suo peso? Ma da qui anche "la svolta" di Bertinotti:
perché non utilizzare le difficoltà di Cofferati per attivare una relazione
negoziale diretta col centro liberale dell'Ulivo? Non si può dunque negare alla
"svolta" una logica politica: il piccolo dettaglio è che si tratta di
una logica manovriera priva di principi, estranea a qualsiasi criterio di
classe, tutta interna alla più vecchia tradizione politicista del riformismo
istituzionale. E che soprattutto segna l'avvio di una prospettiva politica
disastrosa, per i movimenti e per il partito: quella di un ingresso dei
comunisti nel governo della borghesia italiana.
Se questa prospettiva si realizzasse, se il Prc entrasse
nel governo di centrosinistra o nella maggioranza di governo o comunque
rimuovesse la propria collocazione di opposizione ciò costituirebbe -misuro le
parole- un tradimento di classe. Non solo rappresenterebbe l'ennesima riedizione
di quella deriva di governo che storicamente ha segnato il riformismo e il
centrismo; non solo rappresenterebbe la riproposizione di un'esperienza già
vissuta dal Prc che corresponsabilizzò il partito alle peggiori aggressioni
antioperaie della passata legislatura (dal voto a favore del "pacchetto
Treu" al sostegno alla legge anti-immigrati Turco-Napolitano); ma
costituirebbe, tanto più oggi, un atto di totale e frontale contraddizione con
l'ascesa della nuova generazione, con quella dinamica di ripresa dei movimenti
di massa che segna, per giudizio comune, l'avvio di una stagione nuova anche nel
nostro Paese.
L'ascesa della nuova generazione è carica di una grande
domanda di alternativa e di svolta. Per questo preoccupa le classi dominanti,
incide sul loro blocco sociale, scuote le loro basi politiche. Per questo sfida
i governi reazionari, esalta le loro difficoltà di concertazione, ne acuisce la
crisi di egemonia. Per questo contiene una potenzialità dirompente. Proprio per
disperdere questa potenzialità il centro liberal-democratico si candida a carta
di ricambio della borghesia: per integrare, addomesticare, deviare la spinta di
massa dentro una pacifica alternanza di governo borghese liberale. E'
un'operazione che si avvale del movimento di massa per sussumerlo in un'orbita
che lo nega. E che a tal fine ha bisogno di sponde a sinistra di forze che
proprio in virtù della propria presenza e ruolo nei movimenti possano
accompagnarli all'incontro mortale col centro.
Allora, quanto più è grande il movimento di massa, tanto
più la lotta, nel movimento, contro l'accordo con i liberali, contro la
subordinazione ai liberali, contro il governo con i liberali può e deve essere
l'asse decisivo della politica comunista, la condizione stessa di una
prospettiva di alternativa adeguata alle potenzialità del movimento stesso.
Viceversa qualsiasi politica che, col pretesto del
movimento o addirittura in suo nome, manovri in direzione dell'accordo con i
liberali, della subordinazione ai liberali, del governo con i liberali, è per
definizione una politica borghese: una politica che subordina il movimento alla
borghesia e che aiuta la borghesia a subordinare il movimento. Cofferati si
candida a svolgere questa parte in commedia. Bertinotti, che pure potrebbe
svelare il "copione" alle masse, si candida semplicemente a
rubarglielo.
Progetto comunista non è sorpreso del processo intrapreso
dal gruppo dirigente del partito. Già al congresso avevamo dichiarato che il
documento di maggioranza recava, nelle proprie pieghe, il canovaccio di una
ricomposizione col centrosinistra. Sarebbe facile dunque per noi limitarci a
dire: "avevamo ragione". Sarebbe persino una soddisfazione morale
ricordare le mille accuse che ci furono rivolte da compagni dirigenti della
cosiddetta sinistra della maggioranza di imbastire "processi alle
intenzioni", di inventarci "divergenze inesistenti", di non voler
riconoscere per pregiudizio e interesse di componente "l'evidenza della
svolta a sinistra" del Prc. Le commissioni Treu-Ferrero, Mastella-Gianni
sono di per sé, peraltro, la soluzione postuma di ogni controversia
interpretativa.
Ma non commetteremo questo errore. La battaglia per
salvare il partito dal rischio mortale di una deriva di governo non è, non
vuole essere, una semplice battaglia di componente. E' e vuole essere una
battaglia di tutti i militanti comunisti del Prc, di tutti quei compagni -e sono
tanti- che, al di là delle proprie scelte congressuali, hanno chiesto davvero
una svolta a sinistra del partito e che hanno creduto davvero che la rottura con
Prodi fosse l'avvio di un'autentica Rifondazione; di tutti quei compagni -e sono
tanti- che non vogliono essere iscritti, dopo anni di movimento, a un ennesimo
governo borghese dell'Ulivo e che considerano come noi irrinunciabile la
presenza in Italia di un'autonoma opposizione comunista, di un partito comunista
di opposizione.
2 aprile 2003