L'
INTERVENTO
DI MARCO FERRANDO
AL VI CONGRESSO NAZIONALE
Care
compagne e compagni,
il
segretario ha da tempo indicato come motivo fondante della nuova veste
identitaria della Rifondazione la rottura con lo stalinismo ed i suoi orrori.
Bene.
Ma
con lo stalinismo si può rompere, per così dire, da due versanti
opposti. Si può rompere nel nome di Lenin, dell’Ottobre,
dell’ispirazione originaria del bolscevismo recuperando la radice
rivoluzionaria del suo programma e dei suoi principi, e riattualizzando quel
programma e quei principi nello scenario storico del nostro tempo.
Ma
si può rompere anche da un versante opposto; ossia dal versante di una
tradizione socialdemocratica che ha sempre visto nella rivoluzione d’ottobre
il peccato originario del 900: che ha sempre considerato gli orrori dello
stalinismo non come il riflesso di una casta parassitaria e del suo regime –
quale esso fu – ma come il portato inevitabile della rivoluzione e del potere
dei lavoratori. E che per questo ha giustificato per un intero secolo il proprio
sostegno al potere della borghesia, la propria partecipazione ai suoi governi.
Questa
a me pare è la radice culturale della rifondazione che qui si propone. Non è
una radice nuova, ma antica. E tutto si può dire, con franchezza, tranne che
Bad Godesberg rappresenti una via nuova d’uscita a sinistra dalla crisi del
movimento operaio.
Il
segretario ha qui ribadito che il cuore del congresso non è la questione del
governo ma l’alternativa di società; che la questione del governo va vista
non come “fine” ma come “mezzo” dell’alternativa; e che questo
rappresenterebbe la nostra discontinuità con la tradizione del movimento
operaio del 900.
La
realtà a me pare non solo è diversa, ma è opposta.
In
tutta la storia del 900, tutte le correnti del movimento operaio
che hanno contrastato il marxismo hanno rivendicato l’accesso al governo con i
liberali non come fine ma proprio come “mezzo” di un avanzamento delle
classi subalterne. Così fu ai primordi della socialdemocrazia. Così fu per lo
stalinismo a partire dalla metà degli anni 30. Così fu per l’intera
esperienza del movimento operaio italiano,
dai governi di unità nazionale con Badoglio e De Gasperi sino al
compromesso storico degli anni 70. Ogni volta si è detto: bando ai pregiudizi
ideologici del passato il governo non è certo la terra promessa, ma un mezzo
dell’avanzata.
Il
punto è che l’intera storia reale ha smentito ogni volta proprio questa
impostazione: ogni volta che i partiti operai e i comunisti hanno condiviso
responsabilità ministeriali con i liberali o hanno sostenuto i loro governi ne
è scaturito non un avanzamento ma un arretramento dei lavoratori e spesso la
rivincita della reazione.
Non
esiste una sola eccezione – una sola – a questo riguardo.
Dove
sta dunque il pregiudizio ideologico di cui ci si accusa? Sta nell’assunzione
dell’esperienza storica o nella rimozione di quell’esperienza?
Si
obietta che la questione del governo non va declinata al passato ma inquadrata
nel presente e nella svolta d’epoca del nostro tempo. Eppure tanto più oggi,
dopo il crollo dell’URSS e sullo sfondo della crisi capitalistica mondiale, i
cosidetti governi riformatori progressisti, ogni volta idolatrati a sinistra,
non solo rinunciano ad ogni riforma sociale, ma impongono quelle controriforme
radicali che i tradizionali governi conservatori spesso faticano a realizzare.
Si
idolatrava Jospin, nel nostro partito: ma Jospin ha bombardato i Balcani,
flessibilizzato il lavoro, privatizzato imprese e servizi con la complicità dei
ministri del partito comunista. E il risultato è stato un disastro per i
lavoratori, un disastro per il PCF, e la vittoria di Raffarin e Chirac….
Si
idolatrava Lula nel nostro partito,
sino a presentarlo come emblema della possibile conciliazione tra governo e
nuovo movimento altermondialista. Ma Lula colpisce la previdenza pubblica, nega
la terra ai contadini, abbatte le spese sociali sino ad essere indicato ad
esempio dal F.M.I. per la sua fedeltà ai dettami dalla Banca mondiale. Mi
chiedo: non dovremmo avvertire l’esigenza di un bilancio onesto dei nostri
giudizi?
Ma
soprattutto, compagni, trovo significativo che al piede di partenza di una
ennesima proposta di governo Prodi non si senta il bisogno di spendere una sola
parola di bilancio nella quasi totalità degli altri documenti congressuali
sulla nostra esperienza di sostegno al primo governo Prodi tra il 96/98.
Anche
nel ’96 la maggioranza dirigente del partito annunciò l’inizio di “un
nuovo corso riformatore in Italia”. Anche allora si accusò la minoranza di
settarismo.
Né
mancavano allora le cosidette “condizioni” che alcuni oggi ripropongono come
garanzia di un buon accordo di governo: anzi
redigemmo il cosidetto “programma dei 100 giorni” che comprendeva il
nostro impegno solenne, cito alla lettera, a “non sostenere mai misure e
provvedimenti legati alla compatibilità di Maastricht”.
Ebbene:
per oltre due anni senza ministri ma nella maggioranza di governo votammo tutte
le misure imposte da Maastricht, dalle finanziarie di 70.000 miliardi,
al fatidico pacchetto Treu, dai campi di detenzione per gli immigrati,
alle misure di rottamazione a sostegno della Fiat. Ciò che contò, come
sempre, non furono le nostre formali intenzioni o i paletti ma la natura di
classe di quel governo.
I
successivi governi dell’Ulivo, senza di noi, continuarono l’opera che col
nostro voto era stata intrapresa, sino all’immancabile ritorno di Berlusconi.
Chiedo: questo bilancio di verità spetta solo a Progetto Comunista o interessa,
tanto più oggi, l’intero partito? Riguarda solo il passato o interroga il
nostro futuro?
Molte
cose sono cambiate da allora, si obietta, ed è vero, molte cose sono cambiate.
Tutti noi abbiamo rilevato la crisi di consenso delle politiche dominanti nel
mondo e la nuova stagione dei movimenti di lotta che da quella crisi si è
sprigionata. Tutti noi abbiamo visto e vediamo in Italia il segno delle nuove
potenzialità internazionali, in questi anni di lotte contro Berlusconi e il
padronato, le politiche di guerra. E tutti noi abbiamo colto e cogliamo le
contraddizioni profonde che anche in virtù di questa nuova stagione si sono
prodotte nel campo del Centrosinistra e del suo blocco sociale. Altro che
ignorare le contraddizioni! Sì, c’è una contraddizione
profonda tra 11 milioni di lavoratori e giovani che votano per
l’estensione dell’articolo 18 e quel Centro ulivista che si schiera con
Berlusconi e Confindustria. C’è una contraddizione profonda tra milioni di
pacifisti mobilitati contro la guerra e il concetto scolpito da Prodi, pochi
giorni or sono sul Corriere della Sera secondo cui persino una guerra preventiva
è legittima se è umanitaria e benedetta dall’ONU. C’è di riflesso una
contraddizione nuova tra le forze della sinistra sociale e politica che in
questi anni sono state con noi da questa parte della barricata
e quelle forze del Centro liberale dell’Ulivo che sono state estranee o
ostili a tutti i passaggi decisivi dei movimenti.
Proprio
per questo sono io che chiedo: si può volgere le spalle a questa contraddizione
ricomponendola nella gabbia mortale dell’Unione, sotto la guida di Prodi? Si
possono assumere 11 milioni di lavoratori e giovani come dote di rappresentanza
da portare all’altare di una nuova concertazione politica e sociale con i loro
avversari? E ai compagni che ripetono, come un disco rotto, la teoria della
possibile contaminazione del Centro liberale da parte dei movimenti vorrei
chiedere con molta semplicità: se dopo la più grande stagione dei movimenti
degli ultimi 30 anni, Prodi rivendica il Welcome Bush e Fassino richiama
l’eredità di Craxi, possiamo continuare ad alimentare un’illusione o
dobbiamo finalmente prendere atto della realtà?
La
realtà è che il Centro dell’Ulivo non esprime semplicemente idee diverse, ma
ragioni sociali contrapposte alle ragioni dei lavoratori.
Ragioni
e interessi del grande capitale di questo paese, dei vertici di Confindustria,
di tutte le grandi banche; forze che hanno fatto affari con Berlusconi ma non si
sono mai identificate col berlusconismo.
Sono
forze che preoccupate dalla ripresa dei movimenti cui proprio Berlusconi ha
spianato la strada, chiedono oggi il ritorno alla pace sociale, quindi alla
concertazione, quindi a un governo di Centrosinistra che si faccia regista di un
nuovo patto tra capitale e lavoro. Al solo scopo di imbrigliare le lotte,
disinnescare la miccia, creare le condizioni di una nuova stagione di austerità
e di sacrifici in un quadro di passività e rassegnazione sociale.
Per
questo vogliono che il governo di Centrosinistra sia privato di un’opposizione
comunista. Perché solo così possono cercare di evitare che le reazioni sociali
a quelle politiche possano disporre di un
canale d’espressione. Perché solo così possono corresponsabilizzare il
nostro partito nella gestione di quella politica per un’intera legislatura.
Caro
Bertinotti: se oggi tutto il centro liberale e la sua stampa, plaudono alla tua
svolta di governo non è solo perché salutano con soddisfazione quello che loro
chiamano “il ritorno del figliol prodigo” ma perché sentono che
l’ingresso del nostro partito nel loro governo sarebbe di fatto funzionale al
loro disegno, non a un nuovo mondo possibile.
A
chi ci dice che la prospettiva di governo dell’Unione è necessaria per
cacciare Berlusconi, rispondiamo che è vero l’opposto: già oggi, il solo
inseguimento di un’alternanza di governo sotto la guida di Prodi nel segno del
rilancio della concertazione paralizza l’opposizione di massa a tutto
vantaggio di Berlusconi.
Parlano
i fatti. Nell’estate scorsa il governo Berlusconi era considerato morto. Ma
nessuna forza della sinistra ha proposto un’iniziativa di mobilitazione che
potesse puntare alla sua caduta. Non la direzione CGIL, abbagliata dall’astro
nascente di Montezemolo. Non le forze della sinistra di alternativa
impegnate a discutere le primarie con Prodi. Non certo Prodi che anzi
augurava a Berlusconi di restare sino al 2006 completando il lavoro sporco su
sanità, pensioni, enti locali, in modo da alleggerire gli oneri del futuro
governo di centrosinistra.
Il
risultato di tutto questo è stato un disastro. Il governo ha ricomposto le sue
contraddizioni e ha rilanciato la sua offensiva, senza incontrare su nessun
terreno un’opposizione reale di massa, né sulla finanziaria,
né sul terreno istituzionale e democratico, né sulla guerra e la
spedizione in Irak . Su ogni terreno l’Unione con Prodi è andata avanti, i
movimenti sono andati indietro.
Ci
si può meravigliare se gli stessi sondaggi, in questo clima, documentano la
ripresa elettorale del Cavaliere sino a minacciare seriamente l’eventualità
di una sua vittoria nel 2006?
La
verità è che la grande Unione per le sue stesse basi di classe non solo è
nemica dell’alternativa, ma è un punto di forza di Berlusconi. E che solo una
rottura col Centro può liberare un’opposizione vera mirata non solo a
partecipare, ma a vincere.
Questa
è la nostra proposta alternativa. La proposta di un polo autonomo di classe in
Italia. Non è una proposta di arroccamento settario del nostro partito, di
passività e di testimonianza. Al contrario. E’ una proposta rivolta
unitariamente all’intera sinistra sociale e politica italiana perché rinunci
alla passività e alla testimonianza cui la costringe la subordinazione a Prodi.
Perché si assuma le proprie autonome responsabilità agli occhi della propria
base di massa. Perché dia una prospettiva unificante di azione e di lotta a
quei milioni di lavoratori e di giovani che in questi anni si sono mobilitati
contro Berlusconi ma alla ricerca di un’alternativa vera.
Significa
innanzitutto rilanciare una campagna di massa per il ritiro immediato e
incondizionato delle truppe dall’Irak, dal Kosovo, dall’Afghanistan,
rifiutando di subordinarlo al multilateralismo di Prodi cioé ai negoziati delle
potenze coloniali; riconoscendo il diritto di resistenza e autodeterminazione
del popolo irakeno; contrastando il colonialismo italiano e i suoi interessi in
Irak, a partire dall’Eni.
E
così sul decisivo fronte sociale. Anche qui il problema non è come costruire
un programma comune al fianco delle imprese e alla coda della concertazione. Ma
come unificare nella lotta l’enorme domanda salariale che sale dal lavoro
dipendente; come unificare nella lotta la domanda di abolizione di quelle leggi
di precarizzazione del lavoro che da Treu a Maroni hanno devastato la condizione
di milioni di lavoratori. Come unire nella lotta le 2500 vertenze disperate che
fabbrica per fabbrica vedono i lavoratori difendere, in ordine sparso, il
proprio posto di lavoro: magari dicendo noi finalmente in un’Italia abituata a
licenziare i lavoratori, che si possono licenziare i padroni, che le aziende che
hanno usufruito per decenni di risorse pubbliche pagate dalle tasche di tutti
per mettere in strada i loro operai, debbono essere nazionalizzate; senza
indennizzo perché di indennizzi ne hanno avuto sin troppi; e sotto il controllo
dei lavoratori, perché solo quel controllo può garantire i posti di lavoro,
favorire l’autorganizzazione di massa, cambiare i rapporti di forza.
A
chi ci dicesse che questo è attentare alla proprietà privata, rispondiamo che
è vero. Infatti siamo comunisti.
A
chi invece invoca il buon senso del realismo, a chi dice che il problema è
guardare ai risultati concreti e possibili e non alla luna, vorrei obiettare
che ad ogni latitudine del mondo le stesse riforme parziali, gli stessi
risultati concreti sono venuti non dai governi ma dall’opposizione, non dal
compromesso con la borghesia, ma dalla radicalità della prova di forza contro
la borghesia e i suoi governi di ogni colore.
Non
il governo di centrosinistra ma l’autunno caldo ha strappato lo Statuto dei
lavoratori. Non il governo Lula ma le sollevazioni popolari in Argentina e
Bolivia hanno costretto le classi dominanti a un passo indietro, bloccando le
privatizzazioni e spostando in avanti i rapporti di forza. Non il governo Jospin
ma lo sciopero a oltranza di 20 giorni dei lavoratori francesi contro il governo
di centrodestra di Juppé ha difeso la previdenza pubblica, sino a rovesciare
quello stesso governo.
E
qui, in questi anni, non sono stati gli scioperi rituali, di calendario, di
Cofferati o Epifani ad aver prodotto i risultati, ma solo lo sciopero a oltranza
degli operai di Melfi, l’azione di massa prolungata di Scanzano, il blocco
continuativo delle merci in Fincantieri, tutte forme di lotta nuove che hanno
rotto la vecchia routine della burocrazia sindacale; tutte forme di lotta a
lungo giudicate impossibili o perdenti dalla stessa direzione del nostro partito
e che invece hanno mostrato sul campo la propria capacità di vincere.
Ecco,
noi proponiamo che il nostro partito lavori alla generalizzazione di queste
esperienze vincenti, si batta tra i lavoratori e in tutti i sindacati per una
grande vertenza generale unificante su una comune piattaforma di lotta che miri
davvero ad andare sino in fondo: che miri davvero a rovesciare dal basso i
rapporti di forza, a invertire la china degli anni 80 e 90, ad aprire finalmente
una pagina nuova. Solo così si può davvero puntare a cacciare Berlusconi, dal
versante delle ragioni dei lavoratori. Ma soprattutto solo così si può aprire
il varco di un’alternativa vera, di una prospettiva di governo dei lavoratori
e delle lavoratrici, basato sulla loro forza, sulla loro autorganizzazione, sul
loro potere.
Potere
dei lavoratori. Noi non abbiamo paura delle parole. In un Congresso in cui tutto
ruota attorno alla prospettiva del governo Prodi; in un Congresso in cui da un
lato si irride alla conquista del palazzo d’Inverno e dall’altro si chiedono
ministri a Palazzo Chigi; in un Congresso in cui si assume il dogma metafisico
della non violenza salvo disporsi a governare con i campioni delle guerre
umanitarie, noi affermiamo che solo il potere dei lavoratori e delle lavoratrici
può segnare un’alternativa vera di società. Solo il potere dei lavoratori e
delle lavoratrici può porre fine allo strapotere delle grandi banche e delle
grandi imprese, può concentrare le leve dell’economia nelle mani di chi
produce, può rimpiazzare l’apparato burocratico del vecchio stato, estraneo
ed ostile, con la forma organizzata di una democrazia nuova e vera nella quale
sia finalmente la maggioranza della società il nuovo soggetto del potere, a
fare la legge e ad imporne il rispetto.
A
chi ci rimproverasse di recuperare il programma di Marx della dittatura dei
lavoratori, vorrei porre la semplice domanda:
non è forse dittatura, nella nostra democrazia, l’attuale
dominio delle grandi industrie e delle banche su ogni aspetto della vita
sociale, in Italia, in Europa, nel mondo?
Qui
in Italia, dopo la vicenda di Tangentopoli e la cosidetta moralizzazione della
seconda Repubblica, gli Uffici della Camera,
documentano per il 2004 le faraoniche donazioni di denaro di industriali
e banchieri a tutte le principali forze politiche di governo di centrodestra e
di centrosinistra, da Forza Italia, ad Alleanza Nazionale, dalla Margherita alla
maggioranza D.S.. Pochi hanno ripreso questa notizia. Nessuno ha gridato allo
scandalo. E a ragione: non c’è infatti nessuno scandalo. E’ la normale
attività di lobbing di ogni normale democrazia borghese, in cui i gruppi
dominanti si assicurano attenzioni e benemerenze dai propri governi;
indifferenti al colore di chi governa perché in ogni caso è il proprio
governo, per dirla con Marx: il comitato dei propri affari.
Ebbene
noi crediamo che i comunisti debbano battersi per un’altra democrazia. Non sta
scritto su nessuna tavola della legge che il governo di questo paese debba
unicamente seguire il pendolo dell’alternanza tra reazionari e liberali, tra
il governo reazionario del parvenù Berlusconi legato agli interessi privati del
suo clan e il governo liberale del centrosinistra legato alla rappresentanza
generale del capitalismo italiano. Insomma: tra il governo del padrone e il
governo dei padroni.
Possono
governare i lavoratori, i loro partiti, le loro organizzazioni, ma solo contro
le classi dominanti del paese, solo se si liberano di ogni soggezione a questo
Stato, alle regole quotidiane della sottomissione, di quella cultura della
rinuncia che per tanto tempo è stata propagata nelle loro fila.
Ebbene:
io credo che la ragione stessa di un Partito Comunista sia di sviluppare in ogni
momento e in ogni lotta questa prospettiva di rivoluzione,
costruendo tra le masse la fiducia nella propria forza;
E
viceversa: rimuovere quella prospettiva magari nel nome del “nuovo”, del
rifiuto del potere o della suggestione ideologica non violenta, non solo ci
porta alle antiche teorie del premarxismo del primo 800, ma ci porta alla
subordinazione al potere esistente, ai suoi ministeri, alla sua violenza. Non
solo rimuove il socialismo, ma cancella, di conseguenza, la stessa opposizione
comunista.
Questo
è il rischio che oggi sovrasta il nostro partito.
Care
compagne, cari compagni
quindici
anni fa costruimmo il nostro partito come “cuore dell’opposizione” in
alternativa a un P.D.S. che accusavamo testualmente di “essere dominato
dall’idea di accedere in un modo o nell’altro nell’area di governo”.
Queste erano le parole che accompagnarono il nostro esordio: “Ci vuole una
forza che giorno dopo giorno ricostruisca l’opposizione. Solo così si pongono
le basi per l’alternativa del futuro”.
L’alternativa
del futuro in realtà fu rimossa e con essa la rifondazione di un progetto
comunista e rivoluzionario che ricollocasse la nostra impresa in un bilancio
autentico del 900: e questo ha indebolito sin dalle origini le radici
dell’opposizione comunista esponendola a più riprese a scissioni governiste e
alla deriva del 96-98.
E
tuttavia è oggi per la prima volta che l’esistenza stessa dell’opposizione
comunista nel nostro paese è messa organicamente in discussione. Per la prima
volta nella nostra storia la svolta governativa assume un vincolo di
legislatura, si accompagna all’ingresso in un’organica alleanza di
centrosinistra, si colloca all’interno di un consolidato bipolarismo, è
salutata a braccia aperte dall’intero liberalismo italiano.
Per
questo l’allarme è grande in
larga parte del nostro partito. E mai era avvenuto che la mozione del segretario
raccogliesse un dissenso che travalica il 40% dei votanti: ciò che significa
un dissenso ancora più vasto nel corpo attivo dei militanti del partito.
No,
compagno Bertinotti. Tu hai vinto
il Congresso, non hai convinto il partito.
Questo
fatto sottolinea ancor più l’esigenza della continuità della battaglia
politica nel nostro partito, dopo questo congresso, nel rapporto quotidiano e
vivo con tutti i compagni, al di là di ogni steccato di mozione, contrastando
da un lato ogni fenomeno di sfiducia e disimpegno,
ma sviluppando dall’altro la chiarezza di una proposta coerentemente
alternativa che l’esperienza dei fatti giorno dopo giorno concorrerà a rafforzare.
E
qui mi rivolgo, in particolare, all’insieme dei compagni e delle compagne che
in questo congresso hanno promosso mozioni critiche nei confronti della svolta.
Cari
compagni e compagne, il 40% dei consensi richiama una responsabilità comune da
affrontare, nella chiarezza. Sono evidenti le differenze politiche e persino
strategiche tra le diverse mozioni di minoranza. Le abbiamo dibattute e
verificate nel congresso. Per parte nostra ribadiamo interamente, com’è
naturale, la nostra critica di fondo a posizionamenti politici che ci pare
continuano a evadere il nodo della collocazione di fondo del partito, restando a
metà del guado.
Ma
resta il fatto che dal basso e in forme diverse quasi metà del partito ha
formalmente respinto la svolta di governo che è stata proposta dal Segretario,
quasi metà del partito ha espresso, nel suo sentimento profondo, la comune
volontà di non disperdere nell’abbraccio di governo le
ragioni sociali e politiche che abbiamo raccolto in tanti anni di
opposizione.
A
questa domanda dobbiamo rispondere insieme, a partire dalle conclusioni di
questo congresso, unendo le nostre forze contro la svolta: nel rispetto
dell’autonomia politica di ogni soggetto ma superando ogni logica
autoconservativa di nicchia, piccola o grande, come ogni logica di
compromesso con quel corso politico di maggioranza che metà del partito
ha contrastato. E non solo perché sarebbe ben singolare – per semplificare
– chiedere i voti contro la linea di Bertinotti e poi usarli come leva di una
ricomposizione negoziale di maggioranza, ma perché la posta in gioco richiede
la nettezza di una battaglia politica alternativa e coerente. Non la pura
pressione critica sul segretario, che peraltro ha mostrato di non tenerne gran
conto, ma un impegno chiaro e comune sul punto di fondo: il carattere
irrinunciabile dell’opposizione comunista e di classe in Italia. Per quanto ci
riguarda continueremo sino in fondo a difendere non la nostra componente come
fine a sé, ma il nostro partito come partito di classe. Perché nessun governo
della borghesia italiana, di Centrodestra o di Centrosinistra, può essere
privato di un’opposizione comunista.