Dalla parte dell'Irak . Contro l'occupazione coloniale

 Per l'indipendenza dal centrosinistra borghese del movimento contro la guerra

 

 

di Francesco Ricci

 

Mentre scriviamo, l'annunciata rapida conquista di Baghdad da parte dei predoni imperialisti è bloccata tra le sabbie del deserto. "I nostri piani erano inadeguati" ha riconosciuto pochi giorni fa un alto ufficiale statunitense. La prevista rivolta del popolo irakeno al fianco delle truppe angloamericane non c'è stata: e non tanto perché -come si ostinano a ripetere ogni sera i vari Vespa televisivi con elmetto- le città sono "chiuse dal filo spinato" di Saddam; né, al contrario, perché Saddam goda "tutto sommato" di un certo consenso popolare, come si è precipitato a dire qualcun altro. Più semplicemente perché il popolo irakeno non vede nei marines dei liberatori ma l'incarnazione di quelle potenze che, dopo averli strangolati con anni di embargo, stanno ora bombardando case, mercati e ospedali e annunciano anni di occupazione militare. E' contro un futuro protettorato affidato al generale Franks o a qualche altro macellaio che si battono -con indubbio eroismo- l'esercito e il popolo irakeno.

 

Mentre la resistenza irakena si fa più dura del previsto, Rumsfeld è costretto a inviare altre migliaia di militari di rinforzo e i ragionieri dei bombardamenti a fare calcoli preoccupati sul rapido esaurirsi della gigantesca riserva di bombe e missili. Servirà uno sforzo dell'intera nazione, informa l'amministrazione statunitense: i bilanci dello Stato vengono riscritti per addebitare ulteriori costi della guerra ai lavoratori e si inaspriscono le misure anti-sindacali.

 

Mentre un Paese dipendente viene aggredito da un Paese imperialista, e il dovere elementare di qualsiasi internazionalista si dovrebbe tradurre nello schierarsi senza dubbi dalla parte dell'Irak, a prescindere dal regime reazionario di Saddam: nella comprensione che sul fronte della lotta internazionale tra le classi la resistenza irakena significa, se non una improbabile vittoria militare, una possibile sconfitta politica dell'imperialismo a tutto vantaggio della possibilità dello stesso popolo irakeno di sostituire domani al macellaio anti-comunista Saddam un proprio governo; mentre dovrebbe essere evidente che la "rapida conclusione" del conflitto implica la sicura occupazione militare e l'avvio di nuovi piani per nuove guerre militari contro i popoli oppressi e nuove guerre sociali contro i lavoratori di ogni Paese; mentre persino Ingrao e Il Manifesto esprimono parzialmente questo ragionamento, pur tra mille dubbi e magari alternandolo a invocazioni sulla sacralità della Costituzione; il gruppo dirigente del Prc scava trincee su un terzo e inesistente fronte: "né con Bush né con Saddam, a favore della pace" (1), frase che forse suona bene ma che prescinde da qualsiasi analisi di classe delle guerre, lasciando però spazio -questo è il punto- a forme di interlocuzione col centro borghese liberale dell'Ulivo e alle astensioni incrociate su pezzi di carta in parlamento.

 

Mentre le città irakene vengono rase al suolo in questa nuova Dresda dalle bombe di quella che "comunque resta la più grande democrazia esistente" (Epifani); e raffinati giuristi discettano sul confine tra lecito e illecito in guerra, su missili che ammazzano per errore e altri che ammazzano per volontà, e intellettuali televisivi si indignano per la scarsa cortesia riservata ai prigionieri anglo-americani (sorvolando sul campo di tortura di Guantanamo); i consigli di amministrazione delle aziende di armamenti incassano i lauti profitti di guerra per poi dedicarsi al calcolo dei profitti che le stesse aziende o le consociate ricaveranno dalla ricostruzione di ponti ed edifici che le loro bombe hanno distrutto. In questa guerra non ci sono solo le ragioni del petrolio (pure ben presenti a un governo di petrolieri come quello Bush), ma anche le ragioni dell'industria bellica, l'affare della ricostruzione. In una parola: ci sono i profitti del capitalismo, vera molla di tutte le guerre. Profitti che esigono una competizione sempre più feroce tra i diversi Stati imperialisti, con gli USA impegnati a far valere la loro supremazia militare contro il principale avversario economico di oggi, l'Europa (a sua volta composta da diversi imperialismi in gara tra loro), e con le potenze emergenti di Russia e Cina.

 

Mentre è ancora fresco l'inchiostro sprecato per decine di saggi e di articoli sulla "fine dell'imperialismo", sul "secolo breve" che avrebbe chiuso definitivamente "l'epoca di guerre e rivoluzioni", sulla "scomparsa" degli Stati nazionali sovrastati dall'etereo "Impero delle multinazionali", sul "lavoro immateriale" che sostituisce l'industria e fa scomparire la classe operaia; mentre ancora abbiamo nelle orecchie il fastidioso chiacchiericcio sulla "riformabilità dell'ONU", sul "diritto internazionale" e la Costituzione; il capitalismo reale, l'unico possibile, quello delle guerre e dello sfruttamento, quello che riconosce nel Profitto l'unica suprema legge, e che ha bisogno degli Stati armati per imporla, costringe i vari Toni Negri -per evitare i banchi dei remainders- a radicali revisioni delle bozze di libri già in stampa e obbliga certi dirigenti a spericolate contorsioni per "aggiornare" l'analisi -pur rivendicando (ci mancherebbe) l'imperitura validità delle novissime teorizzazioni del mese prima, che già ammuffiscono in qualche tesi congressuale.

 

Mentre teorici e dirigenti riformisti si impegnano nell'unica riforma del mondo possibile -quella che celebrano ogni giorno nelle loro teste piene di fanfaluche; e certe esaltazioni del "modello culturale Europeo" (quale? quello delle due guerre mondiali o quello delle rapine coloniali?) e certe fantasie sull'"asse di pace franco-tedesco" (imbarazzante titolo di Liberazione) che si contrappone a una Gran Bretagna "servile" con gli USA sono appena state espresse; nel mondo reale Blair, a cui Bush vorrebbe lasciare solo le briciole della torta, prende le distanze dall'annunciato protettorato USA e invita Chirac e la "vecchia Europa" a sgomitare insieme a lui per procurarsi un posto a sedere al banchetto della "ricostruzione"; Chirac (su cui poco prima Bertinotti invitava a riflettere "perché la lotta per la pace richiede alleanze non tradizionali") concorda con Prodi sull'urgenza di procedere a un rafforzamento della Difesa europea; il pacifista Schroeder garantisce agli USA un sostegno logistico sul fronte turco con aerei Awacs e spedisce alcune fregate nel Golfo per non essere troppo lontano dal luogo dell'imminente festino; anche lui è d'accordo con Prodi e Chirac per riattrezzare la pacifica Europa con qualche nuova portaerei: "chi si permette di dire no, come nel caso dell'Irak, deve anche mettersi in condizione di muoversi con le proprie gambe" (2).

 

Mentre Berlusconi si barcamena, da una parte, tra l'ostilità alla guerra espressa della maggioranza della grande borghesia (più in sintonia con l'asse imperialista europeo) che si riflette nello schieramento "pacifista" di tutta la grande stampa (Corriere della Sera incluso) e, dall'altra, con gli appetiti "ricostruttori" di alcuni padroni che ad ogni bomba sganciata sbavano per l'appetito come i cani di Pavlov al suono della campanella; e i suoi ministri assicurano le centinaia di aziende italiane già impegnate in Irak -Alcatel, Fiat, Pirelli, Olivetti- che nel dopoguerra "c'è spazio anche per noi" (3); il centrosinistra torna nuovamente a proporsi come il più lucido interprete degli interessi collettivi delle grandi famiglie del capitalismo. Il centrosinistra manifesta per la pace, ma sostiene orgogliosamente gli alpini in Afghanistan. Il centrosinistra punta su un protettorato ONU che faccia rientrare dalla porta di servizio l'imperialismo europeo- dopo che le truppe anglo-americane hanno fatto il lavoro sporco- giusto in tempo per partecipare agli utili di guerra.

 

Mentre l'Ulivo si conferma come la miglior tutela -già sperimentata coi governi Prodi e D'Alema- di quegli interessi di fondo del capitalismo che il capitalista Berlusconi e la sua corte di ladroni non sta soddisfando fino in fondo; e il centrosinistra sfrutta cinicamente la sua "opposizione" alla guerra in Irak come trampolino di lancio per l'alternanza post-Berlusconi; proprio quando è più che mai evidente la necessità di costruire nell'indipendenza di classe (dalla borghesia e dal suo Ulivo) il futuro dei movimenti di massa che occupano con regolarità, da mesi, le piazze italiane, dimostrando un potenziale di lotta che richiede una nuova direzione politica; il gruppo dirigente maggioritario di Rifondazione accelera il passo nella marcia di riavvicinamento negoziale con l'Ulivo. Il Prc (v. l'articolo di Ferrando nelle pagine interne) dà vita a commissioni con "il morto" (l'Ulivo) per la stesura di un programma comune. Paolo Ferrero, autorevole dirigente del partito (nonché alfiere della "svolta a sinistra" del V Congresso), si incontra con Treu (Tiziano Treu, quello del "pacchetto Treu") per verificare un programma comune sulle questioni del Lavoro (ma viste le specialità di Treu sarebbe stato meglio dire "sulle questioni del Capitale"); mentre un altro dirigente del partito, Alfonso Gianni, discuterà di un programma per il Meridione con Clemente Mastella -a cui non si può negare una certa esperienza di problemi meridionali.

 

Mentre la barbarie della guerra imperialista occupa la scena (ma la resistenza irakena potrebbe già essere stata sopraffatta dall'incomparabile potenza bellica americana quando leggerete queste pagine); mentre tutti gli imperialismi volteggiano sull'Irak e sulle sue ricchezze naturali; mentre si preparano per quel Paese e per l'intera regione anni di occupazione militare da parte della Democrazia (delle casseforti) e gli strateghi già preparano i piani per le prossime guerre necessarie ad assicurare un costante flusso di sangue al vampiro capitalista; mentre Berlusconi elabora nuovi piani per la sua guerra domestica contro il Lavoro e le pensioni; mentre l'Ulivo (nella lotta tra centro liberale di D'Alema e Rutelli e la pallida socialdemocrazia di Cofferati per la posizione da occupare nella rifondazione di un centrosinistra comunque borghese) prepara il governo dell'alternanza a Berlusconi; Bertinotti e la maggioranza dirigente del Prc si candidano all'ingresso in questo futuro governo che implicherebbe la scomparsa di Rifondazione come partito di opposizione.

 

Ma mentre succede tutto questo, le piazze di ogni Paese del mondo, e in Italia specialmente, si riempiono di milioni di lavoratori e di milioni di giovani. Un potenziale di lotta e una forza che può fermare per sempre la macchina della guerra -il capitalismo- e che può costruire l'alternativa -socialista- alla barbarie di questo sistema. Il posto della sinistra rivoluzionaria di Rifondazione, Progetto comunista, della nuova Associazione a cui abbiamo dato vita nei mesi scorsi, è lì: nel partito, nella costruzione del movimento contro la guerra, nel movimento contro l'occupazione coloniale dell'Irak che dovremo sviluppare con comitati unitari in ogni luogo di lavoro e di studio. Per marxianamente "costruire nelle lotte presenti il futuro del movimento".

Un futuro che noi vediamo nella battaglia per preparare la cacciata del governo del guerrafondaio Berlusconi: ma non per lasciare spazio a un governo dei guerrafondai ulivisti. Un futuro dunque che non può essere costruito in alleanza col centro liberale della borghesia, per la semplice ragione che con la borghesia e coi liberali, con il capitalismo e i suoi governi, non c'è futuro né per il movimento né per la pace.

Un futuro che significa schierarsi realmente oggi contro i briganti imperialisti, dalla parte dell'Irak e della sua resistenza all'invasione delle truppe coloniali, contro il protettorato militare, sia sostenuto da caschi verdi o blu, sia fatto dai soli USA o concertato con l'Europa sotto il consunto mantello ONU, già servito per coprire decenni di guerre.

 

(4 aprile 2003)

 

 

(1) Posizione espressa in più occasioni: v. tra l'altro l'editoriale del 2/4 del responsabile nazionale esteri, Gennaro Migliore: "(siamo contro l'ipotesi) di una lunga resistenza irakena"; o la garbata polemica, negli stessi giorni, di

Rina Gagliardi contro la posizione espressa da Il Manifesto.

(2) Intervista di Schroeder a Die Zeit, cit. da G. Ambrosino in "Soldi alla Bundeswehr", Il Manifesto, 28/03/03).

(3) "C'è spazio anche per noi." titolo dell'intervista al viceministro delle Attività produttive, Urso, sul penultimo numero di Limes.