Moltitudini
a braccetto col capitale
Note
sull’ultimo libro di Negri e Hardt
di Fabiana Stefanoni
È recentemente uscita nelle librerie l’ultima copiosa
produzione del duo Negri-Hardt, Moltitudine
(Rizzoli 2004). Prescindendo dalle ragioni editoriali (e pecuniarie) che,
presupponiamo, hanno indotto in due autori di Empire (Harvard University
Press 2000) a dedicarsi a questa nuova impresa, leggendo questo libro si
ha percezione di quali esiti si possono raggiungere quando, nell’analisi del
capitalismo e del contesto politico, si sguinzaglia la fantasia
nell’individuazione di presunte tendenze e bizzarri rapporti di causalità. La
lezione potrebbe servire a chi oggi ci spiega, anche in sede congressuale, che
sull’onda dei movimenti di questi ultimi anni il centrosinistra sarebbe
cambiato, con la conseguente immaginifica possibilità di condizionarne le
politiche in sede di governo.
Nel caso della maggioranza dirigente del Prc,
l’argomentazione ha il sapore di un pretesto: guarda caso il centrosinistra ha
cominciato magicamente a cambiar pelle solo dopo che la segreteria ha avviato le
trattative per un’alleanza organica con l’Ulivo. Il fatto che non esista un
solo esempio concreto che indichi il minimo cambio di rotta nelle politiche dei
liberali dell’Ulivo (maggioranza Ds e Margherita) non sembra turbare le
coscienze di chi si prepara ad occupare comode poltrone ministeriali. Purtroppo,
se è vero che i fatti hanno la testa dura, è pure facilissimo coprirsi gli
occhi e tapparsi le orecchie, fingere che la realtà sia diversa da ciò che è,
costruire espedienti teorici per praticare politiche di collaborazione di classe
chiamandole con altri nomi (“alternativa di società” o “democrazia della
moltitudine” che sia).
Negri e Hardt in questo sono maestri: se la prima parte di
Moltitudine può indurre bonari
sorrisi per l’eccentricità della lettura dello “stato di guerra globale”
e dei processi di ristrutturazione del capitalismo, alla fine dell’opera il
lettore è catapultato con disarmante consequenzialità in proposte politiche di
esplicito sostegno al capitale finanziario internazionale. Ma procediamo con
ordine.
Guerra e reti comunicative: istruzioni per una
resistenza svuotata di significato
Il libro si apre con un’imbarazzata rettifica, camuffata
da “precisazione”, di alcune teorizzazioni - clamorosamente smentite dai
fatti - che erano al centro di Empire:
la Pax Imperii, che i due profetizzavano come immanente in virtù del nuovo ordine
imperiale, oggi si precisa come “simulacro di pace”. Negri e Hardt nel 2000
disegnavano incontrovertibili scenari “internazionalisti e pacifisti”
fruibili a breve termine: qualche cosa la dovevano pur dire di fronte
all’esplosione dei conflitti bellici degli ultimi anni (Afghanistan, Iraq). Se
la cavano con la suddetta precisazione - il fatto che ciò smentisca i due terzi
dell’opera precedente è un particolare insignificante per menti postmoderne
liberate dalle brutali catene della logica classica - e con una brillante
acrobazia si sbilanciano fino ad indicare nello “stato di guerra permanente e
generalizzato” l’essenza del mondo contemporaneo (si veda la prima sezione
del libro, intitolata per l’appunto “Guerra”). Di più: nella postmodernità
la guerra assume un “carattere assoluto e ontologico” (non fosse che si dà
per scontato che anche l’ontologia è svuotata di significato, verrebbe da
pensare che l’unica possibilità che ci resta sia quella di rassegnarci
cristianamente a contemplare la bontà del creato nonostante tutto), siamo cioè
nell’epoca della Quarta Guerra Mondiale (la terza era la Guerra Fredda). La
teoria è ovviamente abbondantemente condita con accenni al “biopotere”,
alla “produzione bellica postfordista” e altre arguzie linguistiche già
note ai lettori di Empire.
Ciò che più colpisce è vedere quali strategie di
resistenza si disegnano di fronte allo “stato di conflittualità globale e
permanente”: è dichiarata vetusta, comunque completamente inefficace e anzi
deleteria a causa del “carattere intrinsecamente antidemocratico”, ogni
forma di resistenza armata. Per gli autori fu grave responsabilità di Engels e
Trotsky in primo luogo l’aver favorito la trasformazione delle bande della
guerriglia in una struttura armata centralizzata: ai loro occhi proprio questo
tipo di organizzazione dell’esercito è stato all’origine di “forme
politiche rigidamente gerarchiche e centralizzate” (definizione che amalgama
in un tutto indistinto sia le esperienze politiche immediatamente successive
alla rivoluzione d’ottobre sia le successive degenerazioni dello stalinismo).
A cosa aggrapparsi dunque oggi per pensare a forme di
resistenza alla guerra globale imperiale? Per individuare nuove strategie
occorre partire da un assunto che Negri e Hardt considerano scontato:
l’avvenuta trasformazione delle forme della produzione sociale nel senso della
“produzione biopolitica”, della “fabbrica sociale” e del “postfordismo”.
Non è qui il caso di dilungarsi a scandagliare il senso di queste perle del
pensiero postoperaista: basta ricordare che da qui deriva la teorizzazione di
“nuove soggettività” resistenti che, sul modello di internet, danno vita a
forme di “reti acefale composte da una pluralità irriducibile di nodi in
comunicazione tra loro”, cioè “le reti delle informazioni, della
comunicazione e della cooperazione”. Cosa concretamente tutto ciò – ahinoi
- significhi al di là delle suggestioni lo si scopre solo dopo qualche
centinaio di pagine. Ma prima bisogna fare i conti con la parte centrale del
libro, che tratta del soggetto stesso dell’opera: la moltitudine.
Moltitudini sovversive in alleanza col capitale
Similmente al precedente, anche questo libro si riduce ad
essere una gran carrellata delle più disparate teorie politico-filosofiche, dai
presocratici ad oggi: l’unico criterio che sottende alla ricostruzione è la
volontà di liquidare come vecchio e retrogrado tutto ciò che nel passato ha
rappresentato istanze di liberazione, teorie marxiste ovviamente comprese. Pure
su questo terreno non mancano incoerenze grossolane - forse dovute a qualche
distratto “taglia e incolla” - come quando, dopo aver denigrato per pagine e
pagine le teorie novecentesche, i due autori proclamano a gran voce la necessità
di “tornare al Settecento”.
Ma, di là da ciò, lo sforzo di caratterizzare la
moltitudine - seppur in maniera astratta e buffamente scimmiottando la critica
di Hegel all’assoluto di Schelling - si basa su una lettura immaginifica della
produzione capitalistica: secondo i nostri autori, una presunta produzione
immateriale e i connessi processi di cooperazione, partecipazione e
comunicazione sarebbero diventati il “luogo del plusvalore”. Staremmo in
altre parole assistendo ad un cambio epocale, in grado di sancire
l’illegittimità di qualsiasi richiamo alla classe operaia e alle masse quali
soggetti del mutamento. Su queste basi, la moltitudo
si presenta come “concetto aperto e inclusivo” - di contro alla nozione
“esclusiva” di classe operaia -, fondato sulla produzione “biopolitica”
e desideroso di democrazia: è la “molteplicità sociale che è in grado di
comunicare e di agire in comune conservando le proprie differenze interne”. Ciò
che solo si capisce con chiarezza è che il concetto è fumoso, che questa
moltitudine può essere tutto e nulla allo stesso tempo, che non può tradursi
in nessun reale progetto di trasformazione dell’esistente.
Tuttavia, tanto è vago il concetto di moltitudine quanto
sono invece tristemente nitide le politiche che i due autori vogliono
propagandare. L’appello alla creatività, alla comunicazione, alla
“cooperazione autonoma” assume un volto ben più macabro nelle poche pagine
in cui si abbozzano piattaforme rivendicative. Da questo punto di vista la parte
finale - “Esperimenti di riforma globale” - della seconda sezione è
emblematica (qui viene il bello!).
Premessa di tutto il ragionamento è che “al giorno
d’oggi, non c’è alcun conflitto tra riforma e rivoluzione (…). Oggi le
trasformazioni sono talmente radicali che anche le istanze del riformismo
possono comportare mutamenti rivoluzionari”. Detto questo, vediamo come si
articolano le proposte “riformiste” in questione. Nel paragrafo “Riforme
della rappresentanza” si chiede una riforma del Fmi e della Banca Mondiale (sic!) che renda tali istituzioni “più responsabili di fronte al
popolo”. A seguire, si auspica qualche accorgimento nell’organizzazione
delle Nazioni Unite (come il “rivoluzionario” ridimensionamento del potere
del Consiglio di Sicurezza), con l’augurio di espandere a livello mondiale il
modello costituzionale statunitense… Non finisce qui. Nei paragrafi intitolati
“Riforme economiche” e “Riforme biopolitiche”, oltre a rispuntare dal
cappello la Tobin tax e altre rivendicazioni cavallo di battaglia delle
direzioni riformiste del movimento alterglobal,
i due autori si lanciano in sperticati elogi all’Onu, tanto che le stesse
risorse provenienti da quella tassa dovrebbero – ahinoi - finanziare proprio
l’organismo atto a governare gli equilibri tra le potenze imperialiste del
globo…
Ma tutto ciò non è nulla di fronte alla raccapricciante
strategia che giustifica queste proposte (illusorie oltre che incapaci di
configurare un’alternativa di sistema). Il potere sovversivo della moltitudo
di fatto si riduce ad essere una questua rivolta al grande capitale
internazionale e ai suoi organi di rappresentanza. Ciò che Negri e Hardt
esplicitamente auspicano è “una nuova Magna Charta” concessa dalle
cosiddette aristocrazie globali, vale a dire “le grandi multinazionali, le
istituzioni sopranazionali, gli altri grandi stati nazionali e i potenti attori
non nazionali”. Ecco dunque il vero volto politico della teoria dell’Impero
e della moltitudine: “l’alleanza tra le aristocrazie industriali e le moltitudini produttive”.
Dopo aver liquidato le battaglie anticapitaliste quali espressioni di
veteromarxismo, dopo aver esorcizzato qualsiasi tipo di organizzazione partitica
e rivoluzionaria, dopo essersi sbizzarriti per più di trecento pagine
nell’elogio del “nuovo” e del “post”, spunta una proposta politica
contro cui già due secoli fa Marx ed Engels polemizzavano: la proposta di chi
crede sia possibile far affidamento al buon cuore - o agli interessi, poco
cambia - dei capitalisti per risollevare le sorti delle classi oppresse. I
processi costituenti alternativi che Negri e Hardt vagheggiano hanno il sapore
amaro di una presa in giro: ribellatevi, o moltitudini, che a cambiare il mondo
ci pensano Banca Mondiale, Onu e Fmi…