Ipocrisie della svolta non violenta

Riflessioni sull’ultimo libro di Bertinotti

 

di Michele Terra

 

 

Il primo contatto vero e proprio con l’azione non violenta lo sperimentai nel 1991, durante la prima guerra del Golfo, mentre insieme ad altri tentavo di bloccare treni pieni di carri armati americani (il trainstopping evidentemente non l’hanno inventato i disobbedienti ma è una pratica diffusa dal movimento operaio fin dall’inizio del secolo scorso). Era febbraio, un freddo boia e la neve a mezza gamba, nonostante ciò ci stendemmo sui binari e gridando allegramente “non violenza – non violenza” bloccammo il treno per circa due minuti e poi ci prendemmo un sacco di legnate dagli sbirri ivi accorsi. La nostra azione non cambiò il corso della guerra, tanto meno credo smosse le coscienze di quei signori in divisa che ci presero a calci, pugni e manganellate, in assenza di ogni reazione violenta da parte nostra (a dire il vero furono lanciate un paio di palle di neve all’indirizzo dei carabinieri, ma non mi sentirei di definirla un’azione di resistenza attiva).

Eppure, nonostante esperienze simili siano comuni a tantissimi militanti, la non violenza sembra essere diventata il nuovo dogma portante dell’elaborazione teorica di Fausto Bertinotti e dei suoi seguaci, tanto da esser stata definita in più occasioni come il fondamento del comunismo del nuovo millennio. Forse Bertinotti (difeso da poliziotti armati e servizi d’ordine) e i suoi devoti non le hanno mai prese davvero. Forse non abbastanza.  

In realtà la svolta politica governista della maggioranza del Prc ha bisogno di una sua sovrastruttura, di una legittimazione storica e culturale, di nuovi miti fondativi e padri nobili. A ciò serve il dogma non violento che si vuole imporre al partito. Sostituire i cattivi Marx, Lenin (morti non solo fisicamente ci ha spiegato il segretario) e Trotsky con l’anticomunista e reazionario Gandhi, con una trasfigurata Rosa Luxemburg, oggetto dell’ennesimo postumo revisionismo. Un’operazione che in definitiva vuole portare ad un’omologazione completa al sistema (capitalistico) vigente. Risultano estremamente efficaci le parole del filosofo Costanzo Preve “Bertinotti deve ripudiare la Violenza, opportunamente destoricizzata. E la Violenza aggiungo io, non è che la metafora inquietante della Rivoluzione”[1]

L’importanza data all’argomento da alcuni settori del partito è tale che è uscito recentemente, per Fazi editore, il libro di Bertinotti e altri intitolato Non violenza contente alcuni interventi del convegno sulla non violenza organizzato dal Prc a Venezia nel febbraio del 2004.

Leggendo l’intervento di Bertinotti è chiaro l’intento di creare un “nuovo comunismo” che stravolgendo la storia passata dei comunisti la riduca ad errori ed errori per giungere a sostenere l’inutilità della lotta di classe per il comunismo. Ed è così che Bertinotti si interroga: “E siamo proprio sicuri che per difendere la rivoluzione si dovessero costruire Stati autoritari? E ancora: siamo così certi che i gulag fossero l’unico modo possibile per tenere a freno gli egoismi di una popolazione che era definita nemica della rivoluzione? Quando parliamo di questo penso che abbiamo il dovere di riflettere e anche di essere attraversati da brividi di sgomento”[2] C’è davvero da rimanere sgomenti davanti alla riduzione del comunismo in gulag e stati autoritari, come hanno sempre fatto i reazionari, ma si rimuove completamente la storia di almeno otto decenni di opposizioni di sinistra allo stalinismo. Bertinotti cerca addirittura di inventarsi un Trotsky “cattivo” in quanto rivoluzionario e uno “buono” come critico della burocrazia: “Dal nostro punto di vista è migliore il Trotsky sconfitto da Stalin rispetto a quello che guidava la locomotiva”[3]

Per Bertinotti è quindi la rivoluzione stessa che va aborrita “Penso agli errori e orrori che si sono perpetrati in nome del comunismo. Abbiamo creduto – è bene ricordarlo ancora – che Kronstadt si potesse giustificare di fronte alla prospettiva che la cuoca assumesse la direzione dello Stato. Tutto, anche le cose più terribili, appariva ammissibile (…) oggi quei mezzi non sono solo terribili e orribili, ma sono inefficaci, non hanno alcuna possibilità di portarci alla vittoria, non producono nemmeno nell’immaginario un’alternativa di società”[4]

L’operazione teorica bertinottiana ha bisogno di padri e madri nobili a cui rifarsi: a questo scopo non vengono scomodati personaggi che sarebbero certamente più affini alla svolta governista, quali potrebbero essere Nenni o Lombardi. Per un’ennesima strumentalizzazione Bertinotti e i suoi scelgono Rosa Luxemburg. “Io amo moltissimo Rosa Luxemburg”[5] dice Bertinotti. Eppure Rosa morì a seguito di un tentativo di insurrezione armata. Non appare valido neppure il tentativo di fare della Luxumburg un’antagonista al bolscevismo, tanto che, pur essendo su certe questioni critica, scriveva: “Lenin e Trotsky con i loro amici sono stati i primi che hanno dato l’esempio al proletariato mondiale e sino ad ora sono gli unici che possano gridare ‘io ho osato’ (…) Resta loro immortale merito storico di aver marciato alla testa del proletariato internazionale, conquistando il potere politico, e ponendo praticamente il problema della realizzazione del socialismo (…) Ed è in questo senso che l’avvenire appartiene dappertutto al bolscevismo”[6]

Ma lo stupro ideologico di Rosa Luxemburg non ha pudori: Giorgio Cremaschi, nel suo intervento su Liberazione del 6/2/2004[7], sostiene che “La Luxemburg scriveva che Lenin e Trotsky (Stalin fu irrilevante nell’Ottobre) sottoponevano la dittatura del proletariato a quella del partito. Alla quale si sarebbe sostituita quella del comitato centrale, a sua volta soppiantata da quella di un uomo solo. A questa lucida profezia non c’è nulla da aggiungere.” Invece ci sarebbe da aggiungere che Cremaschi è un pennivendolo poiché la frase in questione non la scrisse la Luxemburg ma Trotsky nel 1904 ne I nostri compiti politici [8]

Bertinotti ha bisogno di altri miti fondativi. I fatti del G8 genovese del 2001 vengono utilizzati all’uopo, anch’essi dovutamente stravolti. Scrive il segretario “Ma a Genova è avvenuto anche un fatto assolutamente inedito, una rottura, una soluzione di continuità rispetto alle nostre modalità di comportamento, alle nostre risposte e alla nostra storia. A quella repressione il movimento – il movimento nella sua articolazione, complessità e unitarietà, dalla suora in preghiera alle tute bianche che forzavano la zona rossa – ha risposto con un comportamento di massa non violento”[9] A parte il fatto che le tute bianche alla zona rossa non sono mai arrivate, ma in realtà non vi fu nessuna scelta unitaria nel movimento per la non violenza a prescindere da ciò che accadeva. Anzi avvenne tutt’altro. Proprio il corteo delle tute bianche a Genova si difese come meglio riuscì dall’aggressione subita. Pur essendo totalmente impreparati, buona parte dei partecipanti a quel corteo utilizzò ogni cosa possibile per reagire, vogliamo ricordare, ad esempio, un blindato dei carabinieri che bruciò, e non per autocombustione. Peraltro la stessa Haidi Giuliani ha parlato a più riprese di fenomeni di resistenza alla violenza poliziesca.

Sugli episodi genovesi Bertinotti arriva ad interpretazioni e paragoni storici quanto meno azzardati: “Lì si è consumata una rottura: in altri tempi, con altre caratteristiche di movimento, come quelle che abbiamo conosciuto all’inizio degli anni settanta, a Genova ci sarebbe stata una strage (…) se non ne è seguita una strage è stato perché il movimento ha rovesciato la logica della repressione, ha battuto un’altra strada, non si è fatto intrappolare nella spirale distruttiva costituita da repressione, violenza e nuova repressione.”[10] Forse il segretario farebbe bene ad usare con più attenzione il termine strage, soprattutto se rapportato agli anni settanta quando l’unica strage di piazza durante una manifestazione fu l’attentato fascista a Piazza della Loggia a Brescia nel 1974. Nemmeno nei momenti più cruenti del 1977, dopo le uccisioni di Lorusso a Bologna e di Giorgiana Masi a Roma, vi furono stragi.

In definitiva l’opzione strategica non violenta che viene proposta non è altro che il supporto ideologico alla svolta governista a cui deve corrispondere una svolta teorica altrettanto profonda, controrivoluzionaria e anticomunista. Altrimenti perché chiedere agli oppressi di rinunciare a resistere e non avanzare, ad esempio, la stessa proposta ai difensori dell’ordine costituito, ai picchiatori e torturatori delle forze dell’ordine visti in azione a Genova?



[1] C. Preve, L’ultima transizione, dal sito www.kelebekler.com

[2] Bertinotti, Menapace, Revelli, Non Violenza, p.10

[3] op. cit. pag.40

[4] op. cit. pag.26

[5] op. cit., p. 37

[6] R. Luxemburg, Scritti politici, Einaudi 1967, p. 595

[7] Anche in La politica della non violenza ed. Liberazione, p. 147

[8] Contenuto in Rivoluzione e polemica sul partito, Lenin/Trotsky/Luxemburg, ed Newton Compton 1976, p. 285

[9] Bertnotti e altri Non Violenza, Fazi 2004, p. 11

[10] op.cit. p. 12