I mille colori del riformismo disobbediente

 Dal reddito di cittadinanza alla “fisicità come valore”

 

di Fabiana Stefanoni*

 

Le mobilitazioni contro la guerra hanno preso vita prima che l’aggressione imperialista all’Iraq - annunciata e scontata - avesse inizio: blocchi dei convogli militari, sciopero nei porti, assedi di ambasciate e consolati. Dopo lo scoppio del conflitto, tali azioni dirette contro la guerra - che i marxisti rivoluzionari non possono che sostenere attivamente - si sono moltiplicate, dando vita a manifestazioni spontanee, occupazioni di stazioni ferroviarie, di scuole ed Università: uno schiaffo al ridicolo atteggiamento delle burocrazie sindacali che, dopo aver annunciato per mesi l’indizione immediata di uno sciopero generale all’indomani dello scoppio della guerra, si sono limitate a convocare un ridicolo e simbolico scioperino “pomeridiano” di sole due ore. Diversamente, immediata è stata la “risposta” dell’apparato Cgil e dei vertici dell’Ulivo di fronte alle azioni di boicottaggio antimilitarista: riconfermandosi fedeli sostenitori della legalità borghese, hanno preso le distanze da qualsiasi gesto al di fuori delle righe del dettame costituzionale. Nulla di cui stupirsi del resto: il centro liberale dell’Ulivo (D’Alema e Rutelli in testa), rappresentante privilegiato di settori consistenti del padronato italiano, si culla nell’alveo dell’imperialismo europeo, sotto l’ala protettiva di Francia e Germania. Di contro a tali atteggiamenti “legalitari”, i comunisti rivoluzionari rivendicano il boicottaggio antimilitarista, quale possibile vettore dello sviluppo del movimento di massa contro la guerra e, quindi, quale pratica che, in ultima istanza, trova il proprio senso nella prospettiva rivoluzionaria socialista.

È proprio l’imprescindibilità di tale prospettiva - ai fini d’una reale pace mondiale - che rende riduttivo e fuorviante l’utilizzo, da parte di settori del movimento e dei mass-media, del termine “disobbedienza” per caratterizzare le azioni di boicottaggio antimilitarista. Ciò non solo perché, con tale espressione, immediato e spontaneo è il rimando ai movimenti per i diritti civili d’ispirazione democratico-liberale - limitati in quanto privi d’una prospettiva antisistema -, ma anche perché oggi, in Italia, “disobbedienza” è sinonimo di una ben precisa organizzazione politica, che fa capo a Casarini ed è dotata di un programma (per quanto vago e contraddittorio) di stampo riformista. Cogliere i primordi storici dell’utilizzo di questa espressione e ricostruire gli sviluppi del “partito” di Casarini può essere utile per sfatare una serie di luoghi comuni circa la presunta radicalità di questa parola d’ordine, che tanto fascino pare esercitare anche sui giovani del Prc.

 

Volendo ripercorrere le origini dell’utilizzo politico del termine disobbedienza, occorre volgersi alla prima metà dell’Ottocento, in particolare all’opera ed al pensiero di un tale Henry David Thoreau, nel cui saggio più famoso si teorizza la legittimità, o meglio il dovere morale, di disobbedire alle leggi ingiuste d’un ordinamento statuale (“disobbedienza civile”). Thoreau si rifiutò in prima persona di pagare le imposte in occasione della guerra schiavista contro il Messico, a dimostrazione della praticabilità delle proprie teorie. Ben lungi da lui l’intento di mettere in discussione la legittimità dell’ordinamento politico americano del tempo: lo scopo del suo propagandare voleva essere, a suo stesso dire, quello di spronare i singoli cittadini a forme d’obiezione di coscienza in grado di condizionare in senso riformatore l’operato del governo (“io non chiedo che si abolisca immediatamente il governo, ma chiedo immediatamente un governo migliore”). Gli insegnamenti di Thoreau sono stati ripresi nel ventesimo secolo da Ghandi e Martin Luther King, i quali sostennero e rivendicarono la disobbedienza civile, coniugandola al rifiuto aprioristico della violenza e alla richiesta dell’estensione dei diritti civili, nell’accettazione di fondo dell’ordinamento borghese. Le campagne di boicottaggio, la resistenza passiva di fronte alla repressione poliziesca e militare, la teorizzazione della non-violenza s’iscrivevano nel quadro di una battaglia di stampo umanitario che, di fronte alla brutalità del colonialismo inglese ed alla tracotanza delle amministrazioni statunitensi, si mostrava incapace di coniugare le istanze democratiche e sociali ad una prospettiva anticapitalistica. L’espressione “disobbedienza” si è dunque connessa, sin dal suo nascere, con approcci riformatori e di mera pressione sui governi borghesi, naturale alleata di una cultura democratico-pacifista aliena da qualsivoglia progetto di rivoluzione sociale. Le stesse coordinate definiscono, per molti aspetti, l’odierno utilizzo del termine disobbedienza: non a caso, non solo il prete ribelle don Vitaliano Della Sala rivendica l’utilizzo di questa pratica, ma altri esponenti del mondo cattolico la definiscono un “obbligo morale” per i cristiani (si vedano le dichiarazioni di don Gallo e di vari rappresentanti di Pax Christi).

Pure, accanto a questo richiamo generico, convive oggi, in Italia, una struttura organizzata che ha fatto dell’utilizzo mediatico della disobbedienza il carattere identificativo del proprio agire: mi riferisco, ovviamente, ai disobbedienti di Casarini, che, dopo aver dato vita al cosiddetto “laboratorio della disobbedienza” (cui anche il gruppo dirigente dei Giovani comunisti ha deciso di aderire), sono affluiti in massa nei Verdi. L’approdo in un partito dell’Ulivo - partecipe dei recenti governi di centrosinistra (nonostante la guerra nei Balcani, nonostante le politiche antioperaie...) - potrà forse stupire chi si lascia ingannare dai gesti eclatanti e apparentemente arditi degli adepti disobbedienti. In realtà, la nascita dei Verdi Disobbedienti non è altro che l’esito di un percorso politico che, fin dal suo nascere, è stato segnato da strategie e programmi incapaci di configurare un’alternativa di sistema.

L’antecedente storico immediato del “movimento dei disobbedienti e delle disobbedienti” sono le cosiddette “Tute bianche” (o “Invisibili”) che, fino a qualche anno fa, vestendo appunto candide tutine, rendevano nota la loro presenza nei cortei e davano vita a quotidiani blitz mass-mediatici: occupazioni lampo, intromissioni a sorpresa nelle trasmissioni televisive, scene di scontro con la polizia nel corso delle manifestazioni. Difficile era sottrarsi all’impressione di radicalità di questi gruppi: non a caso hanno cominciato ad attirare le simpatie di molti giovani - in particolare dei centri sociali -, attratti dalle scene di gioiosa guerriglia urbana che segnavano gli spezzoni degli “Invisibili”. Sennonché, si trattava di scontri fittizi ed innocui, accuratamente concordati con le questure in virtù d’uno scambio che per diverso tempo s’è rivelato proficuo per gli uni e per gli altri: la polizia vedeva garantito il controllo della piazza, evitando il rischio di scontri reali più difficili da gestire; le Tute bianche potevano vantare una visibilità che garantiva loro l’attenzione di giornalisti e televisioni. Del resto, questi accordi erano esplicitamente rivendicati dagli organizzatori: prioritario e imprescindibile ai fini di qualsiasi attività politica diventava il cosiddetto “approccio mass-mediatico”, a prezzo anche di trattare col diavolo... Non a caso, gli esponenti delle Tute bianche sono stati tra i più accaniti oppositori, in vista di Genova 2001, della proposta di costituire un servizio d’ordine funzionale all’autodifesa dei cortei: a che poteva servire a loro un servizio d’ordine essendo abituati a giocherellare con la polizia per puro scherzo? Fatto sta che a Genova i celerini non sono stati al gioco, hanno dato pieno sfogo alla natura repressiva della loro funzione e, come tutti ricordiamo bene, le cariche e le manganellate sono state reali e dolorose: tutto ciò ha gettato le Tute bianche in un’impasse, costringendole a ripensare le pratiche del proprio agire. Esito della vicenda: l’organizzazione si è formalmente sciolta (abbandonando definitivamente ogni richiamo al bianco o all’invisibilità), si è abbandonata la pretesa di monopolizzare le piazze con spettacolari scontri-farsa e si è optato per la disobbedienza tout-court. Gli artefici del passaggio hanno giustificato il cambio di rotta con arzigogolati argomenti circa la necessità di passare a “nuovi modi” del disobbedire: di fatto, questo significava dare la priorità, rispetto all’ormai impraticabile recita di piazza, a gesti eclatanti di pura immagine, compiuti da pochi arditi col fine immutato di finire in Tv o sulle prime pagine dei giornali (occupazioni simboliche di Mc Donald’s, piccoli sabotaggi notturni e diurni, utilizzo di vernici dai vari colori per imbrattare i “luoghi del potere”). Ad oggi è ancora questa la “tattica” adottata: si tratta spesso di gesti minoritari, puramente simbolici, incapaci di coniugarsi ad una radicalizzazione di massa. Il richiamo va, spesso e volentieri, alla biopolitica dello “slancio vitale”, alla “resistenza dei corpi” di fronte ad un presunto Impero, alla “fisicità come valore”, all’“energetica intelligenza creativa” (si veda la rivista Global di Negri, Casarini & co., ch’è zeppa d’espressioni di questo tipo). Tale linguaggio, che fa appello alla “creatività delle moltitudini”, sottende, al di là delle pratiche, un progetto politico - per quanto vago - di fatto riformista, subalterno al capitalismo e, non a caso, subordinato alla “sinistra verde” (Cento) e quindi alle forze del centrosinistra. Una critica proficua della disobbedienza non può prescindere dalla disamina delle proposte e piattaforme rivendicative che affiancano gli atti dimostrativi: le prime e non quest’ultimi rappresentano l’elemento centrale della disobbedienza. Limitarsi a rigettare in modo pregiudiziale e talvolta moralistico le pratiche proprie dei disobbedienti - come tendono a fare ad esempio i compagni dell’area dell’Ernesto e di Falce e martello -, senza individuare il nocciolo riformista della loro proposta politica, rischia di dar adito a fraintendimenti e identificazioni grossolane tra atti disobbedienti e azioni, in sé giuste e da rivendicare, di rottura della legalità borghese (è il caso dei centristi di Falce e martello a Bologna, che hanno liquidato come atto disobbediente da rigettarsi l’occupazione prolungata, da parte di immigrati senza casa, di uno stabile abbandonato, solo perché anche un gruppo di disobbedienti l’aveva sostenuta: un’occupazione che è stata pensata in vista della soddisfazione di un bisogno sociale, che ha permesso agli immigrati di far fronte alla necessità di un alloggio e che ha visto impegnati, ovviamente, in prima fila anche i compagni dell’amr Progetto comunista).

La proposta politica centrale che, fin dagli inizi “invisibili”, ha accompagnato l’evoluzione della disobbedienza di casa nostra è il cosiddetto reddito di cittadinanza o di esistenza (oggi talvolta ridefinito diritto di cittadinanza globale). L’essenza di questa proposta politica è stata esplicitata a suo tempo da uno dei suoi più accaniti sostenitori, Andrea Fumagalli (cfr. la raccolta di saggi Tute Bianche, DeriveApprodi 1999): la rivendicazione che i nuovi movimenti dovrebbero far propria è la “richiesta dell’erogazione di una somma monetaria a scadenza regolare in modo da garantire una vita dignitosa, indipendentemente dalla prestazione lavorativa” (p. 15), appunto il reddito di cittadinanza. Una proposta che, in sé, non varia di molto dalla rivendicazione di un salario garantito ai disoccupati (da noi sostenuta in un’ottica transitoria di superamento del capitalismo), ma che, nei modi in cui si articola nelle proposte di Tute bianche e disobbedienti, si coniuga ad una strategia di compromesso con il padronato. Di più! Si dice esplicitamente che il reddito di cittadinanza è inteso come uno “strumento salvifico per la dinamica del processo di accumulazione capitalistico” (p. 23): è cioè un antidoto alle crisi economiche perché, “come tutte le conquiste sociali costringe gli imprenditori ad introdurre innovazioni tecnologiche in grado di contrastare il rischio di fallimento economico” (sic!). Insomma, per dirla con uno slogan riassuntivo: disoccupati e imprenditori di tutto il mondo unitevi, il reddito di cittadinanza salverà il capitalismo... (“il reddito di cittadinanza è una misura riformatrice e non rivoluzionaria, in quanto non viene intaccato il potere degli imprenditori di gestire in modo unilaterale l’attività produttiva e la tecnologia”, p. 28). E per articolare la proposta in termini concreti, già nel ’99 s’estraeva dal cappello nientemeno che la proposta riformista della Tobin tax, pensata come mezzo per dar vita ad una distribuzione più equa delle risorse, ingenuamente creduta possibile in un contesto capitalistico di produzione. La proposta del reddito di cittadinanza è ancora oggi al centro delle proposte politiche dei disobbedienti, rinverdita dalle teorie imperiali di Toni Negri, il quale nel suo celebre libro Empire, dopo centinaia di pagine di roboanti elogi delle forze creative della moltitudine e dei suoi rivoluzionari poteri costituenti, giunge finalmente a pagina 370 ad esplicitare il succo della sua proposta politica: “esigere che lo status giuridico della popolazione sia riformato in funzione delle trasformazioni economiche degli ultimi anni”. Un esempio pratico? poiché la produzione capitalistica ha bisogno del lavoro immigrato, questo dato di fatto sia “riconosciuto giuridicamente”... (e niente più? Si chiede chi, come noi, crede che solo l’abbattimento del capitalismo e la costruzione del socialismo possa garantire qualsivoglia diritto reale). Nulla da stupirsi, dunque, se ultimamente Negri è giunto fino ad elogiare il ruolo di Francia e Germania quali foriere d’una spinta propulsiva a favore di un “modello anti-liberale di sviluppo economico” europeo (cfr. il numero 1 della rivista Global).

Manca evidentemente, alla base dell’immaginario disobbediente, qualsiasi progetto di superamento dell’esistente: l’approdo nei Verdi e il più generale flirt con le forze dell’Ulivo non è altro che la concretizzazione del riformismo delle proposte del “partito” disobbediente - riformismo forse camuffato, agli occhi di molti giovani, dal carattere apparentemente radicale e ardito di gesti simbolici e spettacolari.

 

*Coordinamento nazionale Giovani Comunisti