Nel
più ampio movimento contro la guerra, da comunisti
Difendere
l'Irak. Via il governo di guerra
di Marco Ferrando
Mentre scriviamo, la corsa verso la guerra accelera,
fortemente, il proprio passo.
La lotta contro la guerra si pone come primo dovere del
movimento operaio, del movimento noglobal, di tutte le forze dell'opposizione
popolare. A partire dalla grande manifestazione del 15 febbraio è essenziale
l'unità d'azione di tutte le forze disponibili attorno a una comune
discriminante di fondo: il rifiuto incondizionato della guerra, l'impegno
incondizionato a contrastarla. A sua volta questo fronte unico di lotta non può
ridursi a cartelli di sigle, petizioni istituzionali, pronunciamenti di buone
coscienze. Deve organizzarsi nei luoghi di lavoro e di studio, radicarsi sul
territorio, sospingere ad ogni livello l'azione di massa. Non si tratta di
testimoniare il dissenso, si tratta di costruire l'opposizione al conflitto. Per
questo la costruzione di comitati d'azione
contro la guerra è la prima esigenza del momento.
Ma dentro la più vasta mobilitazione unitaria, che siamo
i primi a rivendicare, è necessario promuovere -da comunisti- una specifica
piattaforma di "guerra alla guerra". Una piattaforma che contrasti
apertamente le illusioni del pacifismo, tragga sino in fondo le lezioni di un
decennio, lavori a raggruppare, al di là di ogni steccato di partito, una
tendenza anticapitalistica e rivoluzionaria del movimento. Una piattaforma,
innanzitutto, che chiami le cose con il loro nome.
Una
lotta coerente contro la guerra è lotta contro l'imperialismo o non è.
La superpotenza imperialista USA mira ai pozzi di petrolio
e alla supremazia mondiale, grazie alla forza soverchiante delle proprie
"armi di distruzione di massa". L'imperialismo inglese, sospinto dai
propri interessi geostrategici e dalla propria industria bellica, si associa con
entusiasmo. L'imperialismo franco-tedesco oscilla tra la tentazione di un
accodamento via ONU (per partecipare alla spartizione del bottino) e la scelta
di un defilamento (per giocare in proprio sullo scenario mondiale). Russia e
Cina mercanteggiano i propri interessi con i migliori offerenti.
La guerra all'Irak, i suoi tempi e le sue forme, sono
dunque la risultante odiosa di questo cinico gioco del capitalismo mondiale. Così
come le guerre dell'ultimo decennio. Così come le nuove guerre annunciate che
verranno. Solo la messa in discussione delle radici stesse del capitalismo e
dell'imperialismo, solo una rivoluzione socialista internazionale che
riorganizzi l'economia e la società del mondo, in base ai bisogni dell'umanità,
possono guadagnare orizzonti di pace. In alternativa c'è solo un futuro di
guerre per il genere umano. Non esistono "terze vie".
Nessuna
illusione nell'Unione Europea.
Un'eventuale dissociazione franco-tedesca dalla guerra non
deve alimentare nuovi miti sulla UE quale possibile "fattore di pace".
Negli anni Novanta, dopo il crollo dell'Urss, proprio il
decollo del polo imperialistico europeo ha spinto gli USA a contrastare la nuova
concorrenza con lo sviluppo del proprio militarismo. A sua volta, un'Europa
capitalistica "più autonoma" dagli USA sarebbe inevitabilmente
un'Europa "più armata": oggi proprio i circoli borghesi europei
contrari alla guerra angloamericana all'Irak sono in prima fila nel rivendicare
"un forte militarismo europeo". E lo sviluppo delle spese in armamenti
è all'ordine del giorno in ogni Paese imperialista del vecchio continente.
Un'Europa imperialista "sociale, democratica, di pace" è dunque una
totale utopia. Solo un'Europa socialista può essere Europa di pace.
I
nemici della guerra non stanno in alto ma in basso.
Dieci anni di speranze nell'ONU e nella diplomazia
mondiale si sono rivelate, com'era prevedibile, un fallimento. Se la lotta
contro la guerra è lotta contro l'imperialismo, nessuna fiducia o illusione può
essere riposta in quegli organismi internazionali che sono stati e sono, in ogni
caso, un'espressione subalterna dell'imperialismo: uno strumento di copertura
dei suoi crimini, o un'impotente cartina di tornasole di suoi contrasti interni.
Non è l'ONU che può mettere in crisi l'imperialismo. E' l'imperialismo che può
giungere a "mettere in crisi l'ONU", a dissolvere, sotto il peso delle
proprie contraddizioni, la stessa finzione borghese di una "sovranità
mondiale".
Solo la classe operaia, solo i popoli oppressi del mondo
con la propria autonoma mobilitazione e la propria forza, possono contrapporsi
realmente all'imperialismo e alle sue guerre. Il resto è illusione.
La
difesa dell'Irak dall'aggressione è un dovere internazionalista.
Di fronte alle criminali aggressioni imperialiste contro
Paesi dipendenti e i loro popoli, ogni posizione di "neutralità",
fosse pure nel nome della pace, rischia di essere, al di là delle intenzioni,
una copertura dell'imperialismo. All'opposto, solo la difesa incondizionata del
Paese aggredito -oggi l'Irak-; solo la rivendicazione controcorrente della
sconfitta dell'aggressione imperialista rispondono alla coerenza della
mobilitazione antibellica. Che siano le masse operaie e contadine irakene a
rovesciare il regime di Saddam Hussein a favore di un proprio governo. E non i
bombardieri angloamericani a favore di un governo fantoccio e coloniale.
La
lotta per l'autodeterminazione palestinese e la rivoluzione araba è parte
dell'opposizione alla guerra.
Se la lotta contro la guerra è lotta contro
l'imperialismo, il sostegno alla causa dei popoli oppressi è parte
dell'opposizione alla guerra. L'appoggio diretto dello Stato sionista d'Israele
all'aggressione imperialista contro l'Irak fa tanto più oggi della lotta eroica
dei palestinesi un riferimento obbligato del movimento contro la guerra.
Più in generale lo scopo coloniale della guerra, mirata a
rafforzare il controllo imperialista sull'intero Medio Oriente, fa della nazione
araba un alleato strategico della mobilitazione antimperialista. Una
sollevazione delle masse arabe oppresse che rompa con le proprie borghesie
nazionali e i loro regimi corrotti e asserviti è oggi, non a caso, il
principale spauracchio dei Paesi aggressori. Ed è l'unica alternativa vera al
terrorismo reazionario panislamista (Al Quaeda) che si nutre, come ogni
terrorismo, di disperazione impotente e passività.
Per
lo sciopero generale
La mobilitazione in Occidente contro la guerra non può
limitarsi ad oscillare tra fiaccolate silenziose e iniziative simboliche
"disobbedienti". E' necessaria un'azione di massa basata in primo
luogo sulla classe operaia, la sua forza sociale, il suo potenziale di
mobilitazione e di contrasto. La guerra all'Irak, il nuovo corso di guerre che
si annuncia, il nuovo sviluppo delle spese militari che trascina,
significheranno ulteriori sacrifici per i lavoratori d'Occidente.
Alla classe operaia americana ed europea si chiederà di
pagare i costi dell'aggressione coloniale contro lavoratori e popoli di altri
Paesi. Per questo lo sciopero generale, in Italia e in Europa, non è solamente
un atto di solidarietà con altri popoli e altri lavoratori, ma anche
un'autodifesa elementare dei propri interessi contro il proprio imperialismo. La
Cgil non può limitarsi a una dissociazione dal conflitto. Deve preparare contro
la guerra lo sciopero.
La
lotta contro l'imperialismo italiano è parte integrante della lotta
antimilitarista.
L'Italia conta in Irak oltre cinquecento aziende,
partecipa dell'espansione dell'Euro in Medio Oriente, prende parte allo sviluppo
del militarismo europeo con la propria produzione bellica. "Il business
della ricostruzione in Irak": così, letteralmente, titolava in ottobre il
"Sole 24 Ore", promettendo alle aziende italiane lauti profitti su
morti e distruzioni future.
Gli interessi italiani nella guerra vanno dunque
documentati e denunciati. La rivendicazione della nazionalizzazione senza
indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le industrie belliche e di tutte
le aziende coinvolte in speculazioni di guerra va posta con forza nel movimento
antimilitarista.
La
cacciata del governo Berlusconi -per un'alternativa dei lavoratori- è tanto più
riproposta dallo scenario di guerra.
L'annunciato sostegno del governo italiano alla guerra,
quale che sia la sua forma, carica la rivendicazione della "cacciata di
Berlusconi" di una motivazione nuova e di rilevanza internazionale. Una
caduta di Berlusconi, sull'onda della mobilitazione di massa, sarebbe di fatto
la caduta di un governo di guerra, un indebolimento politico del fronte
aggressore, un incoraggiamento all'opposizione alla guerra in ogni Paese. E
rappresenterebbe perciò stesso un contributo alla difesa del popolo irakeno e
delle masse arabe contro l'aggressione imperialista. Peraltro solo un governo
dei lavoratori può rompere sino in fondo con l'imperialismo italiano, i suoi
interesse materiali, il suo apparato militare.
28 gennaio 2003