Le politiche sull’immigrazione dei due poli della borghesia italiana

Apartheid in Italia

 

di Federico Bacchiocchi

 

Gli effetti sociali della Bossi-Fini

Più di un anno è passato dal 10 settembre 2002, giorno in cui è entrato in vigore il Ddl 795, noto con il nome ben più sinistro ed evocativo di legge Bossi-Fini, che modifica e integra il Testo unico sull’immigrazione di cui al D. Leg.vo n. 286/98. È possibile un primo bilancio dei suoi effetti sul terreno sociale, non espressamente dichiarati ma impliciti, vista la matrice leghista e post-fascista della legge: l’aggravamento della discriminazione etnica e un’ulteriore lesione dei diritti fondamentali dei lavoratori immigrati sono la principale conseguenza dell’applicazione della legge, mentre non si è neppure prospettata, come era facile prevedere, una soluzione, seppur di destra, alla questione immigrazione.

E’ probabile che siano leggermente diminuiti gli “sbarchi” sulle coste italiane, ma sono vertiginosamente aumentate le morti in mare dovute alle traversate effettuate in condizioni disperate e in balia della criminalità organizzata. Se le stime ufficiali parlano di 700.000 regolarizzazioni di lavoratori immigrati, sono sicuramente migliaia le richieste respinte e i licenziamenti da parte di padroni che si sono rifiutati di mettere in regola i propri dipendenti stranieri. Il lavoratore sotto minaccia di licenziamento o licenziato tout court si è trovato nella condizione di non poter rinnovare il proprio permesso di soggiorno e di dover sottostare a un’alternativa: acquistare a prezzi salatissimi un contratto di lavoro falso (magari dallo stesso datore di lavoro che lo aveva precedentemente licenziato) e cercare così d’ottenere il permesso di soggiorno e quindi un lavoro regolare; o rassegnarsi alla condizione di “clandestino” e accettare un lavoro in nero a condizioni ancora più servili e di ricatto. È perfino successo che la zelante applicazione della legge abbia rappresentato un’indiretta condanna a morte per esuli politici di paesi non propriamente democratici.

Alla destra la legge è servita ad aumentare il numero delle espulsioni al fine di vantare agli occhi dell’opinione pubblica un maggiore rigore nei confronti dell’immigrazione clandestina e, in ossequio all’assioma razzista che vede nell’immigrato un potenziale problema per l’ordine pubblico, una politica più attenta alla sicurezza dei cittadini. Per il padronato, soprattutto quello di piccolo e medio livello, essa è uno strumento potente di ricatto nei confronti di questa parte di lavoratori e, attraverso un feroce dumping sociale, di discriminazione e compressione dei diritti per tutti i lavoratori.

 

Le mobilitazioni contro la legge

Contro la legge e la sua applicazione si sono mobilitati una pluralità di soggetti: il Movimento no-global, le Ong, la Cgil, promuovendo iniziative significative anche se in maniera discontinua e frammentaria. Il calendario delle lotte degli ultimi due anni riporta un succedersi di mobilitazioni importanti a livello nazionale come a livello locale. Esse vanno dalla doppia manifestazione di Roma del gennaio 2002 -organizzata per una parte dai Social Forum, per l’altra dalla Cgil-, allo sciopero nelle fabbriche della provincia di Vicenza del maggio 2002, dagli episodi di contestazione del Centro di Permanenza Temporanea (Cpt) di Bologna della primavera ed estate dello stesso anno, alla grande manifestazione davanti a quello di Torino nel novembre, fino ad arrivare agli episodi più recenti che hanno coinvolto i Cpt di Bari e Trapani e alla giornata di mobilitazione nazionale del 18 dicembre 2003. Tra questi grandi appuntamenti numerosi sono stati gli episodi di lotta a livello locale -ma spesso con una valenza generale- nelle regioni del Nord più industrializzate e in quelle del Sud le cui coste sono state interessate dagli sbarchi della disperazione e i cui mari sono stati teatro di autentiche stragi.

Seppur in tono minore e limitatamente al livello locale, con uno sforzo organizzativo spesso poco adeguato, anche la Cgil, nella quale sono sempre più numerosi gli iscritti immigrati, ha organizzato nell’ultimo anno convegni e manifestazioni contro la legge Bossi-Fini. Le rivendicazioni di queste manifestazioni e le dichiarazioni che le hanno accompagnate testimoniano un atteggiamento da parte della Cgil simile a quello di un’agenzia per i diritti, preoccupata della tutela dei propri iscritti ma assolutamente lontana dal promuovere le lotte di tutti i lavoratori immigrati con una piattaforma rivendicativa unificante. La Bossi-Fini è ritenuta una norma troppo severa, da cambiare e non certo da abrogare. Ma ancora più grave è il fatto che si discrimina tra i regolari e gli irregolari, si coltivano illusioni circa l’umanizzazione dei Cpt –anziché chiedere la loro abolizione- e si arriva fino al punto di denunciare l’inefficacia della Bossi-Fini nel velocizzare e aumentare le… espulsioni (vedi gli articoli dell’ufficio stampa ospitati dal sito web della Cgil nazionale)! Attestata su tali posizioni, la Cgil ha quasi sempre rifiutato di unire le proprie mobilitazioni a quelle del Movimento.

 

La piattaforma del Movimento: il Tavolo Nazionale Migranti

All’interno del Movimento il dibattito sulla questione immigrazione si è sviluppato, pur se a fasi alterne, lungo tutto il percorso delle iniziative di discussione a livello locale come a livello generale, da Genova 2001 a Firenze 2002 a Parigi 2003. Lo testimonia la nascita del Tavolo Nazionale Migranti quale proprio distaccamento specifico sul tema.

Fin da subito la contrarietà ai Cpt e alla legge Bossi-Fini è stata radicale, esplicitata dalla richiesta della immediata chiusura dei primi e dell’abrogazione della seconda. Non bisogna però commettere l’errore di sovrapporre le due istanze. Infatti se sulla legge Bossi-Fini lo scontro è palesemente con la Destra, e per questo il Movimento raccoglie dichiarazioni e disponibilità alla battaglia istituzionale da parte di taluni esponenti e forze politiche del Centro-Sinistra, per quanto riguarda i Cpt la rotta di collisione è proprio verso il Centro-Sinistra e la Sinistra moderata. Infatti tali carceri etniche destinate ai proletari immigrati sono stati istituite al tempo del governo Prodi. Il Movimento ha avuto il merito di porre i termini di entrambe le questioni in maniera netta, costringendo tutte le forze politiche, compresa Rifondazione Comunista, al governo con il Centro-Sinistra quando furono istituiti i Cpt, ad assumersi le proprie responsabilità.

Ma se la posizione assunta dal Movimento nei confronti della legge è chiara, non altrettanto lo è la connotazione da dare in generale alle lotte per i diritti dei cittadini immigrati. Finora non si è andati molto oltre la rivendicazione della libertà di movimento dei migranti, mentre l’essenza di classe della questione immigrazione è stata solo sfiorata da alcuni settori non maggioritari. Si contesta il trattato di Shengen, che regola i flussi migratori verso i paesi europei, perché, mentre elimina le barriere nazionali al movimento delle merci, chiude le frontiere all’immigrazione ledendo il diritto delle persona alla libertà di movimento e di espatrio. Tuttavia, non si vede che, a prescindere del carattere certamente illiberale dell’iperliberista trattato di Shengen, il proletario originario di un paese economicamente dipendente è “libero” di espatriare nella misura in cui è privato dei mezzi per sostenersi ed è perciò costretto dalla necessità di procurare a se stesso e alla propria famiglia un reddito. Rimane dunque prevalente nel Movimento un atteggiamento umanitario, più radicale di quello della Cgil, ma pur sempre volto alla semplice tutela di un settore minoritario e discriminato della società, non alla promozione delle lotte di un soggetto della trasformazione della società stessa.

 

Le responsabilità del Centro-Sinistra

Assolutamente latitanti sono state invece le iniziative dell’Ulivo, limitate a moderatissime prese di posizione contro alla Bossi-Fini di alcuni suoi esponenti. Non poteva essere altrimenti da parte di chi ha promosso e ancora sostiene la Legge 40/98 “Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”, detta anche Legge Turco-Napolitano dal nome dei suoi estensori. Tutti coloro che oggi danno battaglia alla Bossi-Fini sono concordi nel ritenere che quella è stata l’autentico apripista di questa, addirittura molti sostengono che la legge della Destra sarebbe un semplice perfezionamento della legge del Centro-Sinistra. Infatti, nella norma varata al tempo del governo Prodi, l’immigrazione veniva considerata un’emergenza sociale se non di ordine pubblico, da governare rinchiudendo i cosiddetti “clandestini” nei Cpt -istituiti nel frattempo-, aumentando il ricorso alle espulsioni amministrative (un provvedimento penale per un’infrazione amministrativa!) e fissando le quote di ingresso in ossequio alle rigidità del trattato di Shengen e all’opportunità politica.

Ma non finisce qui. Con quella norma non si tralasciava di infierire sui lavoratori immigrati: l'ottenimento del permesso di soggiorno era legato al possesso di un contratto di lavoro regolare (quando è ovvio che per avere un impiego regolare occorre essere già in possesso di un permesso di soggiorno), creando così presupposti per la condizione di ricattabilità in cui oggi si trovano tanti lavoratori nel nostro paese. D’altra parte le norme che affermavano il diritto d’asilo sono rimaste lettera morta, cosicché oggi la Bossi-Fini può ridurre fino ai minimi termini la possibilità di ricorrervi.

Le stesse leggi apparentemente illuminate promosse dalle Giunte regionali a maggioranza ulivista non contraddicono le norme discriminatici vigenti nel nostro paese, ma al massimo ne rappresentano una riverniciatura e un tentativo di razionalizzazione. È il caso del progetto di legge presentato al Consiglio dell’Emilia-Romagna che detta le “Norme per l’integrazione sociale dei cittadini stranieri immigrati”. Esso si basa interamente sulla normativa nazionale, quindi implicitamente riconosce come legittimi gli aspetti più deteriori e discriminatori della Bossi-Fini. Analogamente a questa, la legge emiliana si risolverebbe nella logica delle quote fisse di immigrazione -magari stabilite allargando l’area di interlocuzione ai sindacati maggiormente rappresentativi e a non meglio precisati rappresentanti degli immigrati-, nella discriminazione apparentemente obiettiva ma invece puramente ideologica tra regolari e irregolari, spesso basata sull’arbitrio delle questure; nella promozione di organismi pletorici e senza nessun potere reale come le consulte per l’immigrazione (peraltro già fallite dove sono state istituite); infine, nella concessione del diritto di voto amministrativo come ipotesi da verificare quando invece esso è previsto da un paragrafo della convenzione di Strasburgo a livello europeo.

 

Il voto agli immigrati: il progetto politico di Fini

Il quadro di posizioni appena descritto da ultimo è stato movimentato dalla “provocazione” di Fini. Il leader post-fascista, sorprendendo tutto l’arco delle forze politiche -soprattutto alcuni alleati di governo- e l’opinione pubblica, ha manifestato l’intenzione di presentare una proposta di legge per modificare la Costituzione e riconoscere ai cittadini immigrati il diritto di voto alle elezioni politiche. L’apparenza di una svolta liberale da parte di Fini svanisce se si considerano le condizioni draconiane a cui dovrebbe sottostare l’ipotetico cittadino immigrato per aver diritto al voto: possesso della carta di soggiorno (diversa dal permesso di soggiorno) che si ottiene solo a particolarissime condizioni, residenza in Italia da almeno sei anni, possesso di un contratto di lavoro a tempo indeterminato (un vero paradosso nell’epoca della precarizzazzione di ogni rapporto lavorativo).

Inoltre non vi è nessun ripensamento dei provvedimenti di stampo razzista contenuti nella Bossi-Fini, al contrario si persegue la loro piena legittimazione stabilendo in via definitiva la discriminazione tra pochi immigrati “buoni” e tutti gli altri (possessori di semplice permesso di soggiorno e “clandestini”). È piuttosto probabile che il leader di An persegua l’obiettivo tutto politico di ridefinire il proprio profilo ideologico ed il proprio ruolo all’interno del polo delle destre, magari per candidarsi in futuro alla guida della Destra moderata in contrapposizione simbolica ai settori oltranzisti della Lega e di parte di Forza Italia.

 

Le politiche trasversali dei due poli e la svolta governista del Prc

Ma è necessaria un’ulteriore riflessione. Due sono le ricette per la gestione della "problema" immigrazione, entrambe reazionarie e trasversali ai due poli: quella delle frontiere chiuse e del rigore che risponde all'esigenza politico-elettorale di dare in pasto i lavoratori immigrati "clandestinizzati" alle insicurezze sociali del cittadino medio (ne sono espressione da una parte i fautori del trattato di Shengen nel Centro-Sinistra, dall'altra settori dei principali partiti della Destra e soprattutto la Lega), e quella dell'asservimento del lavoratore immigrato alle esigenze dell'asfittico saggio di profitto del capitale italiano, bisognoso di forza-lavoro a basso costo da sfruttare per spiazzare le rivendicazioni salariali dei lavoratori indigeni e moderare nel complesso il mercato del lavoro (si vedano le lamentale di molti imprenditori soprattutto delle regioni del Nord-est riguardo all'esiguità dei flussi di immigrazione programmati). Il capro espiatorio per una politica securitaria, la guerra tra poveri e la condizione servile dei lavoratori immigrati sono gli obiettivi perseguiti da questi "signori".

Il Prc, ormai orientato alla ricerca, costi quel che costi, dell'accordo di governo con il Centro-Sinistra, nonostante i buoni propositi assunti dalla Conferenza Nazionale sull'Immigrazione del dicembre 2003, si trova a scegliere tra Scilla e Cariddi, tra i sostenitori della fortezza Europa e della discriminazione su base etnica e i sostenitori della formula iperliberista della compressione dei diritti dei lavoratori e dell'umiliazione delle condizioni del lavoro. Contraddicendo palesemente l'intento dichiarato di voler rappresentare gli interessi generali della classe lavoratrice italiana e di combattere il razzismo indotto nell'opinione pubblica dall'identificazione tra l'immigrato e un potenziale soggetto criminoso, la maggioranza dirigente del Prc persegue senza risparmio d’impegno l'obiettivo del governo di collaborazione di classe. Così non solo non si costruisce un argine democratico alla cosiddetta apartheid italiana, ma si disperdono totalmente le potenzialità di lotta dei lavoratori in Italia e si azzerano le ragioni di esistenza del Prc. Solo la costruzione del polo autonomo di classe contrapposto alla destra come al centro liberale del Centrosinistra potrebbe preservare per il futuro tali potenzialità. Solo così il Partito assolverebbe ai propri compiti storici.