di Isabella Cecchi
La privatizzazione delle farmacie comunali in corso a
partire dal 1999 è un episodio minore della generale messa a valore
capitalistica di alcuni tipici ambiti di controllo e di intervento pubblico, fra
cui le privatizzazioni delle reti di distribuzione (acqua, gas, energia), della
sanità e dei sistemi previdenziali. Sull’onda della reaganomics americana dei primi anni ’80, e della riduzione dei
debiti pubblici decisa nell’UE con il Trattato di Maastricht (1992), il
capitalismo italiano tenta di scrollarsi di dosso il peso delle amministrazioni
pubbliche irrobustendo nel contempo i mercati finanziari attraverso la messa a
valore dei servizi pubblici e sociali.
La questione delle
farmacie comunali non può quindi essere considerata al di fuori del contesto
generale della tendenza alla privatizzazione dei sistemi sanitari e di
considerazioni sull’industria e sul mercato dei farmaci. Insieme alle
assicurazioni sanitarie ed ai fondi previdenziali, il mercato del farmaco è il
principale mercato legato alla salute; nel corso degli anni ’90 è stato
caratterizzato da grandi investimenti motivati dalle previsioni di crescita
dovute a fattori sia legati alla domanda (invecchiamento della popolazione nei
paesi industrializzati) sia alla gestione dell’offerta (biotecnologie, terapie
geniche e loro impatto sui costi dell’assistenza).
La crisi mondiale dei
mercati di borsa ha posto in evidenza un ulteriore aspetto dell’interesse
capitalistico per il mercato della salute: infatti i titoli legati
all’industria ed alla distribuzione farmaceutica sono considerati “non
ciclici”, ovvero relativamente indipendenti dalle tendenze positive o negative
di borsa. A fronte della lunga crisi dei mercati finanziari e della ancor più
lunga crisi di sovrapproduzione, queste attività sono fra quelle che offrono le
migliori aspettative di profitto.
L’industria
farmaceutica è stata quindi caratterizzata negli ultimi anni da un processo di
concentrazione (tuttora in atto) per mezzo delle più grandi operazioni di
acquisizione e fusione mai realizzate. Siamo di fronte alla creazione di
oligopoli che si trovano nelle condizioni di esercitare un forte controllo sui
prezzi, sia attraverso la proprietà di brevetti internazionali, sia con la
costituzione di cartelli monopolistici. A riprova di questo si può ricordare il
cartello mondiale per il controllo dei prezzi delle vitamine costituito da
multinazionali europee e giapponesi, per il quale sono state inflitte multe sia
dal Dipartimento di Giustizia americano (1999) sia dalla Commissione Europea
(2001).
Lo strutturarsi, sempre nel
corso degli anni ’90, di grandi gruppi di distribuzione farmaceutica di
livello europeo è conseguenza diretta di questo scenario. Per questi gruppi,
originariamente operanti nella vendita all’ingrosso, l’acquisizione ed il
controllo diretto della rete al dettaglio, ovvero di catene di farmacie, sta
diventando un fattore cruciale perché permette di contrattare sconti migliori
con i produttori, e perché questo canale assicura profitti più elevati
rispetto all’ingrosso. Questa necessità di integrare verticalmente la
distribuzione all’ingrosso e al dettaglio è la prima motivazione che spinge
all’acquisizione delle farmacie comunali.
L’altra faccia della medaglia
dell’aumentato giro d’affari in questo settore di rilevanza sociale è
costituita dalle misure nazionali di contenimento della spesa sanitaria, che
sono una delle minacce immediate più gravi per queste imprese. D’altronde,
uno dei motivi per cui le attività legate al settore farmaceutico sono meno
dipendenti dagli andamenti generali della domanda, risiede proprio
nell’impegno di spesa costante assicurato dai sistemi sanitari pubblici.
Fra le misure adottate da
diversi paesi europei ci sono gli sconti obbligatori (imposti sia ai produttori
che ai distributori) e l’incentivazione alla vendita dei farmaci generici, la
maggior parte dei quali sono prodotti da aziende di paesi a capitalismo
emergente, in particolare India e Cina. Un maggior consumo di farmaci generici
rappresenta un reale fattore di diminuzione della spesa farmaceutica, cui le
multinazionali della distribuzione reagiscono in parte allargando la propria
gamma di offerta di generici. Di fronte invece all’imposizione di sconti
obbligatori, in alcuni casi le aziende farmaceutiche ed i distributori
reagiscono spingendo verso la privatizzazione di alcuni ambiti di spesa,
puntando a sottrarli in questo modo al controllo esercitato dallo stato,
favorendo la crescita delle assicurazioni sanitarie private e la
liberalizzazione della vendita dei farmaci da banco.
Ma la strategia più sicura fin
qui adottata contro queste misure di carattere nazionale è la diversificazione
geografica del fatturato su base europea: e questa è la seconda motivazione del
particolare interesse per l’ingresso nel mercato italiano attraverso
l’acquisizione dei pacchetti azionari delle farmacie comunali.
Le farmacie comunali italiane sono quasi 1300 (tutte con
bilanci in attivo e localizzate principalmente nel centro nord) contro le circa
15000 farmacie private. Le prime nascono all’inizio del ‘900, in epoca
giolittiana, per ammortizzare lo scontro sociale attraverso la distribuzione di
farmaci ai poveri, e la loro storia, con vicende molto alterne, attraversa tutto
il secolo appena concluso. Fra privatizzazioni già fatte e privatizzazioni in
corso, diverse centinaia sono già praticamente nelle mani dei privati. A causa
delle limitazioni che in Italia, come nella maggior parte di paesi europei,
regolano la possibilità di aprire e di essere titolari di una farmacia,
l’acquisizione dei pacchetti azionari delle comunali costituisce l’unica
forma possibile per costituire catene di distribuzione nell’ambito del quadro
normativo attuale. È quindi un’occasione unica per le multinazionali della
distribuzione del farmaco, perché costituisce il grimaldello che permette di
fare ingresso nel mercato italiano, sia nel dettaglio che nell’ingrosso:
acquisendo queste minicatene, che spesso dispongono anche di magazzini e
riforniscono strutture sanitarie, si pongono infatti le basi di una struttura
distributiva integrata di ingrosso e dettaglio. È emblematico a questo
proposito quanto è accaduto in Norvegia nel 2001, dove la tedesca Gehe ha
acquisito in un solo colpo l’NMD, ovvero l’azienda di stato privatizzata
che, oltre a gestire una rete di farmacie, rifornisce tutti gli ospedali del
paese.
Le formule di privatizzazione delle farmacie pubbliche
passano sempre attraverso la creazione di una Spa, di cui i comuni a seconda dei
casi cedono o il 75-80% (cioè il massimo consentito dalla legge) del pacchetto
azionario, oppure il 49% (mantenendo quindi, almeno temporaneamente, il
controllo di maggioranza. Da un esame delle privatizzazioni finora realizzate,
è facile constatare che i soggetti interessati all’acquisizione sono i
seguenti:
·
multinazionali europee della distribuzione del farmaco (Gehe,
Alliance Unichem, Phoenix), la cui strategia punta, come si è detto,
all’integrazione ingrosso-dettaglio e alla diversificazione europea per
garantire ed incrementare i propri profitti; queste multinazionali considerano
strategica l’acquisizione del pacchetto di maggioranza;
·
cooperative di acquisto o società di capitali già
operanti a livello italiano nella distribuzione del farmaco, che si uniscono per
cercare di resistere all’avanzata delle multinazionali, mettendo in atto la
stessa strategia di integrazione ingrosso-dettaglio;
·
la Lega delle cooperative, interessata soprattutto
all’area Emilia Romagna-Veneto-Friuli, con l’obiettivo di creare una massa
critica di farmacie controllate sufficiente a gettare le basi di una propria
presenza nella distribuzione farmaceutica e parafarmaceutica;
·
alcune Spa multiutility nate dalla privatizzazione dei
servizi a rete e municipali.
·
Sullo sfondo di questo quadro, si è aperta anche una
battaglia politica, a livello sia regionale che nazionale, per la deregulation
della normativa sulle farmacie (che inevitabilmente finirebbe per favorire i
grandi gruppi che possono permettersi gli investimenti maggiori, come dimostra
il caso britannico). A questo tentativo si oppongono i farmacisti privati, che
tentano di difendere i propri interessi piccoli borghesi in un mercato che si
sta ristrutturando loro malgrado, osteggiando la creazione di catene attraverso
la loro associazione di categoria, Federfarma. Federfarma ha sostenuto con ogni
strumento politico e giuridico il principio per cui le farmacie vanno
privatizzate ma attraverso cessione agli attuali direttori delle farmacie
comunali.
Opporsi alla privatizzazione delle farmacie comunali ha invece il significato di opporsi all’alienazione di una struttura distributiva pubblica di notevoli dimensioni complessive la cui cessione ai privati, siano essi catene multinazionali, catene nazionali in via di formazione o farmacisti privati, non può che avere l’effetto di una minore possibilità di controllo dei costi pubblici della salute attraverso la messa in discussione dei profitti di produttori e distributori.