DIBATTITO SULLA NONVIOLENZA: L'ARTICOLO DI RICCI PUBBLICATO SU LIBERAZIONE
Trovate di seguito:
INTERVENTO NEL DIBATTITO SULLA
NONVIOLENZA
di Francesco Ricci
Il dibattito sulla nonviolenza va
affrontato, credo, sia dal punto di vista teorico, sia indagando il legame con
le scelte politiche che si compiono. Un lavoro che meriterebbe la convocazione
di quel congresso straordinario che migliaia di militanti del partito chiedono
con la sottoscrizione della petizione promossa dal compagno Marco Ferrando.
1) Dal punto di vista teorico la
questione investe problemi immediati, perché le classi dominanti oppongono la
violenza dei loro apparati alla crescita dei movimenti mentre il dogma
"nonviolento" prescrive la rinuncia persino a ogni forma di autotutela
dalle aggressioni poliziesche nelle manifestazioni; e investe problemi
strategici, perché nessuno ha finora indicato un modo diverso dalla violenza
rivoluzionaria delle masse per affrontare la resistenza che storicamente la
borghesia contrappone a ogni processo rivoluzionario, resistenza che si
concretizza nel ricorso alle "bande armate a difesa del Capitale"
(l'espressione è di Engels ma pare coniata per i carabinieri in azione tanto a
Genova come a Nassyria).
Leggiamo della presunta necessità di
"superare il Novecento" e certe "sue" categorie. In realtà
è da tre secoli che nel movimento operaio si confrontano due tesi il cui nucleo
non è la legittimità o meno dell'uso della violenza, bensì la volontà o meno
di perseguire il progetto comunista: il tema della violenza è secondario (nel
senso di conseguente) a ciò.
Il vecchio Marx (in una lettera a
Bolte del novembre 1871) definiva il progetto comunista come il movimento
politico della classe operaia "che ha, naturalmente, come fine ultimo la
conquista del potere politico per la classe operaia stessa". Ed è a
partire da questo obiettivo che tanto l'"ottocentesco" Marx quanto il
"novecentesco" Lenin si ponevano il problema della forza. Marx
sosteneva che l'"altro mondo" che i comunisti vogliono costruire non
potrà basarsi sui rapporti di produzione capitalistici e quindi sulle forme
istituzionali sorte per tutelare un sistema economico basato sulla divisione in
classi della società. Di qui la necessità di "spezzare" (e non
"riformare") la macchina statale borghese per sostituirla con altre
istituzioni corrispondenti al nuovo dominio di classe (la Comune). E di qui la
necessità -già indicata nel Manifesto del '48- di affrontare
l'inevitabile resistenza delle classi dominanti, preparando le masse a questa
prospettiva confessando "apertamente che gli intenti [dei comunisti] non
possono essere raggiunti se non per via della violenta sovversione del
tradizionale ordinamento sociale". Un obiettivo che può essere perseguito
solo costruendo l'opposizione di classe a qualsiasi governo borghese (fosse pure
"di sinistra"): non per un moralistico rifiuto del potere, ma perché
la sconfitta di ogni eventuale illusione dei lavoratori in governi
"progressisti" è il presupposto della realizzazione di un governo
"della classe operaia per la classe operaia".
Chi pretende di "superare"
questa "concezione classica" deve quindi dirci non tanto dove
butterebbe Marx (cosa che ad altri può importare poco) ma piuttosto spiegarci
se ritiene che il comunismo corrisponda ancora all'"esproprio degli
espropriatori" e come pensa di convincere gli Agnelli, i Berlusconi e i
Tronchetti Provera a concedere pacificamente che le loro aziende passino nelle
mani dei lavoratori.
Riconosco al compagno Bertinotti di
aver colto la centralità di questo problema quando (Liberazione,
30/11/03) dice di vedere una "assenza in questo movimento del problema
della conquista del potere", una "modalità di comportamento di tanta
parte del 900" che sarebbe stata -a suo avviso positivamente-
"estirpata alla radice". Resta però da capire che senso abbia una
"rifondazione comunista" che non si ponga più l'obiettivo del potere
dei lavoratori. Cosa resterebbe se non la conquista di qualche ministero in un
esecutivo liberale?
Rosa Luxemburg (celebrata in modo
imbarazzante a Berlino anche da ex ministri e aspiranti ministri in governi
liberali) ammoniva chi rifiutava "il colpo di maglio della
rivoluzione":
"(...) è a priori
indispensabile l'aperto riconoscimento della necessità dell'uso della
forza, sia in singoli episodi della lotta di classe, come per la conquista
finale del potere statale; è la forza che può prestare, anche alla nostra
attività pacifista, legale, la sua particolare energia ed efficacia. Se
aprioristicamente e una volta per tutte la socialdemocrazia volesse
effettivamente rinunziare, come le suggeriscono gli opportunisti, all'uso della
forza, e le masse lavoratrici giurassero sulla legalità borghese, prima o poi
tutta la loro lotta parlamentare e, in genere, politica, crollerebbe
miseramente, per dar via libera allo strapotere della violenza reazionaria.
("E per la terza volta
l'esperimento belga", 1902).
2) Solo un ingenuo potrebbe pensare
che sia casuale l'enfasi con cui si sono aperte queste discussioni
"teoriche" in questo preciso momento. Perché si sente
l'urgenza improvvisa di dibattere della religione (per concludere che "non
è più l'oppio dei popoli")?; perché si sottoscrive con i dirigenti
dell'Ulivo -e in rottura con la maggioranza degli attivisti filopalestinesi- un
manifesto a sostegno degli accordi di Ginevra?; perché a fronte della vicenda
Parmalat -che richiederebbe il rilancio del tema della nazionalizzazione e del
controllo dei lavoratori- si invoca una innocua "commissione d'inchiesta
sul capitalismo italiano" (prontamente elogiata dalla Margherita) da
costituire in un parlamento ovviamente composto quasi per intero da impiegati e
amici fidati del capitalismo italiano? E soprattutto: perché la stampa borghese
presta tanta attenzione al nostro dibattito teorico? Non è forse evidente che
gli opinionisti della borghesia esaminano il partito per verificarne il grado di
"affidabilità" in vista di un ingresso di ministri del Prc in un
futuro Prodi bis? E certe prese di posizione della segreteria (apprezzate da Repubblica
come "la Bad Godesberg del Prc") non corrispondono, nei fatti, al
superamento di una prova d'esame?
Per questo, pur ritenendo fondamentale la riflessione sulla teoria, mi pare che non sia possibile (a differenza di quanto fanno, pur con osservazioni in sé condivisibili, Cannavò e Bernocchi) affrontarla separatamente dalla prospettiva che il gruppo dirigente di maggioranza nel suo insieme ha intrapreso. La prospettiva è quella della rinuncia all'opposizione di classe per dare vita a un governo con i liberali dell'Ulivo, nei fatti -al di là delle migliori intenzioni- un'alternanza sulla base del Manifesto di Prodi (flessibilità, privatizzazioni, smantellamento della previdenza pubblica, riarmo) e delle dichiarazioni programmatiche anti-operaie che Rutelli ha rilasciato anche ieri. Una prospettiva che con tanti altri compagni contrasterò perché metterebbe a rischio la sopravvivenza del Prc come partito di classe.